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Storie di donne, letteratura di genere/ 224 – Di Luciana Grillo

Barbara Bracco, La saponificatrice di Correggio – L’esempio che spezza lo stereotipo della donna casa e chiesa...

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Titolo: La saponificatrice di Correggio. Una favola nera
Autrice: Barbara Bracco
 
Editore: Il Mulino 2018
Genere: biografie
 
Pagine: 136, Brossura
Prezzo di copertina: € 14
 
Quando ero bambina, ho sentito parlare in casa mia della saponificatrice che, per un certo periodo, aveva abitato nel paese di mio padre.
Si raccontava di una casa misteriosa, da cui uscivano odori nauseabondi, di commessi viaggiatori che si fermavano lì a pernottare e che poi scomparivano misteriosamente e di scarpe da uomo che ogni tanto si trovavano davanti alla porta.
Forse non c’era nulla di vero, solo storie di paese, forse maldicenze, o frutto di profonda antipatia per una donna che sembrava una strega…
Ora questo saggio mi restituisce un po’ di verità: la signora Cianciulli era una donna in carne e ossa, andò a vivere con il marito – concittadino di mio padre – in Emilia, ebbe vari figli e finì in manicomio per ben tre omicidi.
Non si trattò di commessi viaggiatori, ma di tre signore sole, più o meno benestanti, che andarono a casa sua e non ne uscirono più.
 
Il saggio di Barbara Bracco è un affresco estremamente chiaro dell’epoca, della società del tempo, del patriottismo fascista, del mondo superstizioso e pagano nel quale «la ricomposizione sociale e culturale italiana passa ancora una volta attraverso le figure profonde dell’immaginario nazionale e se la beatificazione (e poi la canonizzazione) di Maria Goretti può tornare a ribadire le virtù femminili, è perché esiste Leonarda Cianciulli, la saponificatrice di Correggio, che ne rappresenta la principale e fondamentale antagonista».
 
La Cianciulli, «donna peraltro con caratteristiche fisiche e morali generalmente considerate inadatte al profilo di un’assassina seriale», venne considerata subito folle e si cercarono affannosamente uomini complici, forti e violenti, dal momento che sembrava impossibile che le donne, «irresolute e subalterne» fossero capaci di «agire con la lucidità e la determinazione che consentivano agli uomini di commettere un omicidio o di infliggere gravi ferite; meno che mai si accreditava alle donne inquisite la freddezza della premeditazione».
Se poi la donna era anche accusata di aver distrutto i cadaveri, il procuratore del re manifestava fermamente «una resistenza culturale a immaginare come unica colpevole una normale casalinga».
 
Eppure, era proprio la Cianciulli, sempre, a dominare la scena: gli uomini che vivevano accanto a lei, il marito Raffaele Pansardi, i vicini di casa Aristide Sacchetti, Emilio Vezzani, Medardo Mariani e persino il figlio Giuseppe sono solo figure di contorno; è lei, piccola, esile, con un viso dai caratteri maschili, ad attirare le vittime nella sua abitazione, a ucciderle, a depezzarle e saponificarle, come testimoniano le domestiche, una delle quali - Attilia Diacci - fu così colpita da questi eventi da dover essere ricoverata in manicomio.
Dalle relazioni degli psichiatri che la osservarono, nella Cianciulli «il nesso tra maternità e violenza emergeva potente e tragico… Sin dalle prime battute dell’inchiesta sul palcoscenico dell’intera vicenda c’era lei e solo lei, la sua storia, la sua maternità tragica».
 
Trasferita nel 1941 dal carcere di Reggio Emilia alla sezione criminale del manicomio di Aversa, la saponificatrice si trovò lontana dall’ambiente in cui erano maturati i delitti e cominciò a scrivere un memoriale in cui affrontava il percorso difficile di autoanalisi e autodifesa, in «un ospizio che riduce all’estrema demenza i caduti nelle lotte per la vita, piuttosto che restituirli sani alla società» – come scriveva il commissario prefettizio Angelo Pavone.
La Cianciulli fu tenuta sotto controllo, furono studiati gli episodi di «smarrimento… il sonnambulismo o i frequenti stati di allucinazione, la teatralità, l’istrionismo… l’evidente tendenza allo sdoppiamento della personalità… l’elefantiasi materna» che si manifestava in un amore protettivo ed eccessivo nei confronti dei figli, esasperato ulteriormente dallo scoppio della seconda guerra mondiale che diventava una «ennesima terribile minaccia alla sua prole».
 
Idea madre, centro motore di tutte le altre, nel delirio della Cianciulli, fu quella di poter salvare i figli… mediante sacrifici umani… È un’idea tipica ancestrale… ha informato di sé tutto un periodo preistorico…».
Se, dunque, si cerca di spiegare la storia di questa donna pescando nel passato più remoto e in sentimenti «antichi», c’è anche il procuratore che la giudica «una spietata assassina e un’abile truffatrice… una personalità fuori dall’ordinario…».
 
Comunque, la giustizia fa il suo corso, l’inchiesta fu chiusa nel 1943, «la piccola vicenda di cronaca nera si incrociava con la storia» e il processo ebbe inizio a dieci giorni dal referendum istituzionale, con un clamore che portò in tribunale gli inviati di ben cinque quotidiani - che spesso dedicarono alle udienze la prima pagina - e una gran quantità di curiosi «accalcati dietro le transenne disposte in aula», come se questo processo offrisse «un rito di elaborazione del lutto nel quale il pubblico avrebbe svolto una funzione attiva… il pubblico si stava trasformando in un attore importante, anzi nel coro greco della moderna tragedia giudiziaria».
E il mondo classico irrompeva quando la Cianciulli parlava «dei riti propiziatori per la salvezza dei figli… i soldi servivano a rendere “mio figlio invulnerabile, avendo letto nell’Eneide che Achille era stato reso invulnerabile dai sacrifici resi agli dei da sua madre”».
 
Il processo si conclude con la condanna a trent’anni di reclusione per Leonarda (ritenuta seminferma di mente) e l’assoluzione con formula dubitativa per il figlio Giuseppe, al quale il P.M. si rivolse con espressioni affettuose: «Cerca di dimenticare la mamma. La famiglia è nelle tue mani» mentre la folla, che aveva occupato anche le postazioni degli avvocati, da un lato applaudiva, dall’altro tentava di abbracciare il giovane uomo.
E la saponificatrice, deceduta poi nel 1970, chiedendo perdono a Dio, alla città, ai parenti delle vittime, con gesti teatrali diventa l’esempio che spezza lo stereotipo della donna casa e chiesa, e si propone come «archetipo di straordinaria forza narrativa e sociale» a cui si ispirano per i loro film registi come Mauro Bolognini e Lina Wertmuller.
 
Luciana Grillo – l.grillo@ladigetto.it
(Puntate precedenti)

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