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A Pasqua, un po’ di chimica nel piatto… – Di Daniela Larentis

«Come si sbriciola un biscotto? Affascinanti storie di chimica del quotidiano» il saggio di qualche anno fa di Joe Schwarcz offre risposte a molte domande curiose

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È arrivata anche la Pasqua, la seconda trascorsa in lockdown, un momento di raccoglimento, di preghiera, di riposo, di condivisione tra familiari; molte persone si raccoglieranno attorno al tavolo consumando il pranzo e parlando del più e del meno, cercando di dimenticare il periodo difficile che tutti stiamo attraversando.
Sulla tavola imbandita noi idealmente appoggiamo due libri.
Il primo è di Papa Francesco, «Fratelli tutti - Enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale», un volume di cui abbiamo già parlato in passato. Vogliamo ricordarlo perché, a proposito delle pandemie e di altri flagelli della storia, il Papa ricorda che nessuno si salva da solo, ci si può salvare unicamente insieme.
Il secondo libro, pubblicato qualche anno fa da TEA, è intitolato «Come si sbriciola un biscotto? Affascinanti storie di chimica del quotidiano» di Joe Schwarcz, uno spunto di riflessione su ciò che mangiamo e su gesti che, inconsapevolmente, noi tutti facciamo ogni giorno senza capirne spesso le implicazioni.

Quella proposta è una lettura divertente e accattivante, scelta con lo scopo di distrarre la mente da tutti i problemi legati all’emergenza sanitaria in atto, un appassionante saggio di chimica che getta un po’ di luce su numerosi problemi della quotidianità, fornendo delle spiegazioni rigorosamente scientifiche ma di facile comprensione.
L’autore del saggio, professore di chimica e direttore dell’Ufficio per la Scienza e la Società alla McGill University di Montreal, risponde ai più disparati quesiti: perché i cibi più buoni sono anche quelli meno sani?
Come si può migliorare la memoria da anziani? Quali sono i migliori tegami antiaderenti? Perché mangiare cavoli può far bene? Quali virtù medicinali hanno la polenta, gli spinaci, il peperoncino, la vitamina C, i cavoli?

Il nostro proposito è quello di indirizzare l’attenzione del lettore verso alcuni argomenti che ci hanno particolarmente incuriosito: uno di questi riguarda l’invenzione del color malva; un altro concerne i benefici derivati dal consumo di crucifere, ma anche la nascita della bibita gassata più famosa al mondo ha destato il nostro interesse.
Non tutti sanno che alla National Portrait Gallery di Londra è conservato un ritratto realizzato da Arthur Cope di William Henry Perkin, il quale in giovane età, racconta Schwarcz, scoprì del tutto casualmente, mentre faceva esperimenti di chimica, il color malva, ottenendolo da un materiale economico come il catrame di carbone. Una scoperta incredibile che diede il via alla chimica moderna.
Perkin lasciò così il Royal College, aiutato economicamente dal padre costruì una fabbrica a pochi chilometri da Londra. Perfino la regina Vittoria si presentò in pubblico con un vestito del color malva di Perkin, sfoggiandolo in un’occasione importante come l’Esposizione Internazionale di Londra del 1862.
 

 
Schwarcz affronta in molti capitoli il tema dell’alimentazione, sottolineando fra l’altro come il cibo sia la sostanza chimicamente più complessa in cui ci imbattiamo ogni giorno.
Parlando del cavolo cappuccio racconta che sia considerato un vero toccasana, in quanto contiene centinaia di composti diversi, vitamine (ha peraltro un contenuto elevato di vitamina K), minerali e altri elementi interessanti, come alcune sostanze chimiche preziose per contrastare l’insorgere dei tumori, presenti anche in altre crocifere (broccoli, cavolfiori, cavolini di Bruxelles); sembra sia in grado di stimolare la produzione di enzimi protettivi, utili in particolare per prevenire il tumore al seno e quello al colon.
È pure curioso ciò che riferisce a proposito delle bibite gassate, pubblicizzate dai primi produttori come un farmaco.
 
Scrive a pag. 97 a tale proposito: «I primi produttori, in realtà, le pubblicizzarono massicciamente come un farmaco. Alla metà dell’Ottocento i medici americani diagnosticavano spesso ai loro pazienti una condizione da loro chiamata neurastenia.
Era un’espressione generale usata per indicare un occasionale senso di affaticamento, insonnia, depressione e dolori muscolari: in altri termini, i sintomi della vita.
Il farmacista John Pemberton, di Atlanta, pensò di avere un mezzo per combattere la neurastenia: era la French Wine Cola, una soluzione preparata con estratti di foglia di coca, di noce di cola africana (che è una fonte di caffeina), della radice di damiana (un presunto afrodisiaco) e di vino.
 
La foglia di coca è la fonte della cocaina, una sostanza che era molto familiare a Pemberton.
Ferito nella guerra civile, gli era infatti rimasto un dolore invalidante permanente che era stato costretto a combattere con la morfina, verso la quale aveva contratto una dipendenza.
A quel tempo si pensava che la cocaina – che era una sostanza del tutto legale – fosse un antidoto per la dipendenza della morfina. La sua buona conoscenza della foglia di coca indusse Pemberton a provarla come ingrediente nel suo preparato.
Ne usò tuttavia una quantità così piccola che la dose di cocaina contenuta nella French Wine Cola finì per essere assolutamente irrilevante [ …].»
 

 
Come andò a finire? Riassumiamo dicendo che quando arrivò ad Atlanta dovette cambiare la formula del suo prodotto, in quanto il movimento per la temperanza vietava l’alcol, allora invece del vino utilizzò estratti di arancia, limone, noce moscata, cannella, coriandolo, essenza di fiori d’arancio, caramello e vaniglia, mescolati con zucchero e succo di limetta.
Battezzò questo sciroppo da allungare con l’acqua con il nome di Coca Cola, pubblicizzandolo come un elisir destinato a curare «melanconia, isteria, reumatismi e obesità».
Un giorno, preso dalla fretta di servire un cliente sofferente, allungò lo sciroppo con acqua di seltz anziché con semplice acqua, così nacque, inaspettatamente, la più famosa bevanda del mondo.
 
Ne parla l’autore del volume, raccontando che al giorno d’oggi negli Stati Uniti ogni persona beve circa mezzo litro di bevande gassate al giorno e il consumo è in crescita.
Ci sono molte ragioni per limitare il consumo di bibite gassate, anche se, sottolinea, circolano false informazioni.
«Un dente – scrive – non si scioglie nella Coca Cola in ventiquattr’ore, né una bistecca con l’osso in quarantotto. La colorazione al caramello delle bibite a base di cola non è cancerogena» e via dicendo.
Noi ne prendiamo atto, convinti a ogni modo che un bicchiere d’acqua sia di gran lunga preferibile a qualunque bevanda artificiale in commercio.
Dai nostri rubinetti, per di più, scorre un’acqua buonissima!

Daniela Larentis - d.larentis@ladigetto.it

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