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Storie di donne, letteratura di genere/ 97 – Di Luciana Grillo

Romana Petri, «Le serenate del Ciclone» – Temevo che fosse troppo lungo, magari noioso. E invece sono andata avanti come un treno

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Titolo: Le serenate del Ciclone
Autrice: Petri Romana
 
Editore: Neri Pozza, 2015
Pagine: 590, brossura
 
Note: disponibile eBook
Prezzo di copertina: € 18,00
 
Avevo letto un altro romanzo della Petri, «Figli dello stesso padre», e pur apprezzando le capacità espositive e l’impianto narrativo, lo avevo trovato troppo lungo, forse anche un po’ noioso. Dunque, ho cominciato a leggere questo con qualche prevenzione.
E invece sono andata avanti come un treno, spinta dalla tenerezza per il Ciclone e dalla curiosità per questa storia complessa e tanto vera da far immaginare a tinte forti la casa, la campagna, la vendita del carbone, i nonni di Mario, detto Ciclone dai suoi amici, padre dell’autrice.
Fra le righe affiora la partecipazione della Petri alle vicende dolorose che hanno segnato la maturità di Terzilia e l’infanzia di Mario.
 
Il romanzo inizia con la nascita di questo bimbo che «si fece le sue prime quattro stagioni dentro a quel cesto di vimini che Terzilia si portava dietro quando al mattino se ne andava a lavorare nei campi».
Mario era destinato a diventare grande come un gigante, ma fragile e insicuro anche da adulto, dotato di una bella voce e di un aspetto piacevole, tanto che canta serenate su commissione, fa il modello per sbarcare il lunario e legge con passione: «Aperse Il vagabondo delle stelle e in quell’universo cadde dentro quasi affogando… Leggeva e si ritrovava ai confini dell’estremo, ma pure così era tutto molto vero… era bello e convincente insieme…».
In seguito, diventa famoso come basso baritono. E qualche volta sgancia pugni micidiali.
 
Gli anni sono quelli difficili del primo dopoguerra, del fascismo, della seconda guerra mondiale, della ricostruzione: dal 1922 al 1985.
I luoghi sono le campagne povere dell’Umbria, poi Perugia, Roma e Milano.
Il fragile Mario debutta alla Scala, sembra sbandarsi, sposa poi la bellissima Lena, diventa attore; ma non sa amministrare il suo patrimonio, spende in maniera generosa e incontrollata. Incontra la Callas («il nome sì, l’avevo sentito molte volte in casa nostra, anche se il babbo la chiamava semplicemente la Maria»), Muti, Von Karajan, la Simionato; conosce Sergio Leone, si avvicina al poeta Alfonso Gatto, ospita nella sua casa sia il fratello che la mamma, ma si sente solo, dimenticato, abbandonato.
E torna nella sua Umbria per morirvi, a 63 anni.
 
La figlia ha ricostruito con tenerezza la storia di suo padre che lei ha prima idealizzato e poi molto amato, al quale –  come ha ammesso in un’intervista – «…ho fatto anche un po’ da madre».
Il linguaggio della Petri sa calarsi nei luoghi e nelle situazioni, rappresenta sia l’Italia povera ai tempi del fascismo che l’Italia in fase di ricostruzione, quando insieme alle case bisognava ricostruire l’identità di un popolo.
 
Luciana Grillo
(Precedenti recensioni)

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