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Loreta Failoni, «La bisettrice dell’anima» – Di Daniela Larentis

Il romanzo d’esordio dopo dieci anni è sempre attuale, in quanto toccando il tema della Shoah invita a una profonda riflessione sull’orrore della guerra – L’intervista

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Ci sono libri che non hanno tempo ed è bello rileggere: prestandosi a più letture quando li riprendi in mano ti svelano di volta in volta significati più profondi.
Loreta Failoni è autrice di diversi libri di successo, il suo romanzo d’esordio, «La bisettrice dell’anima», l’ha condotta non solo in Italia ma anche oltreoceano, è vincitore peraltro di svariati premi fra i quali il prestigioso Firenze per le culture di pace, dedicato a Tiziano Terzani (quinta edizione).
Pur essendo stato scritto una decina di anni fa, è sempre molto attuale, in quanto, affrontando il tema dell’orrore e della violenza della Shoah, invita il lettore a una profonda riflessione sull’insensatezza e sulla tragedia della guerra, lanciando al contempo un messaggio di speranza.
 
Le vicissitudini di Anne, nipote di uno stimato matematico ebreo che le trasmette la passione per «l’universalità del linguaggio matematico», si intrecciano magistralmente con quelle degli altri personaggi; seguendo gli insegnamenti del nonno lei riesce a sopravvivere all’orrore e a salvarsi dall’odio.
È proprio Anne a svelare curiosità riguardo a famosi pensatori e matematici, fra i quali Pitagora, Newton, Einstein, Eulero ma anche donne altrettanto straordinarie come la celeberrima matematica della storia antica Ipazia di Alessandria o la matematica e fisica russa Sofia Kovalevskaja, citando alcuni nomi a titolo esemplificativo. Nell’incalzante susseguirsi della narrazione, la matematica è protagonista assoluta, poiché consente di capire e restituire un ordine alle situazioni.
 
«Il numero è nell’arte come nella scienza. L’algebra è nell’astronomia e l’astronomia confina con la poesia.
«L’anima dell’uomo ha tre chiavi che aprono tutto la cifra, la lettera, la nota. Sapere, pensare, sognare.»
Questa emblematica citazione di Victor Hugo apre il ventitreesimo capitolo del romanzo, svelando il senso profondo della narrazione.
Loreta Failoni per molti anni ha insegnato matematica, da tempo si occupa di libri, di cinema e di spettacoli: è presidente del Coordinamento Teatrale Trentino.
Oltre a questo romanzo, conta al suo attivo diverse pubblicazioni, fra le quali il giallo intitolato «La voce della Paura», edito da Reverdito (2013). Con Gabriele Biancardi, voce della radio dal 1980, autore di testi teatrali e di romanzi, ha scritto «Vite nel Kaos – Storie, voci, volti ai tavoli di un bar», edito da Curcu Genovese (2019).
Abbiamo il piacere di rivolgerle alcune domande.
 

 
Il libro che ha scritto una decina di anni fa, nel quale affronta il tema dell’orrore e della violenza della Shoah, è sempre molto attuale perché ci ricorda l’insensatezza e la tragedia della guerra, lanciando al contempo un messaggio positivo. Cosa l’ha spinta a scriverlo?
«Quando decisi di scrivere il mio primo romanzo, La bisettrice dell’anima appunto, decisi di ambientarlo verso la fine della Seconda Guerra Mondiale. Parlare di Shoah, un argomento che mi ha da sempre interessato e che avevo approfondito negli anni, mi sembrava doveroso. Un modo diverso di tenere viva la memoria su quello che, a mio avviso, è stato il punto più basso toccato dall’umanità.
«La guerra e la sua irrazionalità e lo sterminio degli ebrei fanno da sfondo a un romanzo che parla di donne e di numeri. Inizialmente voleva essere soltanto una sfida con me stessa, dopo aver scritto manuali di matematica, ho provato a cimentarmi nella scrittura di un romanzo. Poi sono arrivati i premi, anche importanti, le interviste, i viaggi in giro per l’Italia e negli Stati Uniti per presentare il libro. Tutto un po’strano e assurdo per me, davvero.»

La protagonista del romanzo è Anne, nipote di uno stimato matematico ebreo, il quale le trasmette la passione per «l’universalità del linguaggio matematico». Che ruolo assume la matematica nella narrazione?
«La matematica, e soprattutto la filosofia della matematica, mi hanno sempre affascinato e ne ho fatto materia di studio e di insegnamento per tanti anni. Ho cercato, per quanto possibile di trasmettere l’idea che la matematica non è una inutile sequenza di operazioni che possono essere eseguite da un calcolatore, un insieme di astruse formule. Tutto è numero, come diceva Pitagora, La matematica si potrebbe accostare ad una definizione: vita.
«È parte integrante dell’ambiente che ci circonda, assume varie forme e strutture, le quali sono interpretabili mediante la conoscenza di specifiche formule. La terminologia deriva dal greco (máthema), traducibile con i termini scienza conoscenza e apprendimento. Cioè la conoscenza assoluta.
«Da essa si sono sviluppate altre materie, le quali hanno contribuito ad una maggior comprensione della realtà oggettiva. Ho scelto di mettere in primo piano la matematica nel romanzo, per cercare di stabilire il primato della logica, della scienza, la razionalità dei numeri in contrasto con l’irrazionalità della guerra.»
 
Grazie a cosa Anne riesce a ricostruire la sua vita?
«Anne, uscita dall’esperienza della guerra profondamente cambiata riesce a riannodare i fili della sua vita, a trovare l’equilibrio necessario proprio grazie agli insegnamenti matematici del nonno.
«Il pensiero dei grandi, che nel corso dei secoli ci hanno raccontato e spiegato la realtà attraverso i numeri, la accompagnano in questo percorso.»
 
Nella storia che racconta si intrecciano più piani, le vicende della protagonista si mescolano ad altro, lei parla anche di solidarietà femminile, di amicizia, di maternità oltre che di Shoah…
«Sì, ho cercato di mescolare insieme i temi che mi sono cari. In realtà, quando scrivi un romanzo, hai un foglio bianco davanti. E la libertà di dare ai tuoi personaggi delle opportunità. La solidarietà al femminile, l’amicizia vera, quello che in fondo vorremmo tutte noi e di cui sentiamo spesso la mancanza in una società che scivola inesorabilmente verso un intollerabile individualismo.
«Basta leggere la cronaca di questi giorni, entrare sui social e scorrere i commenti di donne contro altre donne con parole degne del peggior maschilismo.»
 
Pur essendo ambientato nel secondo dopoguerra a Parigi, il racconto evidenzia anche un legame con il nostro territorio, in quanto uno dei personaggi femminili che lei tratteggia è emigrata dal Trentino con la sua famiglia. Ce ne può accennare brevemente attraverso qualche riflessione?
«Nel periodo in cui ho scritto il romanzo, mi stavo occupando di una serie di documenti che narrano storie di donne trentine emigrate. La zona dove vivo, la Val Rendena, come molte altre del Trentino, ha visto nel corso degli ultimi decenni dell’800 e dei primi decenni del Novecento, una forte emigrazione soprattutto di arrotini. La maggior parte verso l’America e la Gran Bretagna ma anche verso la Francia.
«Ho pensato quindi di trasferire una giovane Anna Maestranzi, figlia di un arrotino, e la sua famiglia, a Parigi. Questo mi è servito oltre che per parlare di amicizia, anche per raccontare le difficoltà e le angherie che allora subivano i nostri connazionali che se n’erano andati a cercare una vita migliore. Un modo per riuscire a vedere quello che succede oggi, qui, a chi arriva da lontano.»
 
Un’emblematica citazione di Victor Hugo apre il ventitreesimo capitolo del romanzo: lei è una matematica, può condividere un pensiero a tale riguardo?
«In fondo la musica nasce dalla matematica e, come essa, parla un linguaggio universale. Un bellissimo video, che si può facilmente reperire su You Tube e si intitola Pi greco, la bellezza della matematica, ed è una scena tratta da Person of Interest, ce lo spiega molto bene. Vi invito a guardarlo.
«La considerazione di Victor Hugo è bellissima e condivisibile: L’anima dell’uomo ha tre chiavi che aprono tutto: la cifra, la lettera, la nota. Sapere, pensare, sognare. Oggi più che mai ritengo siano attività vitali.»
 
Oltre ad essere autrice di libri di successo, lei è presidente del Coordinamento Teatrale Trentino: quello dello spettacolo è purtroppo un settore duramente colpito dall’emergenza epidemiologica da COVID-19. Che considerazioni si sente di fare in merito?
«Sicuramente il teatro ed il cinema sono stati tra i settori più colpiti dalla pandemia. Quando abbiamo chiuso le sale a marzo, speravamo che la cosa potesse risolversi nel giro di qualche settimana.
«Nella prima fase del lockdown si è assistito a un fiorire di spettacoli offerti in rete, di dirette streaming, letture in video. Esperimenti che hanno inevitabilmente acceso un dibattito sulla liceità di chiamare teatro queste produzioni. Sono però bastate poche settimane di lockdown e distanza sociale, perché si confermasse l’idea che il teatro ha senso solo nel momento in cui è un’esperienza innanzitutto fisica.
«È la possibilità di rendere qualcosa di universale rappresentandolo in un momento unico e irripetibile. Ciò avviene solo attraverso uno scambio tra il pubblico e l’attore che è in scena che non si può vivere in un altro modo. Non è possibile fare teatro senza assembramento.
«In estate abbiamo sperimentato un modo diverso di circuitare il teatro, molti spettacoli all’aperto, soprattutto destinati a bambini e ragazzi. Oltre alle consuete arene del cinema abbiamo sperimentato la formula del cinema all’aperto in molti comuni.
«In autunno una timida riapertura in sicurezza ed ora siamo qui nuovamente. I nostri uffici sono aperti, qualcuno lavora in presenza, qualcuno in smart working.
«Coltivo la speranza che un giorno, speriamo presto, sarà di nuovo possibile vivere l’esperienza del teatro senza limitazioni e che le persone si ritrovino in sala, decidano di abbonarsi, così da poter far vivere un settore importante e farlo ripartire ancora con più vigore. Soprattutto perché questo vorrà dire che la pandemia sarà solo un brutto ricordo consegnato alla storia.»
 
A cosa sta lavorando? Progetti futuri?
«Sto scrivendo, scrivo sempre. Forse cose che nessuno leggerà, ma mi piace, mi fa sentire libera. Un giorno chiesero ad Andrea Camilleri perché scrivesse e lui rispose: ”Scrivo perché è sempre meglio che scaricare casse al mercato centrale. Scrivo perché non so fare altro. Scrivo perché dopo posso dedicare i libri ai miei nipoti. Scrivo perché così mi ricordo di tutte le persone che ho amato. Scrivo perché mi piace raccontarmi storie. Scrivo perché mi piace raccontare storie. Scrivo perché alla fine posso prendermi la mia birra. Scrivo per restituire qualcosa di tutto quello che ho letto.
«Ecco, a parte la cosa della birra tutto il resto lo condivido.»

Daniela Larentis – d.larentis@ladigetto.it

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