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Associazione Castelli del Trentino – Di Daniela Larentis

Per «Gli incontri del giovedì», Marco Stenico l’11 gennaio 2018 parlerà di gestione dei beni comuni a Mezzolombardo – L’intervista

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Il ciclo di serate predisposte dall’Associazione Castelli del Trentino denominato Gli incontri del giovedì, organizzato dal presidente Bruno Kaisermann e dal vicepresidente, il giornalista, storico e critico d’arte Pietro Marsilli, prosegue, dopo la pausa natalizia, con l’appuntamento fissato il prossimo giovedì 11 gennaio 2018.
Il ritrovo si terrà come sempre alle 20.30 presso la Sala Civica di Mezzolombardo, Corso del Popolo 17, e avrà come protagonista Marco Stenico, socio della Società di Studi Trentini di Scienze Storiche, il quale ci parlerà di «Gestione dei beni comuni a Mezzolombardo».
 
Ricordiamo che tutti gli incontri in programma godono del patrocinio della Regione Trentino Alto-Adige, della Provincia Autonoma Trento, della Comunità Rotaliana-Koenisberg e del Comune di Mezzolombardo e della collaborazione dell’Accademia degli Agiati di Rovereto, della Società di Studi Trentini di Scienze Storiche, del Museo degli Usi e Costumi della gente Trentina.
Sono, inoltre, riconosciuti da IPRASE e validi ai fini dell’aggiornamento del personale docente della Provincia Autonoma di Trento.
 
Due parole sul relatore, prima di passare all’intervista.
Marco Stenico lavora come libero professionista in progetti di ricerca, schedatura, analisi e valorizzazione di documentazione trentina di antico regime, con particolare riguardo alla storia economica e sociale delle comunità di regola.
Ha esordito in questo campo di studio collaborando con Fabio Giacomoni all’edizione dei tre volumi delle «Carte di regola e statuti delle comunità rurali trentine» usciti nel 1991; ha collaborato in progetti editoriali promossi fra gli altri dai comuni di Taio, Rabbi, Trento, Bosentino e Flavon, dalla Fondazione Edmund Mach, dalla Fondazione Bruno Kessler, dall’Ecomuseo dell’Argentario e dall’Archivio di Stato di Trento.
Abbiamo avuto il piacere di porgergli alcune domande.


Particolare della Mappa catastale asburgica (1860) relativa alle campagne di Mezzolombardo: la fitta parcellizzazione fu anche l’esito delle antiche distribuzioni ai privati dei terreni comunali un anticamente adibiti al pascolo.

Lei si occupa di analisi e valorizzazione di documentazione trentina di antico regime, con particolare riguardo alla storia economica e sociale delle comunità di regola. Quando e come nasce questo suo interesse?
«Ho iniziato a interessarmi a queste tematiche nel 1988, quando sono stato chiamato a collaborare con un gruppo di studiosi coordinati da Fabio Giacomoni dell’Università di Trento: l’obiettivo del team di lavoro consisteva nel raccogliere e pubblicare le carte di regola delle comunità rurali trentine, ossia i documenti normativi che regolavano in buona sostanza la vita economica e sociale delle comunità stesse, e definivano i loro rapporti con le rispettive autorità superiori (il vescovo principe di Trento, il conte del Tirolo, i signori vassalli feudali del vescovo e del conte). L’obiettivo di quel progetto si è concretizzato nel 1991 con l’edizione in tre volumi di circa 200 esemplari di carte di regola trentine, datate dal XIII fino a inizio Ottocento.
«Aspetto ricorrente nelle carte di regola è l’attenzione volta alla tutela e gestione dei beni comuni, ossia dei territori destinati all’uso collettivo da parte dei membri della comunità. Gli stessi nessi comunitari nacquero e si aggregarono anche attraverso la condivisione di determinati interessi comuni, uno dei quali era sicuramente rappresentato dalle modalità di utilizzo dei beni collettivi: ciò contribuì inoltre a modellare, con il concorso di altri fattori, gli elementi costitutivi dell’identità delle comunità stesse.»
 
L’11 gennaio parlerà di «Gestione dei beni comuni a Mezzolombardo». Per chiarire ai lettori l’argomento che verrà trattato, potrebbe spiegare cosa si intende innanzitutto per «beni comuni»?
«I beni comuni in dotazione alle comunità rurali erano costituiti sostanzialmente dai territori boschivi e da quelli destinati a prato-pascolo: nel contesto dell’economia rurale essi costituivano un’importante fonte integrativa di risorse materiali accanto a quelle fornite dai beni divisi, ossia di possesso privato delle singole famiglie.
«Dai boschi comunali si prelevavano legname da opera e legna da ardere nella misura prevista per le esigenze familiari, e in casi eccezionali anche per destinarli alla vendita. Dai prati comunali assegnati annualmente in sorte si falciava il fieno destinato a integrare le risorse foraggere familiari per il bestiame.
«I pascoli comunali posti in prossimità del villaggio accoglievano il bestiame che ogni famiglia affidava giornalmente alla custodia del pastore comunale e che veniva poi riconsegnato alla sera. Sui pascoli comunali di media-alta quota si monticava il bestiame nei mesi estivi, ma in qualche caso partendo ancora dal mese di maggio sui pascoli delle quote inferiori: così facendo si liberavano le campagne dal pascolo collettivo che poteva arrecare danni ai terreni coltivati; si risparmiavano preziose quantità di foraggio destinabile all’invernata del bestiame; pecore e vacche brucavano l’erba di montagna, magra ma ricca di elementi nutritivi; dal loro latte si producevano formaggio, burro e ricotta destinato in prevalenza al consumo familiare, ma anche (quando le condizioni strutturali lo consentivano) ai mercati cittadini delle pianure.
«Naturalmente qui ho tracciato un quadro generale rispetto all’ampia casistica offerta dal panorama trentino. Troviamo comunità in Val Rendena, alta Val di Non, Fiemme, Tesino e Primiero dove l’abbondanza delle foreste e dei pascoli comunali era tale da superare ampiamente il fabbisogno dei nuclei familiari, cosicché quelle comunità, aperte verso i mercati lombardi e veneti, potevano affittare il taglio del legname e l’uso dei pascoli di montagna ai mercanti di legname e di lana ottenendo buone rendite in denaro contante, oppure acquistando in contraccambio il grano delle pianure.
«Al contrario, vi erano comunità prive di comprensori forestali e pascoli alti, costrette a prenderli in affitto da altre: ad esempio, nel Cinquecento gli uomini di Lavìs e Pressano portavano il loro bestiame sugli alpeggi di Regnana, Stramaiolo e Fregasoga che la comunità di Piné cedeva loro annualmente in affitto; più di tre secoli prima gli uomini di Povo e di Civezzano tagliavano legname, alpeggiavano il bestiame e producevano formaggio nelle casare sul monte di Fierozzo e sul monte di Valcava verso il lago di Erdemolo, in alta Valle del Fersina.
«La comunità di Mezzolombardo possedeva un’ampia superficie di terreni grezzi in parte paludosi destinati al pascolo collettivo situati nella piana compresa fra il corso dell’Adige e del Noce, e i boschi posti nella parte orientale della montagna del Fausior con i suoi ripidi versanti rocciosi; era invece sostanzialmente priva di ampi comprensori alpestri, se li compariamo con quelli in dotazione delle comunità montane propriamente dette.»
 
Quali fronti di indagine sono riconducibili al concetto generale dei beni comuni e quali, in particolare, sono i più rilevanti?
«Ne propongo tre, che qui delineo in breve.
«Il primo riguarda l’origine storica dei patrimoni collettivi. Tema particolarmente arduo da affrontare in quanto la documentazione attualmente disponibile non arretra nel tempo oltre il secolo XII, e quindi mostra un quadro – parlando di configurazione territoriale dei beni comuni appartenenti a una data comunità – ormai assestato se non proprio definitivo.
«Sappiamo che la comunità X possedeva quei monti e quelle foreste, ma – salvo alcuni casi locali documentati e risolvibili – è difficile risolvere la questione relativa al titolo storico del suo possesso. La risposta per antico diritto originario rappresenta in molti casi l’unica via d’uscita, ma è poco soddisfacente: potrà essere motivabile anche indagando nei singoli casi sui rapporti di ciascuna comunità con i suoi signori.
«Un secondo fronte d’indagine è quello dell’accesso ai beni comuni, consentito alle famiglie dei vicini e di norma impedito o di molto limitato alle famiglie dei non-vicini, i forestieri anzitutto: anche questo è un aspetto ricorrente nelle carte di regola; già affrontato a suo tempo con Fabio Giacomoni e che intendo approfondire. Si noti che il vicino (ossia il soggetto appartenente al nesso comunitario a pieno titolo con annessi oneri e onori) nelle carte di regola è spesso definito homo de comun, colui che sta a ben comune: locuzioni assolutamente trasparenti nel significato.
«Il terzo versante di ricerca è strettamente connesso ai due precedenti, e riguarda la gestione e l’uso dei beni comuni: questo sarà il tema affrontato nel mio intervento, partendo dal quadro generale e approfondendo il caso particolare di Mezzolombardo».


Mappa dell’anno 1767 relativa al territorio dei Longi delimitato dal corso antico del fiume Adige e la fascia pedemontana presso Zambana (oggi Zambana Vecchia), conteso fra le comunità di Mezzolombardo e di Zambana.

Potrebbe accennare al quadro d’insieme che verrà da lei presentato riguardante le relazioni fra comunità rurali e in rapporto al possesso e utilizzo dei beni comuni?
«Punto di partenza sarà la situazione complessiva delle comunità rurali trentine in rapporto ai beni comuni di loro possesso, e ai processi in base ai quali nel corso del tempo quei beni hanno trovato definizione e riconoscimento da parte delle autorità superiori.
«Proprio intorno al possesso delle montagne (beni collettivi per eccellenza) l’intero territorio trentino fu segnato nei secoli XII-XIV da innumerevoli liti fra comunità, risolte alcune volte armi alla mano, più spesso fortunatamente in sede di giudizio con la produzione di una considerevole quantità di atti processuali ricca di informazioni altrimenti indisponibili e giunta per buona parte ai giorni nostri.
«Mezzolombardo non fa eccezione, anzi, l’archivio storico del Comune conserva una notevole mole di questa tipologia documentaria.
«In tema di gestione e uso dei beni comuni, il caso specifico di Mezzolombardo sarà esaminato come tassello di un quadro complessivo, al fine di poter cogliere al meglio analogie e differenze tra quella realtà e il resto del territorio soprattutto per quanto riguarda le scelte gestionali e di impiego.
«Si trattava in buona sostanza di optare fra l’uso esclusivo diretto da parte dei vicini (per Mezzolombardo questo si riduceva al pascolo collettivo), oppure l’affidamento in affitto con limitata rendita in denaro (scelta che per Mezzolombardo appare raramente praticata), oppure la vendita (in forma parziale o definitiva) di quei terreni con un cambio netto dal punto di vista dell’assetto fondiario, ossia con la radicale trasformazione di comprensori comunali prativi o grezzi destinati al pascolo in appezzamenti coltivati di possesso privato.
«Come si vedrà (e come in parte rivela già il titolo scelto per questo contributo) nel caso di Mezzolombardo la terza opzione si rivelò già dal secondo Quattrocento largamente prevalente».
 
Per quanto riguarda il tema dell’accesso al loro uso, potrebbe fornirci qualche informazione che possa solleticare la nostra curiosità?
«L’accesso ai beni comuni apparteneva per diritto pressoché esclusivo ai fuochi dei vicini: così si definivano, anzi si autodefinivano, i nuclei familiari degli abitanti originari, spesso elencati nominalmente uno ad uno nelle carte di regola. Si nota che il numero dei fuochi dei vicini di una comunità in molti casi rimaneva costante nel tempo, anche per secoli, o cresceva molto lentamente.
«La regola comunitaria controllava il numero dei fuochi o – per meglio dire – il numero degli aventi diritto, non solo escludendo dal proprio nesso corporativo i soggetti non vicini, ma intervenendo anche sui meccanismi di successione ereditaria del diritto vicinale.
«A seconda dei casi quel diritto passava direttamente dal padre a tutti gli eredi maschi o a uno solo di questi; gli altri potevano diventare vicini solo per acquisizione del diritto, ossia versando alla regola una tassa di ammissione. In mancanza di linea maschile il fuoco vicinale si estingueva e il diritto transitava alla regola che provvedeva a riassegnarlo creando un altro fuoco vicinale subentrante a quello estinto; in altri casi passava alla vedova del vicino defunto o a una sua figlia femmina: queste lo detenevano con il vincolo di restare vedova o nubile, pena la perdita.
«Accanto al carattere generalmente esclusivo delle barriere che il nesso corporativo dei vicini erigeva nei confronti dei non-vicini a difesa del proprio diritto riservato di accesso ai beni comuni, si notano alcuni interessanti processi inclusivi con i quali, a seconda in buona sostanza delle esigenze e della propria utilità, la comunità dei vicini accoglieva al proprio interno determinati soggetti (persone singole o gruppi familiari), promossi quindi al grado di vicini a tutti gli effetti con annessi oneri e onori; l’ammissione era di norma soggetta al pagamento di una tassa, che in pratica corrispondeva al prezzo di acquisto del diritto di vicinato.
«Sono diverse le motivazioni alla base delle molte e diversificate strategie di controllo sul numero dei vicini e sull’accesso ai beni comuni. Una di queste – semplificando molto – era di natura economica: posto che le risorse materiali fornite dai beni di uso collettivo erano limitate in quantità, se il numero dei fuochi vicinali era prossimo al limite della saturazione, ed essendo necessario assicurare a ognuno di loro una congrua porzione di risorsa, la regola provvedeva a fare in modo che il numero di coloro che stavano a ben comune (singoli soggetti, un nucleo familiare, o più nuclei familiari parentali associati a formare un fuoco) non crescesse oltre quel limite.
«Tra i molti e interessanti i fronti di indagine collegati al tema che qui ho esposto in breve, qui mi limito a proporre una considerazione non del tutto secondaria, non sempre tenuta in conto e peraltro facilmente osservabile. Da quanto detto sopra consegue che il numero dei vicini non sempre costituisce un indicatore demografico attendibile, non essendovi compresi gli individui e i gruppi familiari residenti nel villaggio ma esclusi dal novero degli homeni de comun: la documentazione prodotta dalle comunità (comprese le carte di regola) ce ne segnalano continuamente la presenza, ma il loro numero anche indicativo emerge solo in rari casi, almeno sino a tutto il secolo XVI.
«Dal Seicento in avanti si possono dare alcune stime indicative locali: ad esempio, a Mezzolombardo, Ala e Nago la percentuale di forestieri residenti e non vicini si aggirava intorno alla rispettabile media del 30-35% sul totale delle famiglie.»
 
Andando nello specifico, in relazione alla gestione dei beni comuni lei presenterà il caso di Mezzolombardo. Può fornirci qualche anticipazione del suo intervento?
«Un elemento centrale è certamente quello della profonda trasformazione dell’assetto fondiario del territorio di Mezzolombardo tra il medioevo e l’età moderna. Il fenomeno interessò molte altre comunità trentine: nel caso di Mezzolombardo, l’abbondante e ricca documentazione conservata nell’archivio storico del Comune consente di fornire anche precisi dati quantitativi non sempre disponibili per altre realtà locali.
«Molto in breve: si può calcolare che a Mezzolombardo nel corso di tre secoli, fra metà tardo Quattrocento e metà Settecento, la superficie complessiva di terreni coltivati privati diventò più che doppia, passando da circa 250 ettari a oltre 530 ettari.
«Questo notevole incremento si verificò con la progressiva alienazione ai privati dei terreni comunali: si divideva un determinato territorio in lotti assegnati ai vicini tramite sorteggio. Un evidente riscontro di tale antica prassi consuetudinaria (peraltro seguita in molte altre realtà) è fornito dalla toponomastica storica di Mezzolombardo: nel primo Cinquecento sono documentati due toponimi significativi, «Sort vechie» e «Sort nove», del tutto trasparenti nel significato e nella loro motivazione.
«Le scelte di politica agraria compiute nel corso dei secoli dalla comunità di Mezzolombardo in rapporto alla particolare situazione fondiaria del suo territorio, e sulle spinte di determinati gruppi locali di potere economico, furono determinanti nel segnare il destino dei beni comuni locali e nel disegnare il territorio così come lo vediamo oggi.»
 
Lei ha al suo attivo diverse collaborazioni a progetti editoriali: ha in programma altre pubblicazioni future?
«Un progetto di studio che vorrei portare a compimento riguarda l’argomento che ho affrontato trent’anni fa all’esordio della mia attività di ricerca: sto parlando delle carte di regola delle comunità rurali trentine. Il panorama degli esemplari oggi disponibili supera le trecento unità: una base di materiali di ricerca di tutto rispetto in quantità e qualità. Riassumendo molto in breve, l’idea di fondo sarebbe quella di trovare ove possibile una risposta alla domanda che qui propongo in termini estremamente riduttivi: “Perché la carta di regola di una comunità porta quella data?
«La domanda è meno banale di quanto potrebbe apparire: si tratta di ricostruire caso per caso il contesto storico nel quale una comunità avvertì la necessità di codificare in forma scritta e approvata dall’autorità le antiche consuetudini sino ad allora praticate e trasmesse oralmente.
«In altre parole si dovrebbe dare una dimensione storica a documenti normativi che, oltre alla loro data di nascita, raramente contengono al loro interno elementi relativi alla loro genesi e alla loro storia.
«Ho motivo di ritenere che un’indagine di questo tipo possa mettere in luce diversi nuovi risvolti sulla storia delle comunità rurali trentine e delle loro carte, con particolare riguardo a quelle più antiche.»
 
Daniela Larentis – d.larentis@ladigetto.it

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