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Storie di donne, letteratura di genere/ 368 – Di Luciana Grillo

Gabriella Kuruvilla, «Maneggiare con cura» – Carla, Diana, Pietro e Manuel sono i protagonisti di un romanzo complesso, duro e avvincente

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Titolo: Maneggiare con cura
Autrice: Gabriella Kuruvilla
 
Editore: Morellini 2020
Collana: Varianti
 
Pagine: 220
Prezzo di copertina: € 14,90
 
Carla, Diana, Pietro e Manuel sono i protagonisti di un romanzo complesso e avvincente, scritto con rigore e qualche durezza, estremamente chiaro e originale nell’impostazione.
Tutto ha inizio con un funerale e con lo stesso funerale si conclude. In mezzo ci sono dieci anni di avventure, di complicazioni, di sballi, di sofferenze… e sempre, alla base, i rapporti intrafamiliari conflittuali.
C’è una mamma, Ashima, che fa da fil rouge nel corso del romanzo; ci sono ricordi dolorosi e voglia di andar via, solitudine e segni tracciati con una matita, disegni di funerali fatti da chi deve elaborare un lutto, la separazione «dai miei genitori che sono rimasti in campagna… ho cominciato ad andare a caccia di riti funebri».
Chi parla, in prima persona, è Carla.
 
Poi è la volta di Diana, per metà indiana, giornalista freelance, che confessa: «…avevo paura. Non del traffico stradale ma di quello d’organi. Che in India valevano più della droga, delle armi e della prostituzione: non ero mica in Italia. E gli organi di una mezza indiana erano più quotati di quelli di una tutta indiana».
Dunque, Diana vive come dimidiata tra due Paesi, tanto diversi tra loro… ripensa a sua madre che «poco prima di suicidarsi, chiusa nel suo studio, creava e distruggeva, sempre la stessa statua. Come una moderna Penelope, che non sembrava aspettare nessun Ulisse: a meno che non avesse dato questo nome alla morte».
 
Diana si chiede «cos’è essere madre? Non lo so, perché non ho mai avuto il coraggio di provare. Ho deciso che non si fanno tentativi, con chi non ha chiesto di farsi esperimento… Non ricordo che lei mi abbia mai abbracciata… Non sono mai riuscita ad abbracciarla: si divincolava ogni volta che ho cercato di farlo… Le streghe cattive delle favole, al confronto, mi sembravano delle fatine».
Diana ricorda l’India, prima conosciuta «attraverso le fotografie e i racconti di mia madre», poi raggiunta quando sua madre, sposata, poteva esibire una perfetta famiglia di emigranti di ritorno che «sorride continuamente. E’ affabile e cortese, a prescindere».
 
Ma che famiglia è quella di Diana? «Non ho mai provato alcun affetto, né per il mio patrigno né per la mia sorellastra. Solo odio, in quanto usurpatori: del mio spazio, del mio tempo, delle mie cose e dei miei affetti».
Il terzo coprotagonista è Pietro, «che è invecchiato fuori, senza crescere dentro», che ricorda suo padre, operaio in fabbrica che «quando tornava a casa, voleva essere trattato come un re. I suoi sudditi eravamo io e mia madre», dunque ancora rapporti tesi, «una convivenza difficile. Da cui tento di smarcarmi, almeno con l’abbigliamento».
È uno scenografo, Pietro, ha una compagna - Amanda - e un futuro «scritto da lei per me. In cui nessuno di noi era veramente felice…».
 
Manuel si racconta parlando di sé e della sua nascita prematura, «sembrava che avessi una gran fretta di venire al mondo. Anche adesso, non sono mai in ritardo…Anche adesso, ho sempre fame».
Più o meno da un decennio frequenta Diana, che invece arriva sempre in ritardo; confessa di aver «trascorso l’adolescenza passando da una ragazza all’altra, da una droga all’altra e da una discoteca all’altra… se sei abituato a essere il protagonista al massimo ti adatti al ruolo di deuteragonista, difficilmente a quello di comparsa. Tanto meno di pubblico. Eppure la vita, a volte, ti mette all’angolo».
Anche Manuel ha rapporti difficili con suo padre, nessun dialogo, «tempo fa gli importava che io studiassi e dessi gli esami, oggi vuole che io lavori e abbia uno stipendio».
 
In realtà, fa il cameriere quando lo chiamano, lo pagano in nero, «in un mese racimolo più di seicento euro. Di solito li spendo tutti in sigarette, droga e alcool…Ma non guadagno mai abbastanza».
E quasi per caso, vive i terribili giorni del luglio 2001 a Genova, incontra Diana, fugge con due ragazzi e torna a casa, sano e salvo.
Sempre casualmente, meno di un mese dopo, ritrova Diana, a quel funerale che – pur non citato se non all’inizio e alla fine – percorre le pagine del romanzo.
Qui mi fermo, rientra in campo Carla e scompiglia le carte, mentre l‘autrice, con l’abilità di una prestigiatrice, capovolge i destini e forse avvia verso una pacificazione con se stessi almeno Carla e Diana.

Luciana Grillo
(Recensioni precedenti)

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