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Lettere al direttore – Paolo farinati

Le maglie, talvolta larghe e talvolta strette, dell’articolo 41bis, il carcere duro

La disposizione venne introdotta dalla Legge 663 del 1986, detta anche legge Gozzini, che modificò la Legge 354 del luglio 1975. L'articolo era composto da un unico comma, che narrava:
«In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il Ministro della Giustizia ha facoltà di sospendere nell'istituto interessato o in parte di esso l'applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l'ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto.»
 
La norma aveva, quindi, una finalità preventiva nei confronti di situazioni di pericolo esclusivamente interne al carcere, come ad esempio la rivolta.
Questa norma andava cosi a completare il quadro delineato dall'articolo 14-bis, anch’esso introdotto dalla legge Gozzini, che prevedeva il cosiddetto «sistema di sorveglianza particolare», un istituto applicabile a quei detenuti ritenuti pericolosi per il loro comportamenti dentro il carcere.
Nel 1992, dopo la strage di Capaci, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della loro scorta, all'articolo si aggiunse un secondo comma disposto con il Decreto Legge n. 306 (detto Decreto antimafia Martelli-Scotti), convertito nella Legge 7 agosto 1992, n. 356. Il testo è stato poi modificato più volte. La variazione più incisiva fu nel 2002, eccone il testo originale:
«Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministro dell'interno, il Ministro di grazia e giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al comma 1 dell'articolo 4- bis, l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza.»
 
Con la nuova disposizione, in presenza di «gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica», si consentiva al Ministro della Giustizia di sospendere le garanzie e gli istituti dell'ordinamento penitenziario, per applicare «le restrizioni necessarie» nei confronti dei detenuti condannati, indagati o imputati per i delitti di associazione per delinquere di stampo mafioso, nonché i delitti commessi per mezzo dell'associazione o per avvantaggiarla.
L'obiettivo del legislatore era impedire il passaggio di ordini e comunicazioni tra i criminali in carcere e le loro organizzazioni sul territorio. Pertanto, in questa seconda ipotesi, la ratio è prevenire situazioni di rischio anche esterne al carcere.
La Legge 23 dicembre 2002, n. 279, abrogando la norma che sanciva il carattere temporaneo del "carcere duro", rese lo stesso permanente.
In sintesi, la norma tutt'oggi prevede la possibilità per il Ministro della Giustizia di sospendere l'applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti previste dalla legge e, in particolare, dall’articolo 27 della Costituzione Italiana, che vede nell’elemento rieducativo una pretesa di giustizia irrinunciabile, in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza per alcuni detenuti, anche in attesa di giudizio, incarcerati per reati di criminalità organizzata, terrorismo, eversione e altri tipi di reato.
 
Il regime si applica a singoli detenuti ed è volto a ostacolare le comunicazioni degli stessi con le organizzazioni criminali operanti all'esterno, i contatti tra appartenenti a una stessa organizzazione all'interno di un carcere e i contatti tra gli appartenenti a diverse organizzazioni criminali, così da evitare il verificarsi di delitti e garantire la sicurezza e l'ordine pubblico anche fuori dalle carceri.
È evidente che l’applicazione di tali provvedimenti richieda fondatezza, coerenza e specifici iter da parte sia del Ministero di Giustizia che del Parlamento e della magistratura.
Contro queste precise inderogabili disposizioni vanno a sbattere le parole assai gravi urlate in Parlamento dall’on. Giovanni Donzelli, in merito ai presunti illeciti comportamenti tenuti dall’anarchico Alfredo Cospito nel carcere di Sassari.
 
Cospito è da anni uno dei leader della Fai, la Federazione anarchica informale, e si è reso responsabili di più atti criminali, anche se questi non hanno mai portato all’uccisione di nessuno. Dall’ottobre scorso attua lo sciopero della fame contro l’applicazione dell’art. 41-bis per sé.
Le «grida» in Parlamento aprono questioni che attengono ai rapporti tra parlamentari, ministri, COPASIR e servizi segreti della nostra Repubblica, in ordine alla corretta applicazione del 41-bis.
Facciamo alcuni utili esempi. E’ di questi giorni l’evasione di Massimiliano Sestito, appartenente alla ‘Ndrangheta, che rompe il braccialetto elettronico ed evade dai domiciliari: è condannato all'ergastolo per l'omicidio dell'appuntato dei carabinieri Renato Lio, avvenuto nel 1991 a Soverato, in provincia di Catanzaro. Era già evaso una volta ed era in attesa di una sentenza della Cassazione per un altro omicidio, quello del boss Vincenzo Femia, esponente della criminalità romana.
Da cittadino mi chiedo: stante la sua più volte provata pericolosità criminale, a Massimiliano Sestito non era forse il caso di applicare da tempo il regime carcerario previsto dall’art. 41-bis?
 
Ho citato volutamente questi diversi casi, certamente criminali ma in maniera assai diversa, per affermare quanto le maglie dell’articolo 41-bis siano talvolta larghe e talvolta strette.
Spetta in primis alla Magistratura, organo e potere fondante e decisivo per la nostra Democrazia, interpretare e applicare il 41-bis.
Siamo consapevoli che è non materia facile, tutt'altro. Vero è che certe evasioni, certi provati contatti tra il detenuto in regime di 41-bis e altri detenuti e/o criminali mafiosi lascia assai perplessi. Fatti accaduti in carceri che dovrebbero essere di massima sicurezza.
Quanto denunciato in Parlamento dall'on. Donzelli corrisponde a verità? Da chi ha avuto le informazioni relative a contatti tra Cospito ed esponenti della mafia o della malavita? Non sono fatti banali, anzi(!).
Qui c’è in gioco la credibilità del nostro sistema giudiziario, e non solo. Ministro della Giustizia, qualche magistrato, il direttore del carcere di Sassari, qualche agente di custodia carceraria hanno da dire qualcosa?  

Aggiungo un altro quesito: è giusto applicare il 41-bis ad Alfredo Cospito, che in realtà non ha mai ucciso nessuno?
Per Salvatore Riina, Giovanni Brusca, Matteo Messina Denaro, Massimiliano Sestito direi proprio di sì.
Su Cospito, da cittadino, ho onestamente qualche dubbio. Ribadisco: non ha assassinato alcuna persona. Non è cosa da poco.
Non dimentichiamo mai l’art. 27 della nostra Costituzione. Lo Stato italiano non dovrebbe mai divenire un assassino (!). Ciò dimostra, ancora una volta, quanto le maglie del 41-bis possano essere larghe o strette, divenendo oggetto di diverse possibili interpretazioni e applicazioni.
Spetta alla Politica seria e responsabile, al Parlamento e alla Magistratura dare esempi virtuosi a noi cittadini. Ne guadagneremo tutti, compresa la nostra Democrazia e la nostra Libertà.

Paolo Farinati

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