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Storie di donne, letteratura di genere/ 76 – Di Luciana Grillo

Elena Rzevskaja, «Memorie di una interprete di guerra» – Le pagine scorrono veloci, col timore crescente che la storia non insegni niente a nessuno...

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Titolo: Memorie di una interprete di guerra
Autrice: Rzevskaja Elena
 
Editore: Voland 2015 (collana Amazzoni)
Pagine: 461, brossura
 
Traduzione: Daniela Di Sora
Prezzo di copertina: € 20
 
Elena, bielorussa di famiglia ebrea, nata nel 1919, lavora in una fabbrica di orologi fin quando, in seguito all’attacco tedesco subito dall’U.R.S.S. nel 1941, decide di frequentare un corso per interpreti militari.
Dal momento in cui comincia a lavorare, Elena entra in contatto diretto con la guerra, con i regolamenti, con i dispacci, con i documenti, mentre si rende conto che si crea «una nuova concezione del tempo. Non presente, non futuro, ma proteso in un futuro presente, anzi in un futuro evocato, la fine della guerra. Ed evocato flebilmente».
Anche la città cambia fisionomia, «una città è fatta di più strati ed è ancora legata al suo recente passato e dunque non è tutta in guerra. Ma anche gli aspetti ordinari della vita cittadina sono straordinari, adesso. Il profumo dei fiori di tabacco nel nostro cortile. Le stelle che precipitano sulla città da un cielo ora profondo. E’ già agosto, cadono le stelle…».
 
Il viaggio dell’interprete ufficiale verso la guerra è un viaggio verso l’ignoto, eppure «se guardo indietro, posso dirlo con certezza: non siamo mai stati, e non saremo mai più, così spensierati, allegri e leggeri».
Freddo intenso, neve, un po’ si viaggia in treno, un po’ a piedi, o nel cassone di un camion. Una notte Elena si riscalda «rannicchiata sotto una scrivania»; e ascolta, medita: il linguaggio burocratico è freddo e asciutto…«ma chi è venuto a fare rapporto non è un abituale messaggero di morte e non riesce a limitarsi ai tre punti indicati. È passato attraverso il gelo, la neve e le tenebre per portare qui l’ultimo saluto dei caduti, e fare in modo che i posteri ricordino le loro gesta. Ha un solo ascoltatore, me.»
Il compito di Elena è tradurre in russo le risposte dei prigionieri tedeschi attraversando il Paese, fermandosi in case private, entrando quindi in contatto diretto con donne e bambini: «in guerra, e soprattutto sulla linea del fronte, non esiste fardello più pesante dell’essere madre, e di tanti figli, poi. E a lei tocca pure impegnarsi nello sforzo bellico: al mattino (bussano alla finestra) va a sgombrare le strade dalla neve per l’esercito. E le tocca dividere con noi le ultime focacce con semi di lino. Accanto a lei avverto maggiormente il caos della guerra. E la sorprendente fragilità della vita».
 
Per lavoro, Elena, il 3 marzo 1943 arriva a Rzev e dal nome di questa città nasce il suo cognome-pseudonimo. È una città segnata dall’occupazione tedesca, «ogni metro è stato lastricato dal martirio».
Gli spostamenti continuano, è la volta di Varsavia, che «ci osservava dolorosamente dalle voragini carbonizzate delle sue case, dai resti delle pareti strappate via, dalle spettrali ossature dei suoi edifici scarnificati da una valanga di proiettili e di fuoco, da tutto il silenzio delle sue macerie. Queste rovine sono un tragico monumento dello spirito. E quello che esprimono non si può dire con le parole, non si può raffigurare».
E poi Bydgoszcz, e ancora neve, e camion, e luce fioca di candele e i Paesi baltici, Minsk e Riga. L’autrice accenna anche al rapporto con i soldati italiani, prima alleati dei tedeschi,
«avevano combattuto contro di noi e quando l’Italia si era tirata fuori dalla guerra erano stati messi dai tedeschi dietro al filo spinato. E adesso si sentivano smarriti: come li avremmo visti noi?»
 
Il racconto procede, le genti in guerra rivelano la loro natura, ora la crudeltà, ora una inattesa tenerezza.
Sfilano davanti ai nostri occhi di lettori attenti i francesi, i tedeschi, gli italiani, gli inglesi, gli ebrei, i polacchi, le stelle gialle, l’indifferenza di chi – dopo aver patito tanto male – non sa decidere il da farsi.
Elena è riuscita, tra l’altro, a conservare anche alcune lettere ricevute dai prigionieri tedeschi e ce ne presenta qualche frammento.
C’è chi incoraggia il soldato «perché il soldato tedesco è il migliore del mondo», chi scrive «con la speranza che tu sia vivo», oppure con la consapevolezza «che da voi sia un inferno…ma da noi non è meglio. E tu hai tutto il tabacco che vuoi, mentre noi non ne abbiamo…»; si legge anche qualche nota ironica, «Il nemico si avvicina sempre più. In qualche luogo è già sul Reno. Ma quando verrà messa in azione la nuova arma, tutto tornerà a posto. E sai come è fatta? E’ un carro armato con un equipaggio di 53 uomini: uno lo guida, due sparano e gli altri cinquanta lo spingono. Visto che non c’è più benzina».
 
Ogni pagina di questo libro è una finestra aperta su un mondo drammaticamente conosciuto – da noi che siamo nati dopo la guerra – soltanto sui libri di scuola.
Nelle pagine di Elena troviamo testimonianze, sentimenti, ricordi, espressioni terribili e vere.
E anche Hitler, con la sua crudeltà, i suoi collaboratori, il suo mistero (di cui Elena ha svelato ogni aspetto).
Le 442 pagine scorrono veloci, seguite da Note puntuali ed indispensabili: si legge con apprensione, si sente la tensione palpabile dell’interprete e dei suoi interlocutori, si entra nelle città distrutte e nelle case vuote, con un’ansia crescente e col timore che – come sempre – la storia, benché magistra vitae – non insegni niente a nessuno.
 
Luciana Grillo
(Precedenti)

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