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Storie di donne, letteratura di genere/ 284 – Di Luciana Grillo

Edurne Portela, «Meglio l’assenza» – Un romanzo di storie forti e coinvolgenti che raccontano conflitti politici e drammi familiari con impietosa fermezza

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Titolo: Meglio l'assenza
Autrice: Edurne Portela
 
Traduttore: Thais Siciliano
Editore: Lindau 2019
 
Pagine: 288, Brossura
Prezzo di copertina: € 19
 
Edurne Portela è una giovane donna basca con una interessante esperienza presso l’Università of North Carolina.
Il problema e il contrasto fra la Spagna e i Paesi Baschi sono al centro di questo romanzo intenso e drammatico in cui la famiglia che ne è protagonista paga un cospicuo contributo alla «rivoluzione».
Eppure, questo non è un romanzo politico. È la storia complessa di una famiglia in crisi, raccontata impietosamente da Amaia, la figlia di Elvira e Amadeo. Amaia, verso la fine del romanzo, quando da sola in una piccola mansarda vuole liberarsi di tanto dolore scrivendo un romanzo, si chiede: «Da dove mi è venuta l’idea di scrivere un romanzo? La cosa peggiore è non avere niente da raccontare…».
 
Invece Amaia ha tanto da raccontare e parte dalla sua infanzia, dalle poche amiche, dai fratelli che qualche volta la coccolavano, dal padre violento, dalla madre troppo debole.
E considera l’assenza del padre - che comunque, pur dolorosa, è sempre meglio di una presenza inquietante - e l’indifferenza sofferente della madre, incapace di reagire e difendere sé e i figli dalla prepotenza del marito.
 
Amaia bambina si chiude nel silenzio e nella lettura: «Voglio leggere», per non sentire le urla, per non vedere la mamma distrutta dall’alcol, per non sapere cosa combinano i suoi fratelli.
Quello che sa bene è che, siccome è una bambina, «i piatti li devo lavare io. Non vale. Ce ne sono una montagna perché i miei fratelli hanno sporcato tutto. Non è giusto, le cose peggiori toccano sempre a me. Loro guardano il film della sera e io me ne sto qui a lavare i piatti. Le padelle non le lavo».
 
Come studentessa, Amaia non è un modello, «anche a me piacerebbe essere espulsa. Che meraviglia, una settimana senza scuola», e neanche le piace imparare il solfeggio, e vorrebbe essere un maschio: «È normale, essere una bambina è una rottura».
Nell’assenza del padre, nella solitudine desolante della madre, i fratelli prendono strade sbagliate, Anibal muore, ma neanche un lutto così devastante serve a riunire la famiglia.
Amaia vede nel padre la causa di tanta sofferenza, quando durante un breve e burrascoso incontro lui le dice: «Ogni giorno assomigli di meno a tua madre», lei pensa «mi basta non assomigliare a lui, il resto non m’interessa… Pensano che io non mi renda conto di nulla…».
 
Amaia cresce, diventa un’adolescente ed è sempre più sola. La mamma e la nonna in estate vanno in vacanza, ma «non mi invitano ad andare con loro. Del resto non ci sarei andata. Non gliene frega niente di lasciarmi sola. I giorni passano lenti e tutti uguali, e questo rito ripetitivo è come un’altra droga, un letargo. Non sento niente. Né in positivo né in negativo».
A trentacinque anni, dopo essersi allontanata da tutti, con un matrimonio fallito alle spalle e un lavoro perduto, Amaia ritorna a casa, rivede sua madre, ritrova un’amica d’infanzia e decide di scrivere, chiudendosi in un isolamento totale.
 
E finalmente fa i conti con un passato troppo a lungo irrisolto.
Edurne Portela, dopo aver pubblicato ricerche e articoli sulle esperienze di carcere ed esilio delle donne argentine, con questo romanzo si rivela un’abile tessitrice di storie forti e coinvolgenti che raccontano conflitti politici e drammi familiari con impietosa fermezza.
 
Luciana Grillo – l.grillo@ladigetto.it
(Recensioni precedenti)

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