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Nemo profeta in Patria – Di Nadia Clementi

Ne abbiamo parlato con l’attore Andrea Castelli che recitando in lingua trentina ha conquistato il Teatro Bellini di Napoli

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È una vita vissuta sul palcoscenico quella di Andrea Castelli: pensare al teatro trentino vuol dire pensare proprio a lui, attore da sempre, prima nella compagnia del padre, il mitico «Club Armonia», poi fondatore dell’irriverente e rivoluzionaria «I Spiazaroi» e da allora non è mai sceso dal palco.
Un attore da sempre e per sempre, Castelli, che in oltre 40 anni di carriera è stato capace di toccare tutte le sfumature dell’animo e del pubblico passando dal comico al teatro di denuncia, dai monologhi alla commedia dell’arte, dall’impegno politico alla leggerezza della lingua dialettale.
Castelli è anche autore di diversi libri: il primo, «Castellinaria», è un piccolo caso letterario in salsa trentina tanto da vantare altri due volumi e una ristampa; tanti gli scritti in dialetto e dal piglio umoristico che hanno consacrato Andrea Castelli come «L’attore trentino per eccellenza».
 
Ma se è vero che uno dei difetti, (o forse pregi? lasciamo il giudizio ai lettori) degli artisti trentini è proprio quella di uscire raramente dai confini provinciali, il nostro Castelli è un’eccezione e un’eccellenza da questo punto di vista.
Gli spettacoli teatrali hanno sempre portato Andrea a muoversi lungo tutto lo Stivale e anche oltre, vista la collaborazione con il LAC di Lugano di cui parleremo a breve, raccogliendo plausi e consensi ovunque.
Non c’è solo teatro nella lunga carriera di Andrea Castelli: la radio innanzitutto, dove sulla rete NBC recita poesie italiane e straniere, poi la televisione dove esordì come regista per poi approdare di fronte alle telecamere con il Maurizio Costanzo Show, agli audiolibri e per sbarcare poi al cinema, con alcune parti nelle grandi produzioni italiane che negli ultimi anni sono approdate in Trentino per girare sceneggiati e film.
 
Eppure il palcoscenico, il sipario, il dietro le quinte, il mormorio in sala prima che calino le luci, la magia del Teatro insomma, quello è il luogo dove Andrea Castelli da sempre ha lasciato il cuore e allo stesso tempo ha catturato il pubblico prodigandosi in ruoli sempre diversi scrollandosi di dosso il marchio di «attore comico», una vera e propria maschera che certi artisti, anche a livelli altissimi, faticano a togliere.
 
Uno dei grandi successi degli ultimi anni è l’interpretazione di Castelli nel ruolo del padre di Mara Cagol nello spettacolo firmato da Angela Demattè «Avevo un bel pallone rosso» con la regia di Carmelo Rifici.
A sette anni dal debutto, lo spettacolo viene ripreso dai teatri italiani con un nuovo allestimento prodotto da «LuganoInScena» ed è stato un nuovo successo con tappe sui più importanti teatri dello Stivale.
«Avevo un bel pallone rosso» è il racconto della storia di Margherita Cagol, conosciuta come Mara, leader e co-fondatrice delle Brigate Rosse.
 
La scenografia è quella di un interno con gli arredi degli anni ’60, tavolo da pranzo in fòrmica e acciaio e sul tavolo una Olivetti «Lettera 32».
Seduta dietro al tavolo c’è Margherita intenta a studiare.
Di tanto in tanto Margherita alza la testa dai libri e con ritmo incalzante rivolge numerose domande al padre che sta dall’altra parte della scena, trincerato dietro la scrivania antica del suo studio.
Sono domande che indagano il mistero della vita, dell’uomo, delle contraddizioni intimamente celate nelle profondità del suo animo e che si esplicano nella capacità di amare o di distruggere.
Il dialogo tra padre e figlia si fa sempre più aperto e profondo, arriva ad ancorare le inquietudini di lei, studentessa alla facoltà di Sociologia di Trento, sempre più coinvolta nelle dinamiche delle contestazioni che alla fine degli anni Sessanta agitavano l’ateneo.
 
Non è solo la storia di un padre e di una figlia, è la storia di due generazioni che si scontrano sullo sfondo della contestazione studentesca e dell’impegno politico; è la pacatezza della tradizione che si scontra con la fede in un ideale più alto; è la ragione che cerca di dialogare con la cecità dell’ideologia.
Lo spettacolo ha concluso di recente la stagione 2018 e una delle ultime repliche è stata al Piccolo Bellini di Napoli dove l’interpretazione di Castelli e di Francesca Porrini hanno riscosso un grande successo, con recensioni entusiaste ed elogi per gli attori.
Un’avventura che Castelli ama raccontare e di cui oggi parleremo insieme tra progetti futuri e bilanci di una carriera piena di soddisfazioni.
 

 
Andrea, partiamo dalla fine della tournée di «Avevo un bel pallone rosso», un testo che l’accompagna nei teatri da oltre 7 anni. Come descriverebbe in una frase questo spettacolo.
«Un bellissimo testo che Angela Dematté ha scritto, tra l’altro, pensando a me, affidandomi il ruolo prezioso del padre, ruolo nel quale mi sono subito sentito a mio agio.»
 
Si tratta di un tema che ha toccato tutt’Italia, ma per il Trentino ha ovviamente un significato particolare. Ci parla delle differenze registrate nell’accoglienza da parte del pubblico e della critica in regione e nel resto d’Italia?
«Più sentito e vivo dal punto di vista della cronaca storica da noi, per forza. Fu accolto benissimo anche qui, ricordo.
«In Italia il respiro si è fatto per forza di cose molto più ampio a comprendere tutto un periodo storico, con uno sguardo più attento anche all’aspetto artistico.»
 
Ci parli del nuovo allestimento e della produzione di LuganoInScena.
«Sono stato felice quando Carmelo Rifici, il regista, mi chiamò da Milano per propormi la ripresa del lavoro. Ho detto subito di sì senza nemmeno pensarci. Un mese a Lugano per le prove a studiare sulle panchine in riva al lago.
«Carmelo ha voluto cambiare il taglio di regia che aveva dato alla prima versione di questo lavoro, otto anni fa, e belle entrambi devo dire: da naturalistica (ambiente piccolo borghese, cucina, mobili, porte e finestre) quando la produsse lo stabile di Bolzano diretto allora da Marco Bernardi (che volle fortemente questa produzione) a multimediale (telecamere, retro-proiezioni, interventi in video) per la produzione di Lugano che nel settembre passato partecipò al Festival Internazionale di Teatro e della scena contemporanea, diretto da Paola Tripoli.
«Lavorare con Carmelo Rifici è una grande fortuna per un attore secondo me. Ti tira fuori cose che tu non sai nemmeno di avere. È un regista che possiede la maieutica. Ho avuto il privilegio di lavorare con lui più di una volta: oltre alle due edizioni del Pallone rosso facemmo insieme La rosa Bianca di L. Graig, L’Officina ancora della Dematté, e il mio Sanguinare inchiostro.
«I mesi col LAC, il teatro di Lugano, sono stati intensi, faticosi, ma ricchi di soddisfazione professionale.»
 

 
Facciamo qualche passo indietro, il suo debutto è avvenuto sul palco, con il Club Armonia e poi l’avventura di «Spiazaroi». Cosa ricorda di quegli anni?
«Ha detto la parola giusta: avventura. Avevo cominciato con mio padre, nel glorioso Club Armonia, quando questo faceva il bel teatro popolare che purtroppo ora non cura più nessuno, almeno in città. Sembra qualcosa di cui vergognarsi.
«Poi però la mia insofferenza verso il repertorio assai circoscritto e paesano di autori e opere locali, mi spinse a cimentarmi con qualcosa che lasciasse i canoni della tradizione più trita e si rapportasse più concretamente -e provocatoriamente- alla realtà, interessando anche i giovani come me (avevo 25 anni).
«Mi misi a scrivere qualcosa da portare sulla scena, non perché mi ritenevo uno scrittore, ma solo perché non circolava nulla che mi piacesse e avevo bisogno di aria nuova. Fummo irriverenti e provocatori, è vero.
«Il pur glorioso Club Armonia mi aveva dato tanto, con i suoi attori eccezionali, mio padre fra tutti, bravissimo sul palco, (ne avessero di attori così!) ma poi il club era diventato preda di mire personali, piccole, e si è pian piano trasformato da compagnia di teatro popolare in qualcosa di diverso senza averne, purtroppo, le qualità e le capacità attoriali.»
 
Ci lasci qualche aneddoto di quell’epoca.
«Bisognerebbe scrivere un libro. Facevamo venire a teatro i giovani, questo secondo me è il più bell’aneddoto che si possa raccontare. Giovani che non necessariamente seguivano il teatro, fosse esso nostrano oppure no.
«Recentemente ad una serata in Vallarsa ho incontrato uno di questi ragazzi di allora che mi ha buttato là una frase commovente: “Castelli, tu non sai nemmeno quanto hai seminato per noi!”.
«Mi è venuta la pelle d’oca. Ora fa teatro anche lui. Queste sono le soddisfazioni, dai.»
 

 
Oltre al teatro lei ha lavorato in televisione, in radio, ha scritto libri e inciso audiolibri. Come cambia il suo approccio a seconda del canale con cui lavora?
«Il segreto sta nel non cambiare affatto. Oggi per essere rivoluzionari basta essere semplici.»
 
«L’aver testato così tanti media e affrontato tante avventure diverse, dal comico al drammatico, le è rimasto qualche rimpianto? Qualche strada non battuta?
No, rimpianti non direi. Ora ho solo paura del comico inteso com’è oggi, al tempo del colera. Si pensa che per essere tali, razza comica cioè, si debba essere cattivi, violenti, volgari. Niente di più sbagliato, secondo me. Scambiare l’ironia col livore porta fuori strada.
«Mi spaventa il pubblico diseducato che ride sguaiatamente alla battuta oscena, al ritmo televisivo del ridi e brucia, senza storia, senza autoironia. Anche se rutto sul palco trovo chi ride, ma che lavoro abbiamo fatto col cervello? Oggi sono i cervelli che dobbiamo cercare…»
 
Dall’analogico al digitale, vede una potenzialità di narrazione anche nel web per quanto la riguarda?
«Lo frequento, lo uso, ma uno come me, con la mia storia, predilige il rapporto diretto. Per forza. No, il web può veicolare un messaggio, pur nel marasma di internet, ma poi è sul palco che voglio andare.»
 
Nell’immaginario dei trentini lei è, da tanto tempo è l’attore comico per eccellenza. Sappiamo che questa definizione le sta stretta. Lei come si considera esattamente? E come le piacerebbe essere vissuto dalla sua gente?
«Io sono per natura un attore. Faccio anche il comico. Non lo rinnego il comico, se fatto con intelligenza: l’ironia per me è il sale della terra, ma come nella vita le cose si mescolano: riso e pianto sono agenti quotidiani.
«Un esempio è proprio il testo della Dematté, dove l’ironia del padre, pur nella sofferenza, fa sorridere. Aborro il manicheismo. Uno che ride sempre è un deficiente (dal latino deficere). Uno che invece piange tutti i giorni è uno sfigato. La mia gente? Mi vuole bene anche se tanti mi accusano di snobbare Trento. La realtà è che Trento non mi offre lavoro, non mi chiama. Istituzionalmente sono ignorato, anche se oggi come oggi ne vado pure fiero. Ma tornerò! Oh, se tornerò!»
 

 
«Nemo profeta in patria», si dice. Lei ha avuto un successo strepitoso a Napoli. E parlando la lingua dialettale trentina. Un’esperienza unica, direi. Può raccontarci come è stato seguito dal pubblico napoletano?
«Napoli mi ha fatto innamorare. In un tempio della napoletanità come il teatro Bellini, con le foto dei grandi napoletani nei corridoi dei camerini, da Totò a Edoardo, ho fatto risuonare per una settimana, la mia lingua famigliare, il dialetto che parlo a Trento tutti i giorni. Stentavo a crederlo.
«Il Piccolo Bellini sempre affollato (tranne una sera che giocava il Napoli) a me e a Francesca Porrini (la mia partner in scena) ha tributato pure applausi in piedi. Io pensavo a certi trentini che quando dico loro che recito a Bolzano mi domandano se a Bolzano capiscono.
«Nessuno a Napoli si è posto il problema. Anzi lodi ed elogi per questo dialetto la cui dolcezza e straordinaria musicalità non conosce (parole della Direttrice).
«C’è da dire che all’interno del lavoro di Angela Dematté, in questa regia di Rifici, avevo pure tante parti in lingua. Poi, leggere su facebook in quello stesso periodo che qualche cima tempestosa qui a Trento aveva sdoganato il dialetto trentino in Consiglio Provinciale mi provocò un afflusso di latte alle ginocchia di proporzioni epocali.»
 
Dopo l’avventura di «Avevo un bel pallone rosso» torna in scena con «La meraviglia». Ci racconta qualcosa di più su questo progetto»
«È un progetto voluto caparbiamente dal Direttore dello stabile di Bolzano Walter Zambaldi e che nell’aprile del 2020 porterò anche a Trento!
«Sarà un monologo con la musica in scena, dal vivo, di Emanuele Dell’Aquila, storica spalla di Paolo Rossi e che ora mi onorerà della sua presenza e della sua arte.
«Farò parlare il bambino che è dentro di noi e che l’adulto nasconde se può, perché se ne vergogna. Inoltre la regia sarà di Leo Muscato, un altro grande regista col quale ho già avuto modo di lavorare. Una regista geniale ed un grande amico.»
 
Cosa bolle in pentola invece nel futuro? Sappiamo dal suo blog che per il 2020 si preannuncia un progetto con un grande regista…
«Ecco, Leo Muscato, sempre lui! Leo mi propone sempre delle gran belle cose e purtroppo a tante sue proposte devo rinunciare.
«Mi ha offerto una parte in un bel testo che esordirà a maggio 2020. Un testo di un autore americano, che a Broadway fu rappresentato per anni, e di cui lo stabile bolzanino ha acquisito i diritti. Forse è prematuro parlarne ora, ma sarà un testo molto attuale e interessante.»

Nadia Clementi – n.clementi@ladigetto.it

Andrea Castelli http://www.andreacastelli.it

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