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Storie di donne, letteratura di genere/ 88 – Di Luciana Grillo

Alba De Céspedes, «Prima e dopo» – È il primo romanzo di una delle più grandi scrittrici italiane, scomparsa nel 1997

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Titolo: Prima e dopo
Autrice: Alba de Cespedes
 
Editore: Mondadori, 1977
Collana: Collezione Oscar
 
Prima edizione: 1938
Prezzo: Nuovo da Euro 50,84
 
Dopo aver letto con continuità, per vari mesi, tanti romanzi di recentissima pubblicazione, un piccolo libro, comprato su un banchetto dove la cultura si «vende a peso», mi ha incuriosito.
Conosco bene l’autrice, di cui ho scritto anche in «Costruire Letteratura con mani di donna – scrittrici italiane del ’900 e oltre», quindi mi immergo (con qualche perplessità) nella lettura di un romanzo breve e, fin dall’inizio, assai datato, sia per la prosa che per gli ambienti, le sensazioni, i sentimenti che la scrittrice descrive.
 
La protagonista è una giovane donna, Irene, di buona famiglia tradizionalista, che desidera l’indipendenza e l’autonomia economica: si allontana da casa durante la guerra e, quando ritorna, desidera svolgere il lavoro di giornalista e vivere da sola.
Ben diversa la vita della mamma e delle sue sorelle, che non si ribellano alle consuetudini e si adattano volentieri una a prendere il velo, l’altra a vivere con un marito ricco e superficiale.
Il motivo che spinge Irene a riflettere sulle sue scelte è la richiesta della cameriera Erminia di lasciare il lavoro per ritornare a fare la «serva» presso la signora Pasinotti, manifestando in tal modo quella sorta di disagio che provava vivendo con una signorina che preferiva «mangiare su un tavolino ingombro di carte», piuttosto che su una tavola imbandita con cristalli e argenteria, che non possedeva un «tavolo da giuoco», che viveva «sola, sebbene la madre abitasse nella stessa città… nel vedere attorno tanti libri, aveva detto con sussiego che in casa Pasinotti non ce n’era più uno perché la signora aveva finito di studiare…»
 
Irene, dunque, si interroga sulla sua vita, ripensa all’ex fidanzato Maurizio e all’amante Pietro (oggi diremmo “al compagno”), all’amica Adriana, con la quale condivide pensieri e riflessioni, alla madre che l’accoglie «dopo un triste viaggio polveroso tra macerie imbandierate. Scesa dal camion, mi ero ritrovata sola sul marciapiede stringendo un sacco grigio legato da una corda».
E, «prima di farmi entrare nella sua camera» la madre «aveva chiamato il domestico affinché mi spolverasse le scarpe…»
Irene racconta: «Mi aveva abbracciata, avevo sentito il raso della sua vestaglia contro la ruvida stoffa del mio vestito, ed era stato allora che quella nuova infelicità aveva cominciato a pervadermi».
 
Dell’infelicità di allora, Irene sembrava essersi dimenticata, ma l’abbandono di Erminia la mette di fronte alle contraddizioni tra un mondo e un modo di vivere che credeva di aver abbandonato per sempre ed il suo mondo nel quale, insieme a tanti, «ci sentivamo fuori legge. Tentavamo di mostrarci ottimisti, disposti alla pazienza; solo alcuni erano diventati amari, caustici…, pur avendo la speranza che dovesse ancora incominciare, ripetevamo spesso che la giovinezza era finita».
L’angoscia, l’inquietudine, il male di vivere attraversano le vite di questi giovani intellettuali; anche Pietro conferma che «esser liberi significava appunto accettare l’inquietudine, il dubbio… Non osavo confessare che lottavo per la libertà di essere infelici…»
 
E’ in questi concetti, in queste parole che il breve romanzo datato trova la sua forza e, per me, risulta una lettura interessante e costruttiva.
 
Luciana Grillo
(Precedenti recensioni)

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