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Bulli non si nasce, cyberbulli si diventa – Di Giuseppe Maiolo

Con le tecnologie l’aggressività e la violenza sono cambiate, ma la radice del fenomeno è sempre la stessa

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Nessuno nasce violento ma tutti possono diventare bulli. E oggi con le nuove tecnologie della comunicazione digitale è ancora più facile far emergere aggressività e violenza come gioco e divertimento, senza una chiara consapevolezza della gravità dei propri comportamenti.
Non molto tempo fa il bullismo era quasi esclusivamente costituito da azioni fisiche violente e decisamente intenzionali a carico di soggetti deboli, timidi e insicuri.
Spesso si trattava di femmine impaurite o di maschi fragili e timidi, insicuri o con qualche disabilità.
Potevano essere i compagni più piccoli o quelli che non riuscivano bene a scuola su cui il bullo si scagliava per poter dimostrare la propria superiorità e essere ammirato o riconosciuto leader.
 
Secondo un’indagine di qualche tempo fa realizzata dalla Società Italiana di Pediatria su un campione di circa 3.000 ragazzi tra gli 11 e 14 anni, le motivazioni che spingevano i bulli a diventare tali erano quello di avere il riconoscimento degli amici (84%), essere ammirati dalle ragazze (61%), non sentirsi esclusi o emarginati dal gruppo (61%) e anche divertirsi alle spalle delle vittime (45%).
Di solito vi era poca consapevolezza relativa al far del male perché prevaleva il gusto del «potere» che spesso spingeva i bulli ad assumere comportamenti violenti sia per rivalersi di soprusi che per il piacere del divertimento.
 
Oggi si diventa bulli per gioco, ovvero molto di più di un tempo per divertirsi e far divertire, per essere popolari e occupare il palcoscenico globale che è a portata di tutti con il web.
I nuovi strumenti tecnologici usati già dai bambini con grande abilità e frequenza, sono un mezzo potente di comunicazione in grado di far avere grande visibilità nella frazione di un secondo.
Si possono infatti trasmettere in maniera «virale» notizie offensive, calunnie, minacce e quant’altro possa colpire o far del male che allo stesso tempo rende popolari perché fa divertire.
 
Alimenta questi comportamenti il piacere derivante da un pubblico plaudente che ti fa sentire «figo», o ancor più supereroe.
Domina l’idea che in rete tutto sia possibile e ognuno possa permettersi di dire e fare ciò che vuole.
È diffuso il pensiero che pure le vittime si divertano e sanno stare al gioco.
Tra i minori inoltre manca quasi del tutto l’idea che può star male e soffrire chi è oggetto di aggressione.
Il dolore non è un sentimento condiviso soprattutto perché il web non ti fa provare sentimenti.
Al massimo ti da emozioni immediate che si collocano sull’asse del mi piace o non mi piace, e il comportamento violento del cyberbullo diventa oggetto di ammirazione, esempio da imitare e riprodurre.
Nessuno, al contrario, si spinge a chiedersi cosa prova l’altro, nessuno si interroga sul senso delle azioni.
 
Prevalgono piuttosto i modelli forti degli adulti, i comportamenti violenti o caratterizzati da prepotenza a cui spesso i bambini si ispirano fin dalla prima infanzia.
Mancano spesso autorevolezza e normatività dei genitori, capaci di contenere l’aggressività e trasmettere i valori della legalità e del rispetto reciproco.
L’assoluzione che questo adulto, genitore o insegnante che sia, tende a dare agli atteggiamenti provocatori dei bulli, spesso giustifica la violenza.
Di certo non insegna a distinguere il male dal bene.
Così si diventa stalker grazie a queste storie e a questi percorsi e le radici da cui nascono persecutori e cyberbulli sono profonde, provengono sia dalle esperienze di frustrazioni e di offese subite che da vuoti affettivi e da mancanze.

Giuseppe Maiolo, psicoanalista
pino.maiolo@icloud.com

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