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I giochi violenti di Squid Game – Di Giuseppe Maiolo

I figli non hanno bisogno del «Parental Control», ma degli adulti di persona per essere quanto meno accompagnati ad affrontare questi argomenti

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Da quasi due mesi si sta parlando di Squid Game, il «Gioco del calamaro» la serie TV coreana che sta spopolando.
A solo 4 settimane dall’uscita è stato calcolato che più di cento milioni, tra cui una grande quantità di bambini, erano le persone che l’avevano visto decretandone un successo planetario.
Successo che pare determinato dai contenuti che affronta ma anche dalla forma comunicativa ricca di suspense e colpi di scena terrificanti che tengono incollato al monitor lo spettatore.
Ne ho visto anch’io alcune puntate e devo dire che oltre al ritmo incalzante che attrae, Squid Game intercetta emozioni e sentimenti, mettendo in circolo una quantità di vissuti e consentendo l’identificazione con i vari personaggi.
 
In gran in parte paradossale, a mio avviso, Squid Game è una narrazione della realtà nella quale viviamo e al contempo una lettura di come la stiamo rappresentando a noi stessi e agli altri. Rappresentazione ansiogena e terrorizzante, dove la violenza spettacolarizzata e ipnotizzante finisce spesso per essere normalizzata.
Si racconta di un gruppo di persone che «liberamente» partecipa a una competizione in cui c’è in palio una grossa somma di denaro, con la prospettiva di poter cambiare la propria condizione di vita e uscire dalla povertà e dalla disperazione.
In Squid Game però il gioco è particolare: chi perde non va a casa, ma viene ucciso.
 
E allora la competizione si trasforma in un gioco estremo per la sopravvivenza, dove in palio c’è la vita. Lo capisci fin dall’inizio con il famoso 1,2,3 stella, dove l’eliminazione è fisica.
Comprendi che la chiave di lettura di questa storia in 9 puntate, è quella dichiarata da un vecchio malato di tumore che dice «La vita è un inferno, persino peggiore di quel gioco».
La narrazione allora non è solo quella del vivere quotidiano in una società con forti disuguaglianze sociali come è quella coreana, quanto piuttosto la storia della «vita come competizione estrema», secondo quanto afferma lo stesso regista.
Le storie raccontate con l’ausilio di numerosi elementi simbolici, passano quasi tutte attraverso vari giochi che sono conditi da azioni di violenza e morte, dove la risposta emotiva di chi partecipa è polarizzata, o di grande sofferenza o di totale indifferenza.
 
E non è sottotraccia una costante deumanizzazione della violenza e della morte.
Con questa se ne giustificano le azioni e si sopprime compassione e partecipazione empatica alla sofferenza.
È allora che nasce la domanda: Squid Game è adatto ai minori?
Non stiamo già accettando a sufficienza che i bambini siano meno capaci di cogliere la sofferenza degli altri e trovino spesso un gioco divertente le prevaricazioni dei bulli?
In questo periodo ho sentito madri riferirmi preoccupate che i loro figli della scuola primaria già conoscono Squid Game e che alcuni di loro propongono l’imitazione di quei giochi.
 
Ma sento anche affermare che le violenze della serie coreana non sono peggio delle tante che circolano in televisione o nei videogiochi.
Non nego che questo sia vero, ma temo che le tematiche di Squid Game aumentino nei bambini e negli adolescenti il rischio di emulazione degli atteggiamenti violenti.
Ricordiamoci che loro non sono in grado di decifrare le immagini che vedono né distinguere realtà e finzione.
Hanno bisogno di adulti e non del Parental Control, per essere quanto meno accompagnati ad affrontare questi argomenti.

Giuseppe Maiolo - psicoanalista
Università di Trento - www.officina-benessere.it

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