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Centenario della Marcia su Roma e il Trentino – Di G. de Mozzi

Il 28 ottobre 1922 scattò la Marcia su Roma. E l'indomani Mussolini fu incaricato di governare l’Italia. Lo avrebbe fatto per 20 anni

Oggi pubblichiamo la puntata relativa alla Marcia su Roma vera e propria.
Con l’occasione, vogliamo precisare che l’autore di queste puntate non è uno storico, ma un giornalista storico.
La differenza sta nel fatto che lo storico deve frugare tra i documenti originali per trovare la verità, mentre il giornalista fruga tra gli storici per raccontare come sono andate le cose.

Già poco dopo le elezioni del 1921 Mussolini dichiarò i suoi intenti: «Prenderemo Roma con le elezioni e con la forza».
L’uomo, come lo ha definito Antonio Scurati, politicamente è una bestia: fiuta quello che accadrà. E quel che fiuta è un’Italia sfinita, stanca della casta politica, della democrazia in agonia, dei moderati inetti e complici». E aveva capito benissimo che i due metodi, elezioni e forza, non potevano viaggiare separati.
Da una parte Farinacci voleva usare solo la forza, sostenendo che lo Stato non era in grado di fermare una marea così grande di fascisti scatenati. Dall’altra, Mussolini sapeva benissimo che se lo Stato lo avesse voluto avrebbe schiacciato i fascisti senza troppi sforzi.
E, dato che il politico era lui, prima di agire si mosse per garantirsi l’appoggio delle fasce del Paese che erano in grado di sostenerlo.

In Parlamento i leader lo avevano capito e pensarono che coinvolgere i fascisti in un nuovo governo li avrebbero tenuti sotto controllo.
I popolari però non ci stavano e pertanto il presidente del consiglio Facta cominciò a fare proposte concrete senza di loro. L’idea era di concedere ai fascisti qualche ministero, senza mai coinvolgere Mussolini e senza offrire ministeri importanti come quello dell’Interno.
I contatti si fecero sempre più intensi e ai massimi livelli, ma si capì subito che Mussolini - pur non avendo i numeri in parlamento - voleva tutto o niente.
Mussolini aveva pianificato un programma sottile di interventi personali per ottenere adesioni dai poteri forti e la benevolenza della popolazione, mentre Farinacci organizzava le sue «truppe» cercando di introdurre una gerarchia militare.
 
Già a gennaio Farinacci si trovava a disporre della maggiore forza politica organizzata della nazione. Fin dal novembre 1921 il Comitato Centrale del Partito Fascista aveva fissato le direttive per l’organizzazione delle squadre fasciste. A gennaio del 1922 vennero comunicate le gerarchie ai vari comandi, che corrispondevano a quanto segue:
Un comando generale, quattro ispettorati per le quattro zone in cui era suddivisa l’Italia. Ogni zona aveva un numero imprecisato di Legioni. Ogni Legione aveva da tre a nove Coorti, la Coorte aveva quattro Centurie, la Centuria aveva 4 squadre.
A loro volta i fascisti erano divisi in Principi (squadristi destinati all’azione) e Triari (milizia sussidiaria).
L’uniforme era costituita da una camicia nera e dai pantaloni grigio verde degli arditi.
Le insegne erano i gagliardetti, le fiamme, l’aquila romana.
E romani erano anche alcuni nomi delle gerarchie di comando: decurioni, centurioni, consoli.
Al vertice c’era il Duce, inteso non tanto come «colui che guida», quanto «colui che non può essere guidato». Insomma, il Duce aveva sempre ragione.
 
Da gennaio a settembre le crisi di governo si erano susseguite e Mussolini restava a guardare, sempre più sicuro che arrivava il suo momento. A suo favore si registrarono numerosi attentati di sinjistra, imboscate, eccidi, sparatorie e vittime. La gente era stufa.
E Mussolini, dal suo giornale, ammoniva che le forze di polizia «riuscivano a disarmare i difensori della nazione, ma non riuscivano a disarmare i nemici della nazione». Se continuerà così, aggiungeva, la gente invocherà il fascismo a salvare l’Italia.
Il 24 maggio, data fatidica per l’Italia, i mutilati e invalidi di guerra che accompagnavano il feretro di Enrico Toti per una degna sepoltura, vennero attaccati in un agguato a fuoco, Molti morirono e molti furono feriti. Conseguenza, Mussolini invocò la «mobilitazione morale degli italiani».
 
Il 19 luglio ordinò ai fascisti in parlamento di chiedere le dimissioni di Facta per «incapacità».
Facta si dimise e il 21 luglio iniziarono le consultazioni. Quello stesso giorno fu incaricato Orlando, il quale rinunciò all’incarico già il 25. Il 26 luglio si propone Meda, il quale rifiuta. Poi rinuncia anche De Nava e si ritorna a Orlando. Il quale rifiuta nuovamente, così come non accetterà De Nicola.
Insomma, «l’inetto» Facta dovette rimanere al governo per gestire il momento più delicato della storia del Regno d’Italia.
 
A gettare benzina sul fuoco, l’Alleanza del Lavoro proclamava uno sciopero generale a partire dalla mezzanotte del 31 luglio. È stata la goccia che fa traboccare il vaso.
Il fascismo minacciò lo Stato di fare una «Marcia su Milano» se entro 48 ore non fosse stata riportata la calma nel paese.
Passarono le 48 ore e non cambiò nulla. I fascisti decisero allora di passare all’azione. Occuparono le stazioni, scortarono i treni, riattivarono le industrie «garantendo il diritto al lavoro chi non voleva scioperare».

Da Milano l’intervento fascista si estese a Savona, Ancona, Livorno, Genova, Bari, Verona e Venezia.
«Pochi giorni – scrivono le cronache di allora – bastano per riportare la normalità.»
Per i giornali (anche quelli stranieri) «questo sciopero è stato la Caporetto dei socialisti».
Mussolini a quel punto inizia una serie di comizi volti a raccogliere il consenso di massa. Inizia a Udine, Cremona, Milano.
Poi, come sappiamo, il 3 ottobre fu attivata la Marcia su Bolzano, dove «andò tutto bene tutto bene»: lo Stato non si era fatto vivo.
 
Il 16 ottobre, Mussolini convoca d’urgenza e segretamente a Milano (in Via San Marco, al civico 16, secondo piano) Michele Bianchi, Italo Balbo, Cesare Maria de Vecchi, Emilio De Bono, Gustavo Fara, Sante Ceccarini e Attilio Teruzzi.
Mussolini sintetizza la situazione e conferma la determinazione della Marcia. Ne traccia le linee generali e nomina un Quadrunvirato che, al momento dell’azione, assumerà ogni potere. Sono Balbo, De Bono, De Vecchi, Bianchi. Insieme studieranno il piano militare. Sede del comando, per qualche ragione che sfugge agli storici, sarà Perugia.

Ma le colonne fasciste dovranno concentrarsi in altri tre punti: Santa Marinella (Civitavecchia) per le legioni di Toscana, Liguria e Piemonte; Monterotondo per le legioni dell’Emilia, Veneto e Lombardia; Tivoli per Marche, Abruzzo, Lazio, Mezzogiorno. A Foligno verrà costituita una riserva.
L’azione, prevista inizialmente per il 21 ottobre, viene fatta slittare per «ragioni di strategia politica». In realtà Mussolini voleva fare un’ultima prova politica prima di sferrare il colpo decisivo perché, mentre il Nord del Paese era con i fascisti, il Meridione stava genericamente dalla parte del Re.
Per questo organizzò a Napoli il Congresso Nazionale Fascista.
 
Tenuto il 24 ottobre al teatro san Carlo di Napoli e poi esteso in piazza del Plebiscito, ottiene la partecipazione di decine di migliaia di Camice nere.
E, visto che il Duce sapeva parlare in maniera convincente, coinvolgente e trascinante, ottenne una reazione straordinaria di adesioni. Un’ovazione vera e propria. Iniziarono a inneggiare «Du-ce – Du-ce!»
Quello che meraviglia è che, pur avendo anticipato che prenderà il Paese con la forza, lo Stato non fece nulla per fermarlo.
 
In un ultimo convegno ristretto, all’Hotel Vesuvio, Mussolini impartisce gli ordini ai Quadrunviri. Ma nulla dovrà essere fatto senza il suo ordine diretto.
Prima di tornare a Milano, Mussolini tiene anche un incontro riservatissimoa Roma on i vertici della Massoneria. Voleva anche il loro appoggio, anche se era totalmente contrario alle logge segrete. Pare che lo abbia ottenuto.
Giunto a Milano, Mussolini ostentò la calma più assoluta, mostrandosi a teatro perfino alla vigilia della Marcia. Però aveva disposto che, a difesa del suo giornale, venissero collocate all'ingresso le balle di carta per la rotativa.
 
Il re tornò finalmente a Roma dalla tenuta di San Rossore con tutta calma e fu accolto da Facta che gli chiedeva trafelato di firmare l’ordine che lo autorizzava a dichiarare lo «stato d’assedio». Il provvedimento avrebbe consentito di disporre agli ingressi della capitale carabinieri e forze armate.
Qui non è chiaro cosa successe. Pare che il re abbia firmato il decreto, che però rimase lettera morta. O non lo aveva firmato per nulla o, dopo averlo firmato, lo tenne per sé.
Sta di fatto che in quella maniera Vittorio Emanuele III aprì le porte al Fascismo.
 
Alle ore 24 del 27 ottobre, Perugia fu occupata dai fascisti. Il prefetto aveva accettato l’ultimatum, d’altronde non aveva disposizioni da Roma e le forze dei fascisti erano soverchianti. Da lì partirono le direttive e si avviarono le tre colonne secondo il piano prestabilito.
A Roma, presi dal panico, ipotizzarono di formare un governo Salandra-Mussolini in extremis, ma il tentativo fallisce.
«A Roma vengo solo per governare» - aveva risposto Mussolini.

Quel 28 ottobre la Marcia su Roma raggiunse i suoi obiettivi. E adesso cosa doveva fare Mussolini? Dal Quirinale gli proposero di venire a Roma e Mussolini rispose che sarebbe venuto solo se invitato dal Re con l’incarico di formare il governo.
L’invito arrivò e Mussolini partì per Roma col treno delle ore 20 del 29 ottobre.
Fu un viaggio trionfale, che durò un’intera giornata perché ovunque fu accolto come il Padre della patria.
Si sistemò in un albergo della Capitale e l’indomani, vestito in tight e con la bombetta, salì al colle a ricevere l’incarico.
Secondo gli agiografi, avrebbe detto «Maestà, vi porto l’Italia del Piave e di Vittorio Veneto», ma pare che la frase gli fosse stata attribuita poi.
 
Il primo impegno di Mussolini fu quello di rimandare a casa i 30.000 che avevano fatto la Marcia su Roma. Erano bagnati fradici, affamati, disorientati. E tenuti ben lontani dal centro città.
Fortunatamente erano anche male armati, perlopiù con armi da caccia (e le solite granate…).
Li fece rifocillare e poi ordinò al Capo Stazione di Roma di organizzare i treni necessari per riportare quei disgraziati a casa.
Ce l’aveva fatta. Aveva assunto il governo con la forza e con la politica. Vi sarebbe rimasto per 20 anni.
 
E i fascisti del Trentino Alto Adige che parte ebbero nella Marcia su Roma?
Lo spiegheremo domani nella puntata conclusiva, in cui pubblicheremo anche tutti i nomi dei partecipanti.

Guido de Mozzi - g.demozzi@ladigetto.it

(Le puntate precedenti a questo link)

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