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Storie di donne, letteratura di genere/ 112 – Di Luciana Grillo

Ruth Behar, «Un’isola chiamata casa» – Se andremo a Cuba, dopo la lettura di questo libro, certamente ci andremmo con un’idea «diversa»

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Titolo: Un' isola chiamata casa
Autrice: Behar Ruth
 
Traduttore: Aliberti D.
Editore: Arcoiris 2015 (collana La battaglia dei libri)
 
Pagine: 332, brossura
Prezzo di copertina: € 14,00
 
Cuba è al centro dell’attenzione del mondo intero, da quando fra Obama e Castro, grazie al sostegno di Papa Francesco, pare si stia «sciogliendo il ghiaccio».
Perciò è particolarmente interessante la lettura di questo saggio che indaga la presenza di ebrei a Cuba: in particolare l’autrice parte dal trasferimento di sua nonna dalla Polonia «per portare in salvo il resto della famiglia, prima che cominciasse l’oscura notte dell’Olocausto».
Era il 1927, la nonna di Ruth aveva 19 anni. Poi, l’ascesa al potere di Fidel Castro la costrinse a un nuovo esodo, da Cuba agli U.S.A.
Tocca alla nipote mantenere i contatti con l’isola, portare «libri… tele e colori… vestiti, aspirine, ciabatte, scarpe, sapone… Ero Santa Claus, ero Robin Hood che prendeva ai ricchi per dare ai poveri», salutare la sua famiglia dispersa negli Stati Uniti: marito e figlio nel Michigan, la mamma a New York, il padre «che non mi ha mai salutata prima della mia partenza per Cuba perché era contrario ai miei viaggi» e la nonna Baba che «rimaneva sulla porta del suo appartamento…e cercava di non piangere».
 
Dopo la morte della nonna, nasce in Ruth l’esigenza di cercare quegli «ebrei che hanno fatto di Cuba la propria casa», quindi parte da lontano, da quelli che arrivarono per primi, i «conversos, ebrei spagnoli convertiti al cattolicesimo», seguiti dagli «ebrei statunitensi espatriati che si stabilirono sull’isola dopo la guerra del 1898» e successivamente, nei primi anni del ’900, dagli «ebrei sefarditi provenienti dalla Turchia».
Fu la volta, infine, degli «ebrei ashkenaziti, la maggior parte provenienti dalla Polonia», come la nonna Baba.
I vari gruppi costituirono un’isola nell’isola, ma non diventarono mai un gruppo compatto, tanto che c’era chi parlava in spagnolo, chi in ladino, chi in yddish.
«Quando i miei genitori si sposarono nel 1956, la loro unione fu considerata un matrimonio misto, perché mia madre era ashkenazita e mio padre sefardita».
 
Il nuovo esodo cominciò nel 1965 e portò gli ebrei cubani soprattutto in Israele, a New York e a Miami.
Sui loro passaporti «era stato impresso il timbro salida definitiva… partenza definitiva».
L’autrice aveva 5 anni e conobbe Cuba solo «attraverso le foto della mia famiglia», prima di tornare per una settimana nel 1979.
E poi, tante altre volte, per lavoro e per studio, nel tentativo di dare corpo ai ricordi.
Quindi, ricerche sistematiche, dalle tombe nei cimiteri ebraici alle sinagoghe, dalla macelleria kosher alla ketubah – contratto di matrimonio ebraico scritto in aramaico, – dalle torot portate dalla Turchia alle menorah presenti nelle case.
E così, si arriva ai nostri giorni: gli ebrei rimasti a Cuba possono, quando vogliono, andare in Israele. Significativa una lettera del 2007: «…il più grande evento della mia vita si fa sempre più vicino, il sogno… è sul punto di diventare realtà…Inizierò una nuova vita nell’unico luogo al mondo che conosco a parte la mia bella Cubita, ma non lo conoscerò mai bene come conosco quest’isola».
 
Il libro presenta un ricco apparato iconografico: riproduzioni di documenti, di tombe, di arredi e foto di Humberto Mayol, pluripremiato fotografo dell’Avana, e si chiude con un’accurata cronologia che va dal 1942 al 2007.
Dopo la lettura di questo libro, se andremo a Cuba, certamente ne avremo un’idea «diversa» rispetto a quella dei vacanzieri che prendono il sole sulle spiagge famose.
 
Luciana Grillo
(Precedenti recensioni)

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