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Il Bel Paese è depresso? – Di Giuseppe Maiolo, psicoanalista

Più probabilmente si tratta di «individualismo esibito», ovvero un pensare solo per sé ed essere unicamente centrati sulla propria immagine e sul proprio mondo

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C’era una volta il Bel Paese... Potrebbe essere l’inizio di una storia che racconta come questo nostro paese è cambiato e forse si è davvero ammalato.
Paese inteso come Italia e come italiani, che i sociologi e gli economisti definiscono depresso per via della lunga crisi economica che stiamo tutti quanti vivendo.
Qualche anno fa, del resto, Giuseppe De Rita del Censis, nel suo annuale rapporto, descriveva l’Italia come un paese in letargo e incapace di progettare il futuro. In sostanza, voleva dire, ammalato di depressione.
Così i sociologi incontrano la psicologia e utilizzano il linguaggio degli psicologi per diagnosticare il disagio o formulare una possibile prognosi per il paese Italia.
Allora potrebbe essere simpatico che il clinico, abituato per professione a far distendere sul lettino il singolo individuo, ci provi quanto meno ad analizzare i sintomi del paziente Italia.
Il che vuol dire osservare il disagio degli italiani, cioè di noi tutti, compreso chi scrive e provare a vedere i segni prevalenti della psicopatologia annunciata.
 
Depressione, si diceva, ovvero un disturbo dell’umore.
Una patologia della psiche con diversi livelli di gravità, ma caratterizzata da sintomi specifici come la sensazione di vuoto e di smarrimento, una certa quantità di angoscia per il futuro e quasi sempre una diffusa tristezza accompagnata ad una visione negativa o catastrofica della vita che rende il soggetto apatico e incapace di agire.
Si aggiunga poi un’altra caratteristica della malattia depressiva: la ruminazione.
Il depresso in effetti è uno che continua a pensare e ripensare al suo star male, al passato, al tempo perduto e, mentre si isola dal mondo per concentrarsi solo su di sé, tende a piangere e lamentarsi in continuazione e quando chiede aiuto, chiede la pillola magica per star bene subito e a chi lo cura la formula risolutiva.
È un paziente impaziente che fatica a trasformare il disagio.
 
Visti in quest’ordine, allora, i sintomi della malattia depressiva sembrano appartenere al paziente Italia.
Cioè ad un paese che si lamenta in continuazione e non sogna più, non guarda avanti ma indietro e, caso mai, aspetta che domani arrivi qualcuno capace di rimettere a posto le cose.
In effetti a guardarci bene siamo diventati un po’ tutti lamentosi e logorroici, continuamente volti a rimuginare sulle cose e sintonizzati sempre e solo su noi stessi. Non sappiamo più tacere, e nelle conversazioni facciamo monologhi più che dialoghi.
Forse è per questo che non sappiamo più ascoltare e lasciare spazio alle parole degli altri?
Non siamo più in grado di percepire il nostro interlocutore e sentire ciò che prova forse perché sentiamo solo nostro mantra monotono e totalizzante?
 
Ma sarà per questo allora che ci sfuggono tante emozioni e tanti stati d’animo nostri e degli altri che riusciamo ormai solo a definire con quelle innumerevoli faccine con cui riempiamo i nostri messaggi?
Mi vien da dire che questo disturbo però ha anche un altro nome.
Si chiama individualismo esibito. Ovvero un pensare solo per sé ed essere unicamente centrati sulla propria immagine e sul proprio mondo.
Incapaci di condividere realmente e comunicare sentimenti ed emozioni, ci siamo inventati le varie «piazze virtuali» dove apparentemente mettiamo in comune con gli altri, i nostri amici o il mondo intero, quello che facciamo, dove andiamo, i posti che vistiamo.
In realtà ci esibiamo. Ci facciamo vedere per il piacere di essere sul palcoscenico e avere i riflettori addosso.
 
Ma che vuol dire allora? Come curare il paziente Italia?
Forse urge prendere coscienza di questo nostro malessere comune e diffuso magari iniziando con il rileggere quella celebre poesia di Montale «Non chiederci la parola» che nella chiusa finale diceva «Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,/ sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
 
Giuseppe Maiolo, psicoanalista
pino.maiolo@icloud.com

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