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La «memorabile impresa» di Flavio Maria Tarolli – Di D. Larentis

Nei suoi libri l’autore racconta l’amore per la bicicletta attraverso le ciclostoriche più suggestive d’Italia – L’intervista

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L’amore per le due ruote è un sentimento che travolge migliaia di persone, sono sempre più, infatti, coloro che pedalando in bicicletta attraversano le meraviglie non solo della nostra splendida regione ma dell’Italia intera.
La biciletta diverte, stimola, invita a porsi sempre nuovi obiettivi, unisce, tiene compagnia, è una grande compagna di viaggio.
Chi ha riscoperto questo mondo da adulto, compiendo con la bici «memorabili imprese», è Flavio Maria Tarolli, uomo di successo e autore di diversi libri sull’argomento; cinquantenne, sposato, padre di 3 figli, manager aziendale, vive e opera a Trento.
È autore di diversi libri editi da Reverdito, fra i quali ricordiamo: «Destinazione Eroica», 2018 (finalista XII edizione Premio letterario AcquiAmbiente 2019); «Leggendarie Emozioni», 2019; «Napoli pedala, non dorme mai» - opera inedita, 2018 (2° classificato Premio Speciale Parthenobike, V edizione de IL BICICLETTERARIO 2019); CicloTour Trentino, 2019. Di prossima uscita: «Il Passepartout del ’900».
Curiosi di saperne di più lo abbiamo incontrato rivolgendogli alcune domande.
 

 
La bicicletta è il filo conduttore dei suoi libri: quando è nata la passione per le due ruote?
«La passione per le due ruote è nata in età adulta su spinta di mia moglie. È stata lei inizialmente a suggerirmi, quando avevo più o meno 45 anni, di pormi una sfida: arrivare ai 50 anni facendo l’Eroica.
«Da quell’input iniziale è partito tutto, ho acquistato la mia prima bicicletta da corsa di seconda mano, fra l’altro da un mio collaboratore che l’aveva messa in vendita per comprarne una più performante, e da allora non mi sono più fermato.
«Il primo anno è stato un avvicinamento a questo fantastico mondo, un procedere per gradi.»
 
Quando è avvenuto il cambio di paradigma?
«È avvenuto quando ho iniziato ad appassionarmi sul serio, la bicicletta indipendentemente da tutto appassiona per vari motivi: parti da solo, soprattutto all’inizio, dopo i primi tre-quattrocento metri tutto svanisce a la pedalata si normalizza, donandoti un momento di raccoglimento: tutto il tuo corpo respira, respirano i polmoni ma respira anche il cervello, conseguentemente se respiri bene ragioni meglio, valuti le cose da un’altra prospettiva.
«Quell’incedere lento ti consente di notare i particolari; se vai in macchina non lo puoi fare, tutto scorre troppo veloce, se vai a piedi il tuo raggio d’azione è minore. La bicicletta allarga in un certo senso lo spazio vitale.»
 

 
Che cosa rappresenta per lei la bicicletta in termini emotivi?
«Innanzitutto libertà. Quando pedali hai la sensazione di volare, in realtà la bicicletta non è altro che il mezzo più efficiente mai inventato dall’uomo. Ancora oggi, in termini di rapporto potenza impiegato e metri percorsi non c’è nessun mezzo che sia più efficiente della bicicletta.
«I fratelli Wright sul finire dell’Ottocento dopo aver venduto biciclette iniziarono a produrle, si deve alla bicicletta la nascita dell’aeroplano moderno, infatti con i pezzi costruirono una macchina volante, l’aereo altro non era che la bicicletta con le ali.»
 
Come nasce «Destinazione Eroica», finalista 2019 del Premio Acquiambiente?
«Nasce dalla mia effettiva partecipazione all’Eroica, una gara di 209 km da percorrere in un giorno per gran parte su strada sterrata attraversando luoghi meravigliosi. Mia moglie mi ha lanciato il sasso chiedendomi di pormi una sfida e io l’ho colto.
«Naturalmente mi sono preparato a lungo, andandomi ad allenare in un posto straordinario quale il Trentino. Ho naturalmente acquistato una biciletta vintage, si può partecipare a questa gara con una bicicletta non vecchia ma vintage o storica.»
 

 
Può spiegarne la differenza?
«La bicicletta storica è una bicicletta appartenuta a un campione o è stata utilizzata in gare importanti, ha quindi un valore storico. C’è una grande differenza fra bicicletta vecchia e bicicletta vintage. Quest’ultima testimonia un’epoca, non supera il 1987.
«Un oggetto vintage vuol dire che non è superato, che ha valore, che è bello e che quindi non è da buttare, al contrario, è da valorizzare, ti dà tante informazioni e tante emozioni. Mentre le biciclette vecchie hanno esaurito il loro scopo, le biciclette vintage no, hanno ancora molte cose da raccontare, sia del mezzo che delle storie legate al mezzo, o dei campioni o dei percorsi che furono seguiti, l’evoluzione stessa della tecnologia del mezzo.
«Guarda caso, l’evoluzione della bicicletta evidenzia un altro tipo di evoluzione, se così vogliamo dire, ovvero il riconoscimento dell’importanza della donna nel mondo. Tant’è vero che la bicicletta inizialmente si chiamava biciclo, poi bicicletto, infine bicicletta. Il nome viene cambiato agli inizi del Novecento, quando la donna, per la prima volta, con la bicicletta di sicurezza, cioè quella con la configurazione attuale, può montare sul mezzo da sola, non accompagnata.
«Questo mezzo diventa quindi un simbolo di quella libertà e di quei diritti acquisiti. Le donne di quell’epoca che vanno in bicicletta sono donne di grande valore, pensiamo a Marie Curie, velocipedista, prima donna a ricevere il Premio Nobel, peraltro ne ricevette due, per la quale la bicicletta era una compagna di vita.»
 
In «Leggendarie emozioni» lei ripercorre le ciclostoriche più suggestive del nostro Paese. Può ricordarne una a titolo esemplificativo?
«Sono le tappe di avvicinamento all’Eroica finale. Hanno dei nomi formidabili: La Furiosa, l’Intrepida, l’Ardita, La Matta, oltre all’Eroica naturalmente. Un nome, un programma. La mia prima vera ciclostorica l’ho fatta ad Arezzo, si chiamava Ardita.
«Sono partito con una bici, era una Bottecchia che avevo prima testato, ho voluto cambiare la ruota libera il giorno prima della gara senza testarla nuovamente, e infatti ho poi riscontrato un problema. La bicicletta va sempre testata prima di ogni gara.
«All’inizio è stato drammatico, mi dovevo fermare in continuazione a registrarla, poi divertente, e alla fine, quando ho visto l’arrivo, addirittura rilassante. Mi sono talmente rilassato da presentarmi all’arrivo con una sigaretta in bocca, con grande meraviglia dei presenti.»
 

 
Che cosa ci si porta via da un’esperienza simile?
«Io mi considero una persona normalissima, ho capito che con un po’ di volontà, assistiti dalla salute, e un po’ di tempo, peraltro salute e tempo sono le due cose della vita che non si possono comprare, è possibile raggiungere l’obiettivo, anche con un po’ di fatica. La perseveranza, che in questo caso è l’allenamento, è l’elemento che ti consente di raggiungere il tuo scopo. L’allenamento è importante nello sport così come nella vita, senza costanza non si ottiene nulla.
«Con questa esperienza hai l’opportunità di uscire dal nostro territorio entrando in una dimensione più ampia, il tuo spazio vitale si estende dal Trentino all’Italia. Hai quindi modo di conoscere i borghi, anche quelli meno pubblicizzati, incontri i sapori, i profumi, le tradizioni, la gente; relazionarti con gli altri ti arricchisce se hai l’umiltà di ascoltare.
«Quando si pedala ci si ascolta, ascolti il tuo corpo e l’ambiente che ti circonda, se lo fai in compagnia ascolti anche il tuo compagno di viaggio. La cosa bella è che quando sei nell’apice della difficoltà, quando sei stanchissimo e ti sembra di non farcela, condividendo la fatica ti sembra meno gravosa: l’insuperabile diventa possibile.»
 
Fra le varie pubblicazioni al suo attivo, il libro «CicloTour Trentino». A che pubblico si rivolge?
«A tutti gli amanti della bicicletta, ai turisti, alle famiglie. È un libro che parla del Trentino e delle sue piste ciclabili, o per meglio dire è una storia ambientata nelle ciclabili delle valli del Trentino. Oggi il Trentino ha undici ciclabili, una per valle, più o meno lunghe, tutte belle, tutte in sicurezza.
«Attraversandole incontri ambienti diversi, incontri montagne meravigliose, incontri i fiumi, torrenti. Oltre i Bici Grill, servitissimi, percorrendole hai la possibilità di transitare vicino a bellezze di ogni tipo, pensiamo ai castelli, ma anche di scoprire le aziende trentine e molto di più. È un territorio molto variegato che offre moltissimo.
«Ciclo Tour Trentino è il racconto di cosa potrebbe trovare un turista che viene in Trentino e di che cosa potrebbe quindi incontrare, una guida nelle meraviglie della nostra terra. È corredato delle cartine delle ciclabili, dove è testato anche il grado effettivo di difficoltà.»
 

 
Qual è, a suo avviso, l’importanza del turismo ciclistico in Trentino e quali tipi di investimenti potrebbe ulteriormente promuovere la Provincia per favorirlo?
«Il Trentino ha fatto tantissimo, è una delle Regioni meglio dotate per quanto concerne le piste ciclabili costruite negli ultimi dieci anni. Non soltanto in termini di chilometraggio ma anche di qualità, sia come manto, sia come larghezze, sia come dotazioni, pensiamo ai vari Bici Grill e punti di sosta ecc.
«Le sta ancora implementando, connettendole ulteriormente fra loro. Non può essere fatto molto di più di quanto si stia già facendo, le ciclabili sono molto curate, forse in alcuni punti potrebbe essere utile una segnaletica che indichi i luoghi caratteristici visibili durante il tragitto.
«Pensiamo ai turisti che transitano in prossimità dei musei come il Muse, il Museo dell’Aeronautica Gianni Caproni, il Mart. Se fossero segnalati i ciclisti potrebbero fermarsi a visitarli.»
 
Lei dedica un libro al Giro d’Italia d’epoca. Che sensazioni offre questo tipo di esperienza?
«È un’esperienza davvero unica. Io l’ho chiamata Memorabile impresa. L’amore per la biciletta e la tutela della memoria dei grandi campioni sono, da sempre, il motore del Giro d’Italia d’Epoca. La riscoperta delle tradizioni e dei prodotti che il territorio italiano offre è l’obiettivo che ogni anno chi vi partecipa si prefigge di conquistare.
«Tendenzialmente sono un fifone, nel senso che quando ho uno scopo da raggiungere mi impegno al massimo anche se il dubbio di farcela resta fino alla fine. La durata del Giro d’Italia d’epoca è di 6 mesi distribuita in 12 tappe, da aprile a settembre. In quei sei mesi può capitare di tutto, dal punto di vista fisico, ma anche organizzativo, possono subentrare impegni ecc.
«Bisogna prepararsi mentalmente, l’obiettivo dichiarato nel libro è quello di vincerlo, cosa che, fortunatamente, si è verificata. Nel 2019, alla mia prima partecipazione, ho centrato l’obiettivo. Per me è stata un’enorme soddisfazione.»
 

 
A proposito, c’è una bicicletta fra quelle che utilizza a cui è particolarmente affezionato?
«Difficile per me stabilire a quale io sia più affezionato fra le cinquecento biciclette che ho comprato e utilizzato nel tempo, attualmente distribuite in ogni dove. Fra l’altro devo ringraziare mia moglie che mi permette di tenerne due anche in camera.
«Se dovessi sceglierne una citerei una biciletta da corsa in bambù che ho costruito interamente da solo: le varie componenti del telaio sono in legno, le congiunzioni sono in carbonio; ho voluto montare degli elementi che rappresentino la storia della tecnica della bicicletta, quindi: la forcella in acciaio, il freno anteriore a disco, quello posteriore invece normale brake. È dotata di una guarnitura italiana, una FSA, un reggisella giapponese Shimano; ho voluto inserire tutti i materiali che rappresentano attualmente i migliori produttori di biciclette.»
 
Le ha attribuito per caso un nome?
«Si chiama la Bambù. È una bicicletta che dà delle sensazioni tutte particolari, perché è flessibile, essendo in bambù, è reattiva il giusto, grazie alla sua configurazione; quando incontra una buca o si sente la rugosità dell’asfalto invece di trasmettere il colpo alla schiena ha la capacità di trasformarlo in una sorta di massaggio shiatsu.»  


 
Può darci una spiegazione sull’esplosione del ciclismo vintage?
«Innanzitutto è un movimento composito. Ci sono quelli come me che si sono aggiunti di recente, c’è chi va in bicicletta da sempre e vuole provare qualcosa di nuovo, c’è chi lo pratica da molto più tempo, ciò che accomuna tutti non è il rifiuto della tecnologia ma è piuttosto la riscoperta di ciò che è stato autenticamente il ciclismo negli anni eroici, quando accadeva l’esatto contrario di ciò che accade oggi.
«Faccio un esempio, il professionista che non aveva la certezza che il mezzo meccanico non si rompesse abborriva l’applicazione delle novità al mezzo meccanico. Venivano testate prima dalle persone normali, quando avevano superato il vaglio del test quotidiano venivano applicate sulla bicicletta da corsa. Oggi avviene l’opposto: le novità vengono applicate alla bicicletta da corsa e poi una volta testate dai campioni vengono trasferite sulle biciclette di tutti i giorni.
«Questo ciclismo viene definito eroico in quanto racconta la storia dell’Italia degli anni Trenta che supera il difficile momento della fine della I guerra mondiale, e l’Italia degli anni Cinquanta che per una seconda volta si riprende. Il ciclismo, soprattutto il Giro d’Italia, ha svolto una grande funzione sociale, ha riconnesso un Paese distrutto dalle due guerre. Simbolicamente la fatica del ciclista richiamava la fatica della povera gente uscita dai conflitti.
«La storia della biciletta è anche la storia della società italiana che è risorta dalla miseria con sacrifici e sudore. Il ciclismo vintage è molto affascinante anche perché c’è poi tutto un mondo che ruota attorno alla ricerca di questo o di quel pezzo, ciò significa girare i mercatini, confrontarsi, riuscire infine a ricostruire una bicicletta che altrimenti non esisterebbe più.
«E poi c’è anche il vestiario d’epoca, non è affatto facile reperirlo. Le maglie originali si mettono anche tarlate, in questo caso il tarlo non è affatto un difetto ma il simbolo di autenticità. È anche un’occasione per relazionarsi, appassionati provenienti da tutta Italia si rincontrano o si incontrano per la prima volta, tutti legati dalla passione per il ciclismo e per la sua storia, per la natura. È infine uno straordinario momento di condivisione.»
 

 
Si sta correndo in questi giorni il Giro d’Italia Le donne si stanno appassionando sempre più al ciclismo, tant’è che per la prima volta il commento tecnico è affidato a una donna. Vuole condividere un pensiero a riguardo?
«La donna già negli anni Trenta andava in bicicletta, ha dimostrato la passione per il ciclismo facendo il Giro d’Italia insieme agli uomini, abbiamo l’esempio di Alfonsina Strada che voleva gareggiare alla pari. L’obiettivo non era arrivare prima ma riuscire a completare la gara. Questo è stato l’inizio.
«Il ciclismo è stato uno sport tipicamente maschile fino agli anni Ottanta. Da quel periodo in poi è ancora un’altoatesina ex fondista, Maria Canins, a dimostrare la passione femminile per il ciclismo diventando una grande campionessa.
«Quando la donna dimostra di essere in grado di ottenere risultati mette in difficoltà l’uomo. Si potrebbe anche dire che l’avvicinamento delle prestazioni femminili alle prestazioni maschili abbia indotto gli uomini a volersi distinguere, a voler far la differenza, arrivando ad alterare la prestazione.
«Il doping in fondo potrebbe essere letto anche in questi termini, ovvero un effetto all’entrata a piè pari e con forza della donna nello sport e il conseguente desiderio di distinzione. Lo vediamo anche in altri ambiti, la donna che cresce, interviene, entra nell’ambiente tipicamente maschile, pensiamo alla politica ma anche all’economia, genera spesso nell’uomo da una parte la volontà di accettare il confronto ma anche, talvolta, di alterare le regole.»
 
Oggi il ciclismo si sta aprendo a un sempre maggior numero di fruitori grazie all’avvento delle bici a pedalata assistita. Può esserci una difficile convivenza fra le bici elettriche e quelle muscolari?
«Assolutamente no. Sono due modi diversi di andare in bicicletta, inizialmente le bici elettriche erano viste con grande diffidenza, poi però ci si è accorti che si può fare fatica anche con la bicicletta a pedalata assistita. La bici elettrica ti consente di andare in bici anche se non sei allenato, chi utilizza la bicicletta muscolare spesso e volentieri usa anche quella elettrica a inizio stagione.
«C’è chi passa dopo un primo approccio con l’elettrica a quella muscolare perché si appassiona, viceversa c’è chi non potendo più fare troppa fatica, magari per motivi di salute, passa da quella muscolare a quella a pedalata assistita.
«Occorre anche considerare il tempo che si ha a disposizione, allenarsi con una bici muscolare in questo senso è più impegnativo. Ci sono anche i gruppi misti, persone più allenate a fianco di persone che grazie alla pedalata assistita possono aggiungersi e fare il medesimo giro.»
 
A cosa sta lavorando, progetti editoriali futuri?
«È in uscita a fine mese Il Passepartout del ’900, un nuovo libro in cui viene indagata la bicicletta declinata al femminile nell’arco temporale di cento anni, dal 1900 al 2000. È anche un libro che parla di emancipazione femminile legata alla storia della bicicletta nel mondo.»

Daniela Larentis – d.larentis@ladigetto.it


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