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Viaggiando nei territori di Israele e Giordania – Di Nadia Clementi

Visitare questi luoghi significa soprattutto comprendere i tanti aspetti e le sfumature che una semplice lettura dei notiziari impedisce di cogliere realisticamente

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Rientrare da un viaggio in Israele e Giordania, terre delle quali abbiamo sentito parlare moltissimo negli ultimi decenni, non è proprio come ritornare da una normale vacanza: visitare questi luoghi significa soprattutto avvicinarsi a comprendere i tanti aspetti e le sfumature che una lettura superficiale dei notiziari impedisce di cogliere realisticamente.
 
La situazione in questo spicchio di terra è complessa e intrisa di trame di potere e violenza e ovviamente non può bastare un breve soggiorno per capirne le mille contraddizioni. 

Certo è che visitando i luoghi, parlando con le persone, osservando gli occhi e lo sconforto di tanti, si riesce ad entrare in contatto con qualcosa che noi Europei abbiamo dimenticato ma che oggi sta drammaticamente tornando a causa dei tanti attentati terroristici: si tratta della precarietà costante, una paura di sottofondo che accompagna ogni gesto, il timore che chiunque, dovunque può esserti nemico.
  

 
Per anni abbiamo sentito parlare del conflitto fra israeliani e palestinesi, dell’Intifada, dei reiterati tentativi di accordo andati in fumo, dell’odio fra due popoli che non riescono a convivere nonostante i tanti passi avanti fatti nel tempo grazie a uomini e donne di buona volontà.
Ma è solo con i propri occhi che si può constatare le continue barriere e divisioni fisiche, psicologiche e spirituali, che sono costanti nel difficile cammino di questo Paese verso la pace.

A Gerusalemme sulla spianata delle moschee i militari sottopongono le persone ad un rigido controllo d’ingresso mentre a Betlemme ci si confronta con la triste realtà del muro di separazione, con il filo spinato anti scavalcamento e i posti di blocco affidati a soldati israeliani armati fino ai denti: è la linea di confine fra Israele e il territorio dell’Autorità Nazionale Palestinese. 

Che Israele abbia il diritto di difendersi e che il muro serva a controllare che dall’altra parte non entrino terroristi è un diritto alla sicurezza legittimo e comprensibile.
Ma la sensazione è quella di essere prigionieri: la cinta muraria, il filo spinato, i gabbiotti blindati delle sentinelle posizionati in cima al muro, i mitragliatori dei militari pronti a sparare all’occorrenza fa pensare di essere chiusi in un recinto.
     
Certo, i turisti possono entrare ed uscire liberamente, ma già il fatto che i militari possano fermare il pullman, salire a bordo armati, controllare il passaporto temendo che ci possa essere un potenziale terrorista, fare domande oltre a quelle già fatte all’aeroporto alla partenza (Da dove vieni? Chi ti ha fatto la valigia? Cosa contiene? Dove l’hai lasciata? Ti hanno detto di portare qualcosa in Israele?) e che rifaranno quando tornerai in Italia, lascia veramente tramortiti. Infatti, pensando alla breve durata del soggiorno, durante il quale ci si sente reclusi, il pensiero che ricorre costante va alle persone che nascono e sono costrette a vivere qui ogni giorno a queste condizioni.


 
In veste di testimone, all'aeroporto di Tel Aviv ci da il benvenuto la statua di Ben Gurion, che per gli israeliani rappresenta il «Padre della patria», l’eroe dell’indipendenza dagli inglesi. Per gli arabi invece altro non è che il simbolo dell’occupazione e dell’oppressione israeliana, la causa e l’origine di tutti i mali, perché lui ha voluto lo stato ebraico, lui ha voluto che i musulmani fossero cacciati dalle loro case, lui ha infatuato gli israeliani spingendoli a «rubare» ciò che non era loro, ossia la terra degli arabi, cristiani o musulmani poco importa.
 
Mentre in Cisgiordania dove c’è il muro, si comprende come l’odio verso Israele non sia affatto una prerogativa degli estremisti di Hamas. Lì, nonostante la zona concessa all’Autorità Nazionale Palestinese la speranza che prima o poi Israele se ne vada e possa essere sconfitta è palese; perché mentre i palestinesi per uscire dal muro devono essere controllati rigorosamente e rispediti indietro, se privi dei necessari lascia passare, gli israeliani possono invece entrare, portare via le persone sospettate di terrorismo, sostanzialmente fare ciò che vogliono poiché hanno occupato militarmente il territorio.
 

 
Invece, in Giordania la situazione è diversa; la convivenza con Israele è possibile, come si intuisce dalle parole della guida turistica, che pur non nascondendo l’amarezza per l’occupazione israeliana nei territori un tempo giordani (Gerusalemme in testa) spera sinceramente che un giorno la pace possa arrivare in tutta la Palestina affinché ebrei, musulmani e cristiani possano vivere insieme.
 
Ma la pace sembra ancora tanto lontana, lo si percepisce anche dal fatto che l’odio dei padri e dei nonni si sia inevitabilmente trasmesso anche ai bambini, sia dai figli degli islamici che urlano sulla spianata contro i turisti ebrei, sia dai figli degli ebrei ortodossi vestiti di nero, con le barbe lunghe e i codini ai lati delle tempie.
Finché i bambini anziché lasciati liberi di giocare fra loro saranno spinti ad odiare colui che prega al di sotto o al di sopra del muro del pianto, la pace rischierà di non essere raggiunta né per questa generazione né per quella futura.
 

 
E anche per i turisti è difficile immaginare la pace, poiché soffermandosi sulla storia di ogni singolo abitante d’Israele, si scopre che ognuno è originario di qualche parte del mondo diversa, formato da un melting pot di razze e culture che basa la propria nascita e vita proprio su questo mix.
 
Basta infatti sedersi per cinque minuti sui gradini che conducono alla Porta di Damasco in Gerusalemme per veder passare molti personaggi del suo variegato mondo: uno o più ebrei ortodossi vestiti nei loro paltò e diretti al Muro del Pianto; un gruppetto di donne velate che vanno a far la spesa nell’affollato suq; un prete cattolico che conduce una comitiva di pellegrini lungo la via Dolorosa; un pope ortodosso carico di incensi e lumini; alcune ragazze in jeans e maglietta dirette allo shopping e gli onnipresenti militari dalle mimetiche verdi e dagli occhi neri.
 

 
Tutti mescolati al vociare dei commercianti e al passeggio dei turisti e dei pellegrini per sottolineare che la straordinarietà di questi territorio risiede proprio nell’essere uno dei più importanti crocevia spirituali del mondo, capitale e culla delle tre principali religioni monoteiste.
 
Il viaggio in questi luoghi è unico anche per questo e se c’è un posto dove il confine è labile è proprio Gerusalemme considerata il centro del mondo: dalla resurrezione passando per l’attesa del giudizio universale fino all’ascensione del profeta; da qui le più grandi religioni monoteiste hanno ideato codici e comportamenti, reso tangibili peccati ed opere di bene, punizioni e promesse di salvezza.
 

 
Eppure proprio qui, in questo luogo che dovrebbe accogliere tutti, carico di storia e pregno di saggezza, i tentativi di conciliazione falliscono e i ruoli si confondono: Chi sono i buoni? Chi i cattivi? I palestinesi senza una terra? Gli israeliani vittime di lontane diaspore e recenti olocausti? I cristiani con le loro antiche e per alcuni nuove crociate?
 
La realtà è colorata o se vogliamo ha mille sfumature, ma adattamento, flessibilità, resilienza sono le parole chiave, le nuove sfide in tempi di continui e rapidi cambiamenti pertanto c'è bisogno di meno prediche e più pratiche, di meno frontiere e muri e più ponti e comprensioni, di più motivazioni e meno deprivazioni, di più idee libere e di meno cattiverie, di ogni sorta.


 
Tante e troppe sono le cose che ti colpiscono nel percorrere luoghi così affascinanti, territori ricchi di una civiltà millenaria, dal patrimonio artistico, culturale inestimabile, ma poi c’è il filo spinato!
Lo si vede anche dove non ci si l’aspetti, è uno dei tanti segni di separazione nel cuore dei Territori palestinesi: filo spinato ovunque e un muro enorme di divisione che segue senza sosta.
 
Gli insediamenti dei coloni che sono un atto di arroganza, il suq di Hebron che resiste e si protegge, una moschea e una sinagoga che si contendono le stesse tombe (Abramo, Isacco e Giacobbe), la grotta della natività, tutto assieme: il bello delle contraddizioni anche se il cielo sopra il filo spinato resta comunque celeste!
 

 
E poi c'è il silenzio. È paradossale, il religioso silenzio che si assapora a Gerusalemme, nella città vecchia se si ha la fortuna di stare per qualche minuto alla Spianata delle Moschee (o Monte del Tempio) o se si ha la possibilità di guardarla da una terrazza panoramica, è qualcosa di sconvolgente. Un silenzio che è intervallato solo dal suono delle campane o dalla voce del Muezzin.
Oppure l’incredibile silenzio lungo la sponda del Mar Morto, nel punto più depresso al mondo, per chilometri e chilometri con una distesa di acqua su un lato e su un fianco costoni di montagne brulle ed enormi. 

Un silenzio che nasconde una tensione di vita (e di morte, purtroppo) unica. Perché dietro questa maschera silenziosa la terra Santa nasconde il brulicare dei mercati e delle piazze, le comitive di pellegrini e turisti, gli internazionali (expat come si dice in gergo) che animano le città di notte nei locali, tranquilli come se si vivesse in una città «normale», uomini e donne che faticano quotidianamente, se palestinesi perché vessati da controlli e mancanza di diritti, se israeliani perché impauriti dalla sola presenza dell’altro.
Nella prossima puntata descriveremo sensazioni ed emozioni che si provano in questi incredibili territori dove sono nate le grandi religioni monoteiste.
 
Nadia Clementi – n.clementi@ladigetto.it
 
(1/4 Continua)


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