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Storie di donne, letteratura di genere/ 296 – Di Luciana Grillo

Serenella Antoniazzi, «Fantasmi» – Le vite raccontate sono tante, le persone di cui parla con amore rimangono negli occhi e nel cuore di chi legge

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Titolo: Fantasmi
Autrice: Serenella Antoniazzi
 
Editore: Apogeo Editore 2019
Genere: Narrativa contemporanea
 
Pagine: 168 p., Brossura
Prezzo di copertina: € 15
 
Ho già letto e recensito Serenella Antoniazzi (vedi) e con Fantasmi mi ha decisamente stupito perché ha scelto di raccontare – attraverso la testimonianza di Agnese, «un metro e cinquanta di tenacia, caparbietà, generosità e tantissima passione per la sua famiglia e il suo lavoro» – le storie di uomini e donne che trascorrono gli ultimi anni delle loro vite in una Casa di Riposo.
Agnese parla innanzi tutto di sé, delle sue fatiche per studiare lavorando, della sua famiglia d’origine, dei tempi che sono tanto cambiati («niente selfie quando ero ragazza, niente scatti sprecati… oggi gli scatti nell’arco di una giornata, per un adolescente, sono infiniti… la vita quotidiana in vetrina…»), del papà «che ogni sera, al suo rientro a casa dopo una lunga giornata, ci dedicava, uno ad uno, un momento tutto nostro», delle serate passate con i fratellini a catturare le lucciole.
 
Agnese ama il suo lavoro, si dedica ai pazienti con affettuosa premura, anche quando – dopo la legge Basaglia – molti degenti degli ospedali psichiatrici chiusi arrivano nell’istituto in cui lavorava: «il loro arrivo creò un grande scompiglio nella gestione quotidiana delle mansioni. Non era facile comunicare, avevamo paura dei possibili scatti d’ira, di violenza verso se stessi… era l’incognita pazzia a renderci tutti diffidenti e timorosi».
Dunque, Agnese entra in contatto con tante persone di cui cerca di alleviare le sofferenze fisiche e psichiche, la solitudine in cui sono imprigionati, il dolore di sentirsi dimenticati: «Sapersi prendere cura di chi soffre non è da tutti, richiede molta pazienza, un briciolo di ironia e tanto coraggio… Quando indossavo la divisa e mi avviavo nei reparti, il mio senso di inadeguatezza svaniva; non ero una candelina profumata fuori posto, ma una giovane donna in corsa per la vita».
 
Solo per un breve periodo, e per accontentare il marito, Agnese lascia il suo lavoro per collaborare in un’attività commerciale.
Si occupa di gastronomia, e anche in questo caso, viene fuori il suo carattere socievole e disponibile: «con i clienti, quasi tutti residenti, avevo costruito un rapporto confidenziale e amichevole… prima ancora di ordinare, chiedevano di me… sapevo come servirli al meglio, ricordavo cosa avevano in frigo, suggerivo come abbinare gli avanzi che avevano in casa».
Ritorna poi al suo lavoro, convinta «che una Casa di Riposo non può e non deve trasformarsi in un ghetto nel quale si parcheggiano le persone in attesa della morte».
E dunque si avvicina agli ospiti con rispetto e tenerezza e stigmatizza il comportamento di chi «come i figli di Dante… per ben dieci anni non si sono fatti mai vedere. Educato, gentile, premuroso… un sorriso timido che si spense durante il sonno. Rimanemmo sbalordite nell’apprendere che in paese c’erano dei figli, undici per la precisione, con altrettante mogli e il doppio di nipoti…».
 
Anche la figlia di Angela «non ha più tempo né motivo per venire in Casa di Riposo perché, tanto, mi ha sentita al telefono e secondo lei questo basta. A me invece questo non basta proprio! Mi manca tanto la mia famiglia e ancor di più a mia casa, dove ci sono i ricordi di una vita!».
Agnese sa che è difficile, ma necessario «far comprendere ai famigliari il bisogno di genitori anziani che vivono lontano da casa e dagli affetti più cari di sentirsi ancora amati, utili e indispensabili».
Attenzione particolare Agnese dedica alle donne vittime di violenze: «la violenza… non si manifesta soltanto nello stupro, ma anche nel soggiogare, plasmare, sottomettere, terrorizzare madri, mogli e figlie considerate beni di consumo come il cibo, le sigarette, il vino» e racconta le storie terribili di Teresina, che aveva «messo al mondo cinque figli, cinque bambini a cui non aveva dato un nome, non li aveva allattati e accuditi. Bambini dati in adozione? nati morti? Fatti sparire?», di Maria che «aveva avuto ben quindici figli, con un marito ubriacone e fannullone… lavava, cucinava, curava i figli e, al mattino alle tre, si alzava, prendeva la barca per andare in mare aperto… freddo, vento, pioggia, lei calava le reti e aspettava…».
 
Le vite raccontate da Agnese sono tante, le persone di cui parla con amore rimangono negli occhi e nel cuore di chi legge.
Cosa augurare ai lettori e alle lettrici? Di trovare un’Agnese che ci accompagni nella nostra vecchiaia.
E cosa dire a Serenella che ci ha fatto conoscere Agnese? Solo grazie di aver voluto condividere con lettrici e lettori storie di persone «vere».
 
Luciana Grillo - l.grillo@ladigetto.it
(Recensioni precedenti)

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