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Storie di donne, letteratura di genere/ 270 – Di Luciana Grillo

Marinella Savino, «La sartoria di via Chiatamone» – La storia di Carolina, una straordinaria figura di donna, «libera per tutta la vita»

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Titolo: La sartoria di via Chiatamone
Autrice: Marinella Savino
 
Editore: Nutrimenti 2019
Genere: Narrativa moderna contemporanea
 
Pagine: 176, Brossura
Prezzo di copertina: € 16
 
Una straordinaria figura di donna - Carolina, «libera per tutta la vita» - è al centro di una storia complessa, ricca di eventi, di gioie e dolori, che si svolge nella Napoli in guerra, bombardata da nemici ed ex nemici, ridotta allo stremo eppure capace di risollevarsi.
Carolina fu donna libera nel senso più bello del termine, libera «dentro», perché «nacque e visse in un’età in cui la libertà, per una femmina, aveva poco senso».
Si sposò con Arturo in età già matura per quei tempi (aveva trentacinque anni), lei che pensava di avere ormai evitato il pericolo-matrimonio, lei «un tipo decisamente non facile, turbolento, indocile. Renitente a qualsiasi costrizione da sempre. Di modi spicciativi, poco incline ala dolcezza e refrattaria alle buone maniere».
 
Arturo era il suo opposto, bello, alto, moro, gentile, garbato, colto, «un uomo affabile e fuori dal tempo». E innamorato. E felice di condividere con Carolina il resto della sua vita.
Carolina, che fin da bambina aveva dimostrato carattere e buon gusto, era intanto diventata «la» sarta della città, capace di creare con i tessuti, le trine e i merletti, dei veri capolavori, tanto che tutte le signore della Napoli bene volevano che fosse lei a cucire i loro abiti.
Anche di questo don Arturo era felice, come di ospitare in casa amici e familiari, «contento di tutta quella famiglia e di tutto quello che avevano. Nonostante quello che aveva perso, si sentiva ricco. Era tutta lì, in quella casa, la sua ricchezza».
 
La famiglia cresceva, grazie all’ospitalità generosa di Carolina ed Arturo: dopo un bombardamento, anche l’amica Irene con marito e figli si trasferì presso di loro, avendo perduto la casa e la bottega.
L’autrice conosce la sensibilità femminile, sa che la perdita della casa per gli uomini «era solo un fatto economico... Ma finiva lì. Per loro, no. Loro erano femmine. E la casa era tutto il mondo. Il loro mondo».
Le prove che attendono questa grande famiglia sono tante, dal quel telegramma che dice «Mario disperso» all’incidente che causa l’amputazione di una gamba di don Arturo.
 
Per Carolina, che suo marito «avesse una gamba in meno o anche in più, non era assolutamente rilevante. Era così attaccata alla vita che non stava a guardare il numero delle gambe…», ma sapeva anche «che non sarebbe stato semplice che un uomo bello ed elegante come lui si rassegnasse…».
Al rientro a casa del suo don Arturo, Carolina accolse amici e parenti, «Lucia prese le tazze buone e la guantiera d’argento, riempì la zuccheriera del servizio per un quarto. Lo zucchero ormai era introvabile da qualunque parte… La guerra, la fame, la miseria, i soldi… Nessuno li pensò. Pensarono tutti alla gamba di don Arturo».
 
E intanto «le bombe cadevano a tappeto sulla città… in città mancava qualsiasi cosa, viveri e acqua, un miraggio… Carolina usciva a prima mattina, da sola o con Irene, per cercare di trovare il modo di tirare avanti, almeno per la giornata».
Distruzione, morte, obbligo di sfollare… l’assolutamente inatteso ritorno del nipote Mario, dato per disperso, in qualche modo chiude la storia: gli ospiti di Arturo e Carolina ritornano nelle loro case, i figli di Carolina e Arturo prendono la loro strada, la sartoria chiude i battenti, la morte improvvisa di don Arturo lascia tutti senza dare alcun fastidio, come aveva sempre desiderato, il matrimonio della figlia Anna chiude il cerchio.
«Quando non ci fu più nulla in sospeso. Solo allora. Carolina s’ chiurett’ ’a porta ra casa arret’ e, cu chell’, ’a sarturi»>.
 
Marinella Savino ha scolpito una possente figura di donna. Forte, esemplare. Direi indimenticabile, e mi vengono in mente le coprotagoniste della quadrilogia di Elena Ferrante.
Unica piccola pecca? L’uso, sia pure sporadico, del dialetto che rende difficile la lettura e meno immediata la comprensione.
È oggi un’abitudine molto diffusa, forse una moda che si ispira a Camilleri…sinceramente, non riesco a condividerla.
Credo di essere stata in questo caso fortunata perché con il napoletano ho una certa confidenza, ma se fosse stato bergamasco o veneto, cosa avrei capito e quanto avrei perduto?
 
Luciana Grillo – l.grillo@ladigetto.it
(Recensioni precedenti)

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