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Postmodernismo. Stile e sovversione 1970-90 al Mart di Rovereto

Inaugurata il 25 febbraio, è visitabile fino al 3 giugno 2012 presso gli spazi del museo

La mostra «Postmodernismo. Stile e Sovversione 1970 – 1990», a cura di Glenn Adamson e Jane Pavitt e organizzata dal Victoria and Albert Museum di Londra., inaugurata ieri al Mart di Rovereto, è un’altra importante collaborazione tra il Mart e il prestigioso museo inglese, dopo la mostra «Cold War-La guerra fredda 1945-1970» tenuta nel 2009.
 
«Postmodernismo. Stile e Sovversione 1970 – 1990» è la prima rassegna completa sull’arte, l’architettura e il design degli anni Settanta e Ottanta, un periodo segnato dai controversi tentativi di definire i nuovi scenari culturali dopo le grandi stagioni delle avanguardie moderne.
Questa esposizione è, per il Mart, la prosecuzione di una ricerca avviata con la mostra Cold War, che fissava il proprio limite temporale agli anni Sessanta.
 
Il centro tematico della nuova iniziativa espositiva è il concetto di Postmodernismo, sviluppato a partire dai primi anni Settanta nel dibattito architettonico europeo, per giungere poi a influenzare ogni settore della cultura, e in particolare le arti visive, l’industria musicale e cinematografica, la grafica e la moda.
Si tratta di un nodo cruciale anche per le vicende culturali del nostro paese, che il Mart approfondisce e rilancia nell’edizione italiana del catalogo, con un testo dell’architetto Paolo Portoghesi.
 
La mostra prende spunto dall’analisi di una serie di idee radicali sviluppate in forte contrapposizione alle ortodossie del Modernismo: un ribaltamento dei concetti di purezza e semplicità, da sostituire con nuove forme e cromatismi, citazioni storiche, parodie, ma soprattutto con un nuovo senso di libertà associato all’architettura e al design.
Tra i modernisti, non era raro che lo stile personale fosse considerato un aspetto secondario rispetto allo sforzo di realizzare un programma utopico. Per i postmoderni, viceversa, lo stile è tutto.
 
La mostra  riunisce oltre 200 oggetti raccolti nei settori più disparati dell’arte, dell’architettura e del design.
In primo piano c’è il «design sovversivo» di Ettore Sottsass per lo Studio Memphis; la grafica di Peter Saville e Neville Brody; modelli e rendering architettonici come il disegno preparatorio di Philip Johnson per il grattacielo AT&T (1978) ; opere di Robert Rauschenberg, Cindy Sherman e Ai Weiwei; il busto in acciaio inossidabile di Luigi XIV del 1986 di Jeff Koons; la ricostruzione del monumentale lavoro di Jenny Holzer «Protect Me From What I Want» (1983-85); performance e costumi, tra cui il «Big Suit» indossato da David Byrne nel documentario «Stop Making Sense» del 1984; estratti da film come «The Last of England» di Derek Jarman (1987); video musicali di Laurie Anderson, Grace Jones e i New Order; e anche oggetti soprendenti come i servizi di piatti progettati da architetti come Zaha Hadid, Frank O. Gehry e Arata Isozaki.
 
La mostra è divisa in tre aree cronologiche, che identificano alcuni degli aspetti chiave del Postmodernismo.
La prima parte è dedicata all’architettura, e mostra come riferimenti culturali «alti» e «bassi» siano mescolati per produrre un nuovo linguaggio critico, ideato per sottolineare le inadeguatezze storiche del Modernismo.
 
Sono gli anni cui Paolo Portoghesi, con la sua «Via Novissima» presentata alla Biennale di Venezia nel 1980, attua una rivoluzione molto discussa, proponendo la costruzione effimera di facciate architettoniche con le quali si mette in ombra l’assioma modernista del rapporto tra forma e funzione.
Venti architetti internazionali progettano così, nel grande corridoio delle Corderie dell’Arsenale veneziano, un’immaginaria strada urbana: la «Via Novissima», capace di raccogliere molte critiche e altrettanti consensi.
 
Il linguaggio degli architetti postmoderni esprime anche un rifiuto delle condizioni alienanti del capitalismo avanzato.
Ecco allora architetti e designer come Aldo Rossi, e James Stirling, o ancora Ron Arad, Vivienne Westwood e Rei Kawakubo: il loro tratto comune è la tendenza ad assemblare frammenti di contenuti provenienti in gran parte dalle proprie memorie autobiografiche.
 
La parte successiva della mostra documenta la proliferazione del postmodernismo nel design, nell’arte, nella musica e nella moda durante gli anni Ottanta.
Performers come Grace Jones, Leigh Bowery e Klaus Nomi si divertono a giocare con i concetti di genere – in tutti i sensi – creando ibridi e personalità artistiche sovversive.
 
La sezione offre una ricca selezione di installazioni audiovisive e di fotografie di moda come quelle di Guy Bourdin ed Helmut Newton.
Si vedranno anche oggetti di scena usati da Annie Lennox e Devo, i giradischi del pioniere dell’hip-hop Grandmaster Flash, la copertina dell’album dei Kraftwerk «Die Mensch Machine» e i costumi di scena delle coreografie curate da Karole Armitage e Michael Clark.
 
Infine, l’ultima sezione esamina l’esplosione della cultura iper-consumistica negli anni Ottanta.
Il denaro come oggetto affascinante per artisti e designer è testimoniato in mostra dal design di Karl Lagerfeld per Chanel, o dai gioielli ideati per Cleto Munari da Ettore Sottsass, Michele De Lucchi e Marco Zanini.
 
L’eccesso è il segno distintivo del Postmoderno.
Un concetto colto al volo da marchi industriali come Swatch, MTV e Disney, che si affidano a designer di grande talento per trasformare i propri prodotti in chiave postmoderna.
 
Alla fine degli anni Ottanta, il Postmodernismo era dato per morto, senza che nessuno sapesse indicare cosa l’avrebbe sostituito.
La mostra si conclude quindi con una panoramica sull’arte e il design di questo periodo incerto e transitorio, e incoraggia attivamente il pubblico a riflettere su quale possa essere l’eredità del Postmodernismo nel nostro momento attuale.

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