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Storie di donne, letteratura di genere/ 228 – Di Luciana Grillo

Daphne Merkin, «A un passo dalla felicità - Una resa dei conti con la depressione» – La scrittrice mette a nudo la sua storia, le fragilità e gli affetti

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Titolo: A un passo dalla felicità. 
            Una resa dei conti con la depressione 
 

Autrice: Daphne Merkin
Editore: Astoria 2018
 
Pagine: 290, Brossura
Prezzo di copertina: € 18
 
«Sto scrivendo questo libro… per descrivere dall’interno come ci si sente quando si soffre di depressione clinica, in un modo che spero dirà qualcosa sia ai sofferenti sia agli spettatori di questa sofferenza, che si tratti di amici o familiari… Sono molti fattori che rendono la depressione e la cura farmacologica singolarmente soggetti a essere messi in discussione… La depressione viene vista come un continuum con la normale tristezza o infelicità.»
Così scrive Daphne Merkin, e continua: «C’è qualcosa, in questa condizione, che la rende al tempo stesso vergognosa e colpevolizzante…», sottolineando la consapevolezza di chi ne soffre e anche la speranza di riemergere: «…quaggiù, dove la vita pesa come una mantella soffocante, non riesco a ricordare di essermi mai sentita in nessun altro modo».
 
L’autrice racconta il rapporto difficile con la madre, si chiede «come spiegare l’insidiosa crudeltà», confessa di ricorrere «a elevate dosi di farmaci solo per sopravvivere alla giornata, ingoio… stimolatori della dopamina, stabilizzatori dell’umore, euforizzanti, una manciata di pillole… che alterano la chimica del mio cervello…» e di desiderare «moltissimo la presenza di mia madre, tanto quanto lei è inaccessibile…».
La madre è la protagonista principale di questa vicenda: dalla madre la figlia vuole allontanarsi, eppure tra loro c’è un rapporto forte di amore-odio, anzi, per la figlia questo rapporto è un tormento continuo.
«Avevo un desiderio spasmodico di allontanarmi da mia madre eppure venivo colta dal panico ogniqualvolta uscivo dalla sua orbita…»
 
La madre è indifferente, ma «Lei era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est, il mio Ovest… in mia madre c’era un che di decisamente mascolino. Era del tutto priva…del fascino femminile», ma la sua personalità era così forte che «nessuno di noi figli riusciva… ad andarsene di casa… Eravamo tutti legati a mia madre, come da una colla, incapaci di reggerci da soli; era come se l’essere lontani da lei ci mettesse in una situazione di pericolo imprevedibile.
Quando la figlia diventa a sua volta madre di una bimba – Zoe – dopo una depressione post-partum analizza la sua infanzia anaffettiva, teme «di dare troppo rilievo a Zoe, di far sapere agli altri quanto fosse importante…di essere derisa da mia madre se mi fossi troppo sdilinquita su mia figlia, ma temevo anche l’intensità dei miei sentimenti nei confronti di Zoe…».
 
Passeggiando nei ricordi, l’autrice ricorda la tata Jane, sempre temuta, la passione per la lettura forse perché «smaniosa di sfuggire a ciò che mi circondava, e le «domeniche pomeriggio:.. una travolgente sensazione di solitudine».
Quando finalmente guadagna la sua autonomia, l’autrice ha la possibiltà, scrivendo per alcuni giornali, di fare incontri importanti, dal condirettore di «Partisan Review» – pubblicazione dove furono pubblicati una poesia e alcuni saggi – William Phillips allo scrittore Saul Bellow e di essere notata da un prestigioso editore librario che, avendo letto le sue recensioni, la vincolò con un buon contratto affinché scrivesse un romanzo.
 
La giovane donna si sentì apprezzata e protetta: «era fonte di enorme sicurezza, mi confermava al tempo stesso come donna e come intellettuale», Bill la aiutava ad operare scelte editoriali giuste, nonostante «mia madre si facesse costantemente beffe della mia rapida ascesa, inarcando le sopracciglia incredula ogni volta che Bill mandava un’auto aziendale a prendermi».
Un marito, il viaggio di nozze alle Hawaii, una gravidanza non danno serenità alla neosposa: «Come avrei potuto affrontare una maternità quando ero ancora prigioniera di un’antica danza di guerra con mia madre…?».
E una volta nata la bimba, la mamma si sente come sdoppiata: «Una parte di me ama Zoe, ama tutto di lei… però mi sento anche ingabbiata da lei… Certo Zoe starebbe assai meglio se non fosse nata…», si tormenta e si raggomitola in pensieri e azioni terribili.
 
Poi, problemi di lavoro, frequenti ricoveri per la cura della depressione, separazione dal marito, lunga malattia e morte della madre, funzione pubblica nella sinagoga della Quinta Strada, volo insieme ai fratelli per Israele e sepoltura.
«Per quanto in vita la sua presenza fosse stata incostante, continuavo a contare su di lei per sentirmi radicata a terra».
Intanto Zoe diventa grande, va in vacanza con la mamma, frequentano résort di lusso… ma il tempo passa, e Zoe «era più interessata a passare il tempo con la compagnia degli amici di scuola che non con me» e quindi, altro ricovero, nuove dimissioni, vacanze estive trascorse in appartamentini in affitto concluse sempre con la speranza che, una volta tornata a casa, tutto sarebbe andato meglio, «contenta di essere di nuovo tra i miei compagni così familiari, le mie migliaia di libri».
 
Quando comincia a valorizzare ciò che ha – figlia, amici, libri, sole, compagnia – Daphne ricorda i versi del poeta Charles Olson: «Ho dovuto imparare le cose più semplici / per ultime. Questo ha creato difficoltà». «Chi l’avrebbe mai detto che sarei stata a un passo dalla felicità?».
Daphne Merkin mette a nudo la sua storia, le fragilità, gli affetti e riesce – anche se siamo in spiaggia, sotto un ombrellone – a farci entrare in un mondo e in una situazione di cui pensiamo di saper tutto, presuntuosamente, e invece non sappiamo nulla.
 
Luciana Grillo – l.grillo@ladigetto.it
(Recensioni precedenti)

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