Ne parliamo con la dott.ssa Giorgia Pezzi – Di Nadia Clementi

Benessere e trasformazione nei sistemi complessi: uno sguardo psicologico e relazionale tra istituzioni, organizzazioni e contesti educativi

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In un’epoca segnata da profondi mutamenti sociali, educativi e lavorativi, emerge con forza il bisogno di visioni capaci di tenere insieme benessere, profondità e innovazione. 
Giorgia Pezzi, nata a Trento nel 1983, ha conseguito la laurea magistrale in Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni ed è attualmente in formazione post-lauream per conseguire l’abilitazione alla professione di psicologa. 

Dopo un lungo percorso maturato nella pubblica amministrazione, con incarichi in ambito istituzionale, gestionale e culturale, oggi approfondisce i legami tra relazioni, inclusività e trasformazione nei sistemi scolastici e organizzativi.
La sua traiettoria professionale si snoda tra progettazione culturale, gestione organizzativa e supporto relazionale: esperienze che le hanno permesso di osservare da vicino i meccanismi che regolano ecosistemi organizzativi e il ruolo centrale che vi gioca la persona. 

Anche grazie a un tirocinio attivo presso un Istituto Tecnico Economico, esplora il legame tra qualità delle relazioni, inclusione, performance e sostenibilità nei contesti educativi e lavorativi.
Convinta che il lavoro debba contribuire alla fioritura dell’individuo, propone una visione in cui la cura delle connessioni umane diventa leva strategica per il cambiamento autentico. 

Dalla promozione del benessere psicofisico alla riflessione sul change management, il suo approccio unisce rigore scientifico e sensibilità umana, con uno sguardo capace di accogliere la complessità senza timore.
In questa intervista, ci invita a riscoprire il valore trasformativo delle relazioni come chiave per leggere e agire nei sistemi contemporanei con maggiore consapevolezza, responsabilità e umanità.

 
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Giorgia, il suo percorso professionale si è sviluppato tra contesti istituzionali, culturali e organizzativi, e oggi la vede impegnata anche nell’ambito scolastico: quali elementi comuni ha individuato nei diversi sistemi in relazione al benessere delle persone?
 
«Ciò che continuo a riconoscere con sempre maggiore chiarezza è che, nonostante la diversità strutturale dei contesti in cui opero e mi sto formando, il benessere nasce sempre da uno stesso nucleo: la forza dei legami significativi. 
«È un filo invisibile ma resistente, che tiene insieme il tessuto delle esperienze personali e professionali. In ogni ambito, chi vi partecipa esprime un bisogno fondamentale: sentirsi riconosciuto, visto e onorato nella propria interezza. 
«Quando questa validazione manca - quando l’individuo viene ridotto al solo ruolo o alla sua funzione - si crea un vuoto che si riflette anche in termini di motivazione, partecipazione e fiducia. Ho osservato come ambienti molto strutturati e formalizzati possano sciogliersi in una nuova vitalità quando viene introdotto un ascolto autentico o una modalità comunicativa più accogliente. 
«Il benessere, per me, non è il premio dopo la performance. È ciò che consente alla performance - ma anche allo spirito di appartenenza, alla creatività, alla resilienza, di emergere spontaneamente. 
«È, in fondo, la base su cui si costruisce una sostenibilità relazionale in ambienti sempre più articolati e interdipendenti.»
 
Nell’ambito del suo tirocinio presso un Istituto Tecnico Economico, quali dinamiche relazionali o formative l’hanno colpita finora, e in che modo ritiene che possano incidere sulla qualità dell’apprendimento e dell’inclusione?

«Il tirocinio mi sta offrendo un punto di vista prezioso sulla quotidianità scolastica, che è molto più di una sequenza di lezioni. È uno spazio denso di scambi, dove ogni atto educativo ha il potere di includere o escludere, di nutrire o disattivare le risorse interne degli studenti. 
«Quello che noto con più forza è il peso delle micro-interazioni: una presenza, una pausa ascoltata, una parola detta nel momento giusto possono cambiare completamente la percezione di sé che uno studente ha. E quando questo accade, cambia anche la sua disponibilità a imparare, a partecipare, a credere nelle proprie possibilità. 
«Per come lo intendo, l’apprendimento è un processo integrato: coinvolge mente, corpo, emozioni, identità. Se l’ambiente non è sicuro dal punto di vista psicologico - se c’è paura di sbagliare, di non essere all’altezza o di sentirsi invisibili - la curiosità e lo slancio personale si ritirano. 
«Al contrario, laddove esiste una cornice relazionale stabile, un riscontro positivo e una possibilità di esprimere la propria soggettività, si creano i presupposti per un percorso formativo che coinvolge e include davvero.»
 
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Nella sua visione, la promozione del benessere può diventare una leva concreta per l’innovazione nei contesti lavorativi ed educativi. Quali sono, secondo lei, le condizioni fondamentali perché questo accada?

«Assolutamente sì. Oggi più che mai la promozione del benessere non può limitarsi ad azioni episodiche o superficiali, ma va inserita in modo sostanziale nella cultura organizzativa. È una leva strategica, non un lusso: senza questa attenzione alla dimensione relazionale, le energie si spengono, i conflitti si moltiplicano e l’innovazione si arresta. 
«Perché questa cura coesiva possa davvero aprire nuove traiettorie di sviluppo, servono alcune coordinate centrali. La prima è una prospettiva comune e complessiva: non riguarda solo l’individuo, ma l’intero intreccio tra ruoli, vissuti e obiettivi. 
«Serve leadership che sappia vedere i membri dei gruppi prima dei processi, che crei un terreno fertile per la trasparenza interiore, dove ci sia spazio anche per l’errore come forma di apprendimento. 
«Un’altra condizione è il coraggio di rallentare: per ascoltare, per ripensare, per ritrovare equilibrio. In un tempo dominato dalla velocità e dalla produttività, la vera innovazione sta anche nella capacità di scegliere il ritmo giusto, quello che permette alle idee - e alle persone - di maturare senza bruciarsi. Infine, servono nuovi linguaggi, capaci di dare voce a un approccio fondato sul rispetto profondo dei legami, fatto di empatia, premura, ma anche di coordinamento, responsabilità e coerenza, in grado di trasformare le pratiche educative e organizzative in esperienze feconde.»
 
Nel suo percorso accademico ha affrontato il tema del change management: come si può accompagnare un'organizzazione in trasformazione senza perdere di vista la centralità della persona?

«Il cambiamento organizzativo, quando è radicato, è sempre anche un processo di crescita interna e interpersonale. 
«Non può essere governato unicamente con logiche di controllo o di efficienza, ma richiede un accompagnamento attento ai vissuti, agli stati d’animo, alle identità professionali in gioco. Nel mio percorso accademico e applicativo, ho potuto osservare quanto sia decisivo creare ecosistemi che favoriscano il pensiero riflessivo e l’intelligenza collettiva: è nel dialogo, nella possibilità di nominare ciò che si muove, che si costruisce un patrimonio valoriale condiviso. 
«Un esempio che porto con me riguarda l’introduzione di pratiche narrative all’interno di un processo di rinnovamento: l’invito a raccontare la propria testimonianza lavorativa, in un setting protetto e riservato, ha permesso a molte persone di sentirsi riconosciute, di dare senso al proprio agire e di ritrovare una connessione genuina con l’ambiente. 
«In quest’ottica, le organizzazioni che desiderano attraversare una transizione in modo sano e sostenibile potrebbero prevedere il supporto di figure professionali come psicologi del lavoro, esperti HR o facilitatori di processi trasformativi. 
«Non si tratta solo di gestire, ma di offrire un accompagnamento sensibile alle dinamiche profonde che il passaggio attiva. Un riassetto diventa davvero duraturo quando chi vi partecipa può riconoscersi nel cammino e contribuire a plasmarlo. 
«Senza questa dimensione di co-costruzione, ogni ridefinizione rischia di rimanere esterna, percepita come imposta, con effetti di distanza e isolamento.»

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Lei parla di coltivare relazioni sane, inclusive e sostenibili come scelta di cura. Cosa significa, per lei, «cura» all’interno dei sistemi complessi che oggi ci troviamo ad abitare?

«Per me, cura nei sistemi complessi si traduce in dinamiche intenzionali che permettano ai gruppi di lavorare e apprendere in ambienti realmente generativi. Un concetto che va oltre l’attenzione individuale e si concretizza nell’adozione di pratiche trasformative. 
«Un’applicazione concreta? La sperimentazione di unità relazionali integrate nelle organizzazioni: piccoli gruppi stabili, trasversali ai ruoli, che si incontrano regolarmente per leggere insieme le criticità, condividere micro-obiettivi settimanali e allenare l’ascolto reciproco. Questo tipo di struttura favorisce sia il senso di agency che la prevenzione dello stress relazionale. 
«Un’altra leva concreta è la manutenzione emotiva dei team: pause mensili strutturate in cui si rielaborano insieme le fatiche lavorative, normalizzando la fragilità e la vulnerabilità, creando mappe comuni di significato che rafforzino il legame al contesto. Sono momenti di cura sistemica, capaci di anticipare fratture interne prima che diventino croniche. 
«E laddove questo benessere viene coltivato in modo diffuso, si osservano benefici tangibili: minore turnover, riduzione dello stress cronico, minor ricorso a supporti sanitari, aumento della partecipazione e un miglior equilibrio psicofisico generale, con ricadute positive anche in termini di efficacia operativa e ritorno economico. 
«La cura, insomma, non è un privilegio, ma una tecnologia sociale essenziale per un presente più equo e un domani più abitabile.»
 
Guardando al presente e al futuro, quali sono i progetti, i desideri o le strade che sente di voler percorrere? Cosa la motiva oggi e cosa sogna di contribuire a costruire nei contesti in cui vive e opera?

«In un tempo segnato da pressioni emergenti, da dinamiche organizzative sfidanti e da un’iperconnessione che rischia di rendere impersonali i rapporti, diventa sempre più necessario immaginare ambienti di lavoro e apprendimento che siano realmente nutrienti, capaci di intrecciare benessere, innovazione e responsabilità condivisa. 
«La conciliazione tra vita e professione, le trasformazioni innescate dall’intelligenza artificiale, il mutamento del contratto psicologico e la frammentazione sociale richiedono nuove visioni e pratiche più coraggiose. In questo quadro, la responsabilità sociale d’impresa non può più restare un’espressione accessoria, ma deve farsi motore di scelte coerenti, di governance inclusiva e di relazioni quotidiane fondate su una reale apertura, collaborazione e spinta evolutiva. 
«Perché è solo osando il passo successivo che possiamo dare forma a contesti lavorativi più ispirati alla dignità, più lungimiranti, e capaci di futuro. Nel cuore di tutto, il mio sogno è semplice ma rivoluzionario: che ogni persona possa sentirsi felice nel luogo in cui vive e lavora. Felice non nell’accezione superficiale, ma come esperienza di pienezza, riconoscimento e possibilità. Perché quando chi abita questi sistemi sta bene, anche le strutture evolvono e si rafforzano.»
 
Nadia Clementi - [email protected] 
Giorgia Pezzi - [email protected]