Giuseppe Vacca: «De Gasperi visto dal PCI»
Il testo completo della Lectio Degasperiana 2011 del Presidente dell'Istituto Gramsci di Roma
Il tema che mi è stato proposto,
nella sua apparente semplicità, è invero molto vasto e complicato:
la storia della Dc e buona parte della storia del primo decennio
postbellico ruotano intorno alla figura di Alcide De Gasperi e per
ricostruire, sia pure a grandi linee, la sua percezione da parte
dei comunisti italiani dovrei ripercorrere quasi cinquant'anni di
storia del nostro paese.
Nel convegno dedicato a Togliatti nel suo tempo, organizzato dalla
Fondazione Istituto Gramsci e dall'Università Roma Tre nel 2004,
Renato Moro affrontò un tema speculare, Togliatti nel giudizio del
mondo cattolico, svolgendo un'indagine accurata sulle fonti a
stampa e sui documenti epistolari disponibili.
La sua relazione dimostra che l'idea di ricostruire il profilo di
una figura eminente della storia d'Italia attraverso la percezione
degli avversari può essere una formula felice.
Essa consente non solo di far rivivere le mentalità e il clima di
un periodo storico caratterizzato dai più aspri contrasti uniti
alle più durature realizzazioni dell'Italia repubblicana, ma anche
di fare emergere, forse meglio che con altri approcci, i tratti più
squisitamente umani dei protagonisti e la discordante coralità dei
cittadini che li seguivano.
Se avessi potuto giovarmi del suo modello, avrei meno incertezze
nell'affrontare il tema di questa sera; ma una ricerca riguardante
cinquant'anni di vita del PCI esorbitava e le mie possibilità e il
quadro di una trattazione sintetica adeguata a un'occasione come
questa
Prendo spunto, perciò, dal lavoro esemplare di Renato Moro per
auspicare che un'indagine analoga su De Gasperi visto dal PCI prima
o poi si faccia e per delimitare preliminarmente il campo della mia
trattazione.
La percezione della figura di De Gasperi da parte dei comunisti
italiani risulta molto meno ricca e variegata di quella di
Togliatti da parte del mondo cattolico
Se ne possono distinguere fondamentalmente tre dimensioni: il
giudizio implicito negli atteggiamenti del PCI rispetto all'opera
politica dello statista trentino; lo sforzo di rielaborarlo in
un'immagine riflessiva; il persistere di questa immagine nel tempo
senza arrivare a prendere atto, se non molto tardi e in modo
inadeguato, delle "dure repliche della storia".
Le prime due dimensioni riguardano il ventennio del PCI
togliattiano, la terza rimanda al periodo successivo e vi accennerò
alla fine.
Negli anni della Grande Alleanza(1944-1947)
L'immagine di De Gasperi e della DC che ha lungamente dominato la
cultura politica del PCI fu elaborata da Togliatti in un ampio
scritto pubblicato in sei puntate su "Rinascita" fra il 1955 e il
1956.
Lo scritto, del resto assai noto, aveva un titolo quantomai
significativo: È possibile un giudizio equanime sull'opera di
Alcide De Gasperi?
Ma sarebbe del tutto fuorviante pensare che rispecchi il giudizio
che aveva guidato Togliatti negli anni della collaborazione tra i
due statisti che posero le basi della guerra di liberazione e della
Repubblica.
Per ricavarlo occorre piuttosto guardare, innanzitutto, alle scelte
che caratterizzarono la politica di Togliatti dal suo rientro in
Italia, nel marzo del '44, alla "rottura politica" del maggio '47;
in secondo luogo alle successive posizioni del PCI sulle scelte
fondamentali di De Gasperi fino al termine della prima
legislatura.
Che con la costituzione del secondo governo Badoglio (22 aprile
1944) Togliatti si sentisse in posizione di vantaggio rispetto a
tutti gli altri protagonisti della scena politica italiana mi pare
un dato storiograficamente acquisito: il riconoscimento sovietico
del governo Badoglio e la "svolta di Salerno" avevano non soltanto
sbloccato la situazione politica, ma anche fornito a tutte le forze
antifasciste le coordinate per impostare efficacemente la
resistenza e la guerra di liberazione e porre le premesse di quella
fase costituente che, attraverso il referendum istituzionale del 2
giugno 1946, l'elezione dell'assemblea costituente, l'elaborazione
della Carta e la ratifica del Trattato di pace, avrebbe portato
alla nascita della repubblica.
Non mi pare dubbio, quindi, che egli si sentisse il protagonista di
un nuovo periodo della storia d'Italia nel quale, con la creazione
del "partito nuovo" e la conferma del patto di unità d'azione con i
socialisti, avrebbe potuto giocare una partita decisiva per
l'egemonia del PCI nella vita politica italiana.
L'egemonia presuppone un calcolo realistico dei rapporti di forza,
un sistema di partiti che si influenzino a vicenda, la capacità di
imprimere il proprio segno alle loro relazioni, vale a dire ai
caratteri e alla funzione degli altri attori.
L'egemonia prevede, quindi, l'esercizio di una funzione di governo
che tuttavia non coincide necessariamente con la conquista e la
direzione dell'esecutivo.
Vorrei provare a sostenere che, negli anni immediatamente
successivi al suo rientro in Italia, Togliatti fosse consapevole
che il ruolo eminente nella politica italiana spettasse alla
Democrazia Cristiana, che abbia favorito il disegno di De Gasperi
di farne il partito dell'"unità politica dei cattolici" e puntato
sulla sua figura per garantirne l'ispirazione antifascista e
l'impegno ad ancorare la Chiesa alla scelta della democrazia.
Non posso addentrarmi nella ricostruzione dei fondamenti della sua
strategia; mi limiterò a ricordare il quadro internazione della
Grande Alleanza che le forniva legittimazione e credibilità, e
l'opzione per una formula di governo che, successivamente, una
mediocre politologia avrebbe definito "democrazia
consociativa".
Mentre nel pensiero di Togliatti aveva a che fare con la ricerca di
nuovi modelli di socialismo, diversi da quello sovietico, a cui
aveva già dato una prima configurazione politica e istituzionale,
non osteggiata da Stalin, nel noto saggio Sulle particolarità della
rivoluzione spagnola del 1936.
Ma veniamo agli argomenti con cui vorrei sostanziare la tesi che ho
avanzato.
A datare almeno dall'intervento americano, che rendeva la sconfitta
nazifascista l'ipotesi più probabile, Togliatti era del tutto
consapevole, non meno di De Gasperi, del ruolo determinante che la
Chiesa avrebbe giocato nella successione al fascismo.
Dopo la conferenza di Casablanca che aveva deciso la resa
incondizionata delle potenze dell'Asse e dopo il 25 luglio del '43,
quella previsione divenne una certezza, convalidata dal crollo
dello Stato e dell'esercito italiani che seguirono all'8
settembre.
Tenendo conto di questo contesto, conviene richiamare l'attenzione
sulla politica vaticana di Togliatti in questo periodo.
Nel discorso dell'11 aprile 1944 ai quadri dell'organizzazione
comunista napoletana, nel quale illustrò i cardini della "svolta di
Salerno", Togliatti avanzava una opzione per una repubblica
parlamentare in cui venissero garantite tutte le libertà
democratiche, compresa "la libertà di religione e di culto".
La scelta della elezione di un'assemblea costituente per definire i
compiti e l'impalcatura dello Stato (e il successivo accoglimento
della proposta degasperiana di referendum popolare per deciderne la
forma), l'esclusione dell'economia di piano e l'adesione alla
richiesta degli alleati che si tenessero per prime le elezioni
amministrative, facevano di Togliatti l'interlocutore ideale della
"proposta politica di De Gasperi".
In primo luogo disegnavano un percorso complementare a quello
prospettato nelle Idee ricostruttive. In secondo luogo, rimuovendo
la pregiudiziale istituzionale a cui anche la DC nel congresso di
Bari (gennaio '44) aveva aderito, ma che De Gasperi considerava
errata, gli aprivano la prospettiva della partecipazione al
governo, fondamentale per il suo progetto.
Ma soprattutto, tracciando un percorso costituente fondato sul voto
popolare, anziché sui CLN, favorivano l'appoggio vaticano al suo
disegno di fare della DC "il partito dei cattolici".
Che Togliatti considerasse fondamentale l'orientamento politico dei
cattolici per la ricostruzione democratica dell'Italia è confermato
innanzitutto dall'articolo di Eugenio Reale sul primo numero di
Rinascita del maggio 1944.
Riferendosi al Rapporto ai quadri dell'organizzazione comunista
napoletana, l'articolo, intitolato Comunisti e cattolici, ne
sottolineava il tema della "libertà religiosa e di culto" e
adombrava una revisione dottrinale contenente un evidente messaggio
alle gerarchie ecclesiastiche:
«Il rispetto delle convinzioni religiose delle masse, scriveva
Reale, è per i comunisti una questione di principio che deriva
dalla stessa analisi marxista[…] del fondamento sociale di queste
convinzioni ed è parte integrante della loro dottrina tutta
ispirata ai sensi di una ben intesa libertà e di una larga
umanità.»
Era l'avvio di una politica religiosa che, come ora sappiamo, passò
anche per alcuni contatti diretti con la Santa Sede.
Ma, prima di accennarvi, vorrei richiamare l'attenzione sulla
giustificazione storica della politica di Togliatti verso il mondo
cattolico.
Fondata sull'analisi del fascismo svolta tra gli anni Venti e gli
anni Trenta, essa appare del tutto collimante con l'analisi
degasperiana delle trasformazioni intervenute nei rapporti fra i
cattolici e la politica italiana tra le due guerre.
Se questa conduceva De Gasperi ad impostare il suo progetto su una
nuova visione della laicità della politica, diversa da quella che
aveva caratterizzato il Partito Popolare, il progetto del "partito
nuovo", basato sulla eliminazione di qualunque vincolo ideologico e
sulla richiesta, per l'adesione al PCI, della sola condivisione del
programma, apriva il partito alla collaborazione tra credenti e non
credenti.
Il contesto in cui venivano calati i due progetti (dopo la
liberazione di Roma e la costituzione del primo governo Bonomi,
l'unificazione delle forze antifasciste del Nord e del Sud e
l'inquadramento delle formazioni partigiane nell'esercito di
liberazione nazionale, la proposta di un patto di unità d'azione
tra comunisti e socialisti e democristiani,avanzata da Togliatti il
luglio del '44, acquistava forza e legittimità) favoriva
palesemente il consolidamento della "proposta politica di De
Gasperi".
Infatti, fu solo con il rapido sviluppo della guerra partigiana che
la Chiesa cominciò ad appoggiare decisamente tanto la resistenza
quanto la DC.
In quella congiuntura va inquadrato anche l'atteggiamento di
Togliatti di fronte alla condanna del Partito della Sinistra
Cristiana da parte del Vaticano.
Egli non solo non la contrastò, ma mostrò di condividerne la
motivazione principale: quella per cui la Chiesa poteva sì
appoggiare uno o più partiti cattolici, ma non dare una investitura
all'uno o all'altro in base alla sua ideologia.
Mi pare quindi evidente che Togliatti guardasse con favore al
progetto degasperiano e, riconoscendone la natura laica,
democratica e antifascista, ne favorisse l'aspirazione a realizzare
quello che, con espressione impropria, sarebbe stato
successivamente definito il partito dell'«unità politica dei
cattolici».
Vero è che questo accadeva nel clima della Grande Alleanza, nel
quale, ha scritto Maria Romana De Gasperi, anche suo padre aveva
condiviso "la speranza di una evoluzione democratica del comunismo
che per altro corrispondeva […] alle 'generose visioni' di
Roosevelt appoggiate dallo stesso Churchill".
Una stagione breve, una parentesi nella storia delle relazioni
internazionali che si sarebbe chiusa fra il 1946 e il 1947, ma di
cui conviene ricordare il grado di reciproca fiducia e di reciproco
riconoscimento raggiunto fra le forze in campo.
Di tale clima il discorso di De Gasperi al teatro Brancaccio del 23
luglio 1944, con il quale aveva risposto alla proposta di Togliatti
di due settimane prima, appare un documento eccezionale.
Non mi riferisco tanto alle parti in cui, pur nella ferma
ispirazione antitotalitaria del suo pensiero, condannava
radicalmente il nazifascismo, mentre mostrava di credere invece
nelle possibilità di un'evoluzione democratica del comunismo,
quanto alla fiducia che riponeva nel ruolo di Togliatti nel
favorirla.
Si può ritenere che la sua fiducia rispecchiasse un atteggiamento
analogo del Vaticano.
Un documento dei servizi segreti americani risalente al 13 luglio
1944, declassificato di recente, informa che il 10 luglio,
attraverso un incontro riservato tra monsignor Montini e Togliatti,
era stato stabilito un primo contatto tra il leader comunista e il
Vaticano.
Come si vede, l'incontro seguiva immediatamente il discorso del
leader comunista al Brancaccio. Inoltre, lo stesso documento
dimostra che la risposta di De Gasperi era stata favorita
dall'incontro tra Montini e Togliatti.
E' quindi da ritenere che il successivo discorso di De Gasperi,
oltre ad essere stato discusso lungamente con il leader comunista,
come Togliatti ha più volte ricordato in seguito, fosse stato
consigliato o comunque concordato con monsignor Montini.
Vorrei ricordare infine la posizione di Togliatti sulla successione
a Parri.
Quello che la storiografia considera giustamente "l'avvento di De
Gasperi", scaturì da una proposta di Nenni e trovò il consenso
degli altri partiti perché, anche grazie all'azione svolta come
ministro degli Esteri del governo Parri, De Gasperi godeva del
sostegno non solo del Vaticano, ma soprattutto degli Stati Uniti
che, a differenza della Gran Bretagna, erano interessati alla
nascita di un regime democratico e repubblicano, e favorevoli a che
l'Italia acquistasse un ruolo effettivo nel nuovo ordinamento
internazionale del dopoguerra.
Ma vanno sottolineati il favore di Togliatti e soprattutto le
motivazioni con cui sostenne la successione di De Gasperi.
Il punto sostanziale dell'intesa tra loro era l'opzione per una
democrazia parlamentare fondata sul ruolo preminente dei partiti
popolari.
Come ha scritto Piero Craveri, dopo la liberazione di Roma
Togliatti era divenuto "il principale interlocutore" di De Gasperi
perché entrambi condividevano i capisaldi della transizione alla
repubblica.
In particolare, l'obiettivo della Costituente e l'impegno a
mantenere l'unità dei partiti antifascisti fino alla sua
conclusione. Emarginata, con la caduta di Parri, l'ipotesi di una
democrazia dei CLN, cominciava a prendere forma quella "democrazia
dei partiti" che era nei voti tanto di De Gasperi quanto di
Togliatti.
Come notò Pietro Scoppola nella sua pionieristica ricerca degli
anni '70, "l'unica via possibile di crescita della democrazia
italiana e di reale superamento della situazione prefascista era
quella di una democrazia di massa canalizzata dai grandi partiti
popolari".
E Roberto Gualtieri di recente ha dimostrato come quello fosse non
solo il punto della loro principale concordanza, ma anche il
fondamento su cui, attraverso una intensa collaborazione e
dialettica, furono gettate le basi della europeizzazione del
paese.
Quello su cui va posta l'attenzione è il commento alla soluzione
della crisi del governo Parri che Togliatti scrisse sull'Unità
dell'11 dicembre.
«Togliatti - ha scritto Craveri - parlò 'di utilità della crisi'
giacché l'unità antifascista aveva trovato conferma e con essa
l'indispensabilità dei partiti di sinistra nel governo, nonché
l'impegno a rimanere uniti fino alla Costituente.»
Ma non erano solo questi gli impegni a cui De Gasperi aveva
condizionato l'accettazione della sua candidatura.
Egli aveva anche ribadito la priorità delle elezioni amministrative
che avrebbero consentito di misurare la forza di ciascuno dei
partiti popolari, ed anche questo punto Togliatti aveva
condiviso.
Pertanto, scrive ancora Craveri, «l'opzione decisiva del leader
comunista, come del resto dello stesso De Gasperi, era quella di
rimettersi al confronto democratico e ai rapporti di forza che da
questo sarebbero conseguiti».
Non mi pare dubbio che con tali scelte Togliatti intendesse
assecondare l'avvento di De Gasperi e l'affermazione anche del suo
partito.
Dopo la conferenza di Yalta e in vista del trattato di pace era del
tutto evidente per lui che la guida del governo italiano spettasse
all'uomo politico più affidabile per l'amministrazione
americana.
Inoltre, la controversia con la Jugoslavia sul confine orientale,
il futuro dell'Istria e il destino di Trieste avevano inferto un
colpo decisivo alle potenzialità egemonica della sua politica.
Se la forza della "svolta di Salerno" originava dalla convergenza
tra la politica di Stalin e l'interesse nazionale dell'Italia, la
"questione di Trieste" aveva evidenziato che, pur nel quadro della
Grande Alleanza, potevano generarsi contraddizioni insanabili tra
la prima e il secondo.
Né ci si poteva attendere altro dall'URSS, dopo il riconoscimento
del governo Badoglio, risultando l'Italia marginale ed ininfluente
rispetto agli interessi geostrategici della potenza sovietica.
Che Togliatti volesse favorire l'affermazione di De Gasperi era
inoltre indicato dal fatto che non poteva non prevedere
l'affermazione elettorale del suo partito.
E non è detto che credesse davvero alla tenuta dell'alleanza
antifascista internazionale. Aveva già conosciuto le oscillazioni
della politica di Stalin tra isolazionismo e "sicurezza collettiva"
negli anni Trenta e non poteva ignorare quanto fosse aleatoria
l'eventualità che Stalin accettasse la sfida di reinserire l'URSS
nel mercato mondiale, che era alla base del disegno rooseveltiano
per il dopo guerra.
Vero è che non aveva altra opzione che quella di radicare il PCI
nella società italiana e di farne un attore influente della
democrazia antifascista.
La Democrazia Cristiana ed Alcide De Gasperi erano i principali
interlocutori su cui puntare e la loro affermazione costituiva
anche la premessa per vincere la sfida dell'egemonia sulla sinistra
italiana e fare del PCI lo stabile deuteragonista della vita della
repubblica.
La politica impostata con la svolta di Salerno conteneva dunque un
atteggiamento di favore verso De Gasperi e la sua "proposta
politica" che si ricava non solo dalla sintetica rassegna dei
passaggi fondamentali della politica italiana tra aprile del '44 e
gennaio del '46, ma anche dalla valutazione storica che Togliatti
ne diede quindici anni dopo.
Nella conferenza del '61 su Il partito comunista e il nuovo stato,
concludendo l'esame dei risultati conseguiti con la "svolta di
Salerno", osservava che, senza quella svolta, "ben difficilmente i
partiti della sinistra e forse la stessa democrazia cristiana
sarebbero riusciti ad avere quello sviluppo impetuoso che hanno
avuto e che rimane una delle originalità dell'attuale situazione
italiana".
Sulla posizione di Togliatti nei confronti di De Gasperi in questo
periodo credo, quindi, che si possa condividere il giudizio di
Piero Craveri: «Rispetto agli equilibri prefascisti, sia Togliatti
che De Gasperi, puntavano decisamente a un ancoraggio centrista del
sistema politico che facesse perno sui cattolici»; e che nel quadro
dell'unità antifascista Togliatti preconizzasse, attraverso la
partecipazione al governo, «un centrismo su cui l'influenza
comunista sarebbe stata determinante».
Quando cominciò la guerra fredda
Sotto l'aspetto formale la Grande Alleanza durò sino alla
conclusione della conferenza di Parigi e alla definizione dei
trattati di pace.
Ma la fiducia di Stalin nella collaborazione tra le potenze
antifasciste si era incrinata sin dall'agosto del '45, a seguito
della distruzione atomica di Hiroshima e Nagasaki.
La preparazione dell'URSS a fronteggiare l'asimmetria di potenza
evidenziata dal possesso americano della bomba atomica fu avviata
subito e dall'inizio del '46 Stalin cominciò a promuovere quel
riallineamento strategico della politica estera sovietica che
avrebbe originato la nascita del Cominform.
La nuova storiografia delle relazioni internazionali ha dimostrato
che la guerra fredda non cominciò con il discorso di Churchill a
Fulton, ma con la decisione già maturata da Stalin di tornare alla
concezione della "sicurezza totale" precedente lo scoppio della
guerra.
Era questo il modo di affrontare l'inferiorità dell'URSS, divenuta
la seconda potenza mondiale, con l'unica risorsa di cui riteneva di
poter disporre, quella di consolidare militarmente le conquiste
territoriali realizzate nell'Europa centrale e orientale
nell'ultima fase della guerra.
Egli tornava così alla teoria della "guerra inevitabile" e
il riorientamento sia della politica sia della propaganda del
blocco sovietico allo scontro ideologico frontale con
"l'imperialismo americano" venne preparato accuratamente fin dalla
primavera-estate del '46.
Se si considera che Togliatti fu tra i primi leader politici del
suo tempo a percepire, con un articolo anonimo pubblicato su
Rinascita dell'agosto '45, il significato dell'avvento dell'era
atomica e si tiene conto dello stretto collegamento che manteneva
con l'establishment sovietico, si può fondatamente osservare che,
mentre da un lato difendeva strenuamente l'opzione della
collaborazione antifascista tanto sul piano internazionale quanto
sul piano interno, dall'altro si preparasse ben prima della nascita
del Cominform a difendere i capisaldi della sua politica in Italia
dall'opposizione.
A nostro avviso la decisione di restare fuori dal secondo governo
De Gasperi (giugno 1946) potrebbe essere stata motivata dalla
necessità di avere le mani libere dinanzi al prevedibile inasprirsi
del contrasto tra la politica dell'URSS e l'interesse nazionale
dell'Italia.
Ad ogni modo, una nuova fase del suo rapporto con De Gasperi
cominciò, come è noto, con l'estromissione delle sinistre dal
governo nel maggio del '47.
Togliatti sapeva che con l'avvento della guerra fredda non ci
sarebbero potute tornare.
La retorica politica era divenuta aspra e aggressiva da ambo le
parti e già all'indomani del primo viaggio di De Gasperi negli
Stati Uniti Togliatti cominciò a tacciarlo di "servilismo",
innalzando la bandiera della sovranità nazionale svenduta agli
americani.
La guerra fredda imponeva la necessità di creare l'immagine del
nemico, esasperando la minaccia di guerra e la percezione del suo
pericolo. Era una narrazione propagandistica, ampiamente
enfatizzata da una parte e dall'altra, che nascondeva la realtà di
un bipolarismo sempre più interdipendente, orientato alla
stabilizzazione internazionale piuttosto che ad una nuova guerra:
almeno fino alla vittoria di Mao in Cina e allo scatenamento della
guerra di Corea.
Questo scenario creava una disparità incolmabile tra De Gasperi e
Togliatti, tra la DC e il PCI.
I primi avevano una straordinaria risorsa nell'integrazione
dell'Italia nel nuovo assetto euroatlantico guidato dagli Stati
Uniti; Togliatti e il PCI erano vincolati da una lealtà all'URSS
che impediva loro di elaborare una combinazione di politica interna
e di politica internazionale altrettanto credibile e vantaggiosa
per l'Italia.
Togliatti sapeva quindi che la prospettiva del governo sarebbe
stata preclusa per il PCI non solo dalla polarizzazione che si
andava creando con la DC, ma dalla stessa identità del suo
partito.
Ad ogni modo è in questo quadro che si collocano gli atti più
significativi della collaborazione del PCI alla costruzione della
democrazia repubblicana: il voto a favore dell'articolo 7 della
Costituzione, l'atteggiamento sulla ratifica del trattato di pace e
il suo contributo alla stesura della Carta costituzionale quando
già era stato estromesso dal governo.
Sono passaggi ben noti della storia d'Italia sui quali conviene
tuttavia tornare limitatamente al tema che sto trattando.
Sul voto dell'articolo 7 è tuttora diffusa l'opinione che si sia
trattato di un'operazione abile e strumentale, e c'è persino chi ha
scritto che era stata concepita per bloccare l'estromissione dei
comunisti dal governo.
Ho cercato più volte di argomentare in altre sedi come quel voto si
inserisse in una visione del rapporto tra religione e politica che
costituì uno dei tratti distintivi del PCI togliattiano nel
panorama del comunismo internazionale.
Qui piuttosto vorrei sottolineare che, come Togliatti ricordò nella
citata conferenza del '61, la posizione del PCI sulla "questione
cattolica", innovatrice rispetto alla stessa impostazione
gramsciana, era scaturita dalla considerazione che, dopo il
fascismo, con l'appoggio della Chiesa, sarebbe nato "un forte
partito cattolico"; inoltre, aveva letto le Idee ricostruttive e vi
aveva riscontrato "un programma molto avanzato nella stessa
direzione che era la nostra".
Perciò fin dall'esposizione della politica di unità nazionale dei
comunisti, erano state fatte "le più esplicite dichiarazioni di
rispetto di tutte le libertà religiose" e nel discorso del 9 luglio
al Brancaccio, dopo aver discusso con De Gasperi "la questione in
lunghe sedute", aveva proposto il patto di unità d'azione tra le
sinistre e la DC di cui abbiamo parlato.
L'inserimento dei cattolici nella vita politica italiana era uno
dei cardini anche del "partito nuovo", un cardine essenziale per
l'affermazione della funzione nazionale della classe operaia.
Inoltre giova ricordare che nella Relazione al V Congresso del PCI
(26 dicembre 1945) aveva dichiarato di accettare il regime
concordatario.
Tuttavia quando l'8 aprile del '46 scrisse a De Gasperi una lettera
di misurata protesta perché in un discorso elettorale tenuto a
Viterbo aveva giudicato quelle innovazioni ancora insufficienti, il
leader democristiano gli aveva risposto con una lettera lunga e
impegnativa che si può considerare uno dei documenti più lucidi sui
confini invalicabili della collaborazione tra DC e PCI.
E' un documento di grande valore, su cui non possiamo soffermarci
in questa sede; ma ne va richiamato almeno un punto: la questione
cattolica, sottolineava De Gasperi, non riguardava solo i rapporti
tra DC e PCI, ma quelli tra il comunismo sovietico e la Chiesa.
Perciò gli lanciava una sfida: quella di collaborare alla
costituzionalizzazione del regime concordatario come prova
definitiva dell'originalità del comunismo italiano.
Nella Conferenza del '61 Togliatti ricorda che per giungere al voto
favorevole all'articolo 7 si era realizzato un "compromesso",
demandando al governo il compito di "correggere" i Patti
Lateranensi "nei punti in cui sono in contrasto con la
Costituzione" con una trattativa con il Vaticano.
Il voto del PCI rappresentò quindi anche la risposta positiva alla
sfida di De Gasperi e, se si tiene conto del fatto che,
informandone il giorno prima il cardinale Tardini, Togliatti
proseguiva la sua politica vaticana, esso costituì una delle prove
più significative del modo in cui pensava di salvaguardare il suo
disegno strategico anche con il PCI fuori dal governo.
Ma il Pci era già all'opposizione quando si presentò il problema
della ratifica del Trattato di pace (31 luglio 1947). Come è noto,
De Gasperi aveva atteso la conclusione della conferenza di Parigi
prima di giungere, dopo molte esitazioni, a estromettere le
sinistre dal governo.
Inoltre, l'opposizione al Trattato di pace nel paese era molto
ampia e avrebbe consentito al PCI, che era già attestato su una
posizione di anacronistico nazionalismo economico e politico, di
lucrare consensi anche nell'elettorato di destra. Come ha
dimostrato Roberto Gualtieri, l'astensione delle sinistre sulla
ratifica del trattato di pace fu concordata con De Gasperi per
consentirne l'approvazione anche con un eventuale prestito
sottobanco dei voti comunisti necessari: tanto De Gasperi quanto
Togliatti erano del tutto consapevoli della condizione di
inferiorità internazionale dell'Italia per essere stata
corresponsabile dello scatenamento della guerra e per averla
persa.
Inoltre, Togliatti era condizionato dal fatto che l'URSS aveva la
posizione più punitiva tra gli alleati nei confronti dell'Italia e
peraltro la considerava giusta.
Poche parole, infine, sul patto costituzionale. Vorrei osservare
che la vulgata secondo cui De Gasperi si sarebbe estraniato dai
lavori della Commissione dei 75 tranne che per l'approvazione
dell'articolo 7 non convince.
L'impostazione costituzionale della Dc era già tracciata, nelle
linee di fondo, nelle Idee ricostruttive e nel lungo articolo
pubblicato da De Gasperi, con lo pseudonimo di Demofilo, sul
"Popolo" clandestino del 23 gennaio del '44. D'altro canto,
insistere sulla statura di De Gasperi come statista e al tempo
stesso far credere che la Costituzione sia scaturita
sostanzialmente dalla collaborazione tra il PCI e il gruppo
dossettiano è un artificio mediocre che non riesce a scalfire la
lealtà di De Gasperi alla Carta costituzionale, né può servire a
dimostrare che l'adesione del PCI ad essa originasse da una
consonanza solo con la sinistra democristiana.
Certo, alla fortuna di questo tipo di "storiografia" tendenziosa ha
contribuito il ventennale congelamento costituzionale e il fatto
che d'allora il PCI fece della Costituzione la sua bandiera.
Ma conviene ricordare che in Italia, come in Francia,
all'approvazione della Costituzione si giunse quando le sinistre
erano state estromesse dal governo e la guerra fredda era ormai
esplosa.
Ma mentre in Francia i comunisti, pur avendo contribuito alla
stesura del patto costituzionale, sciaguratamente non la votarono,
il PCI non solo la votò ma ne fece anche un vessillo di
"patriottismo costituzionale".
Anche in questo caso, come nell'approvazione del Trattato di pace,
Togliatti dimostrava di saper perseguire il suo disegno strategico
anche dall'opposizione e continuava a riconoscere, se non altro
implicitamente, la funzione della leadership degasperiana.
De Gasperi dopo la morte
Come abbiamo detto all'inizio, un'immagine riflessiva di De Gasperi
fu elaborata dai comunisti dopo la sua morte e fu anch'essa opera
di Togliatti.
Il profilo che ne disegnò, nel saggio del '55-'56, è quello di un
nemico piuttosto che di un avversario ed esso si era evidentemente
sedimentato negli anni della guerra fredda e dello scontro frontale
tra Est e Ovest, tra Dc e Pci.
Ai fini del nostro discorso non è necessario documentare come anche
tra il '48 e il '53 lo scontro fosse temperato dalla ricerca di
intese o di punti di equilibrio per evitare lo scardinamento della
democrazia repubblicana, conta piuttosto mettere in luce i tratti
essenziali di quell'immagine delineata da Togliatti.
Il saggio ha il respiro di una ricostruzione storica, sia pure per
grandi linee, del primo decennio postbellico; ma noi ci limiteremo
a prenderne in considerazione le tesi fondamentali.
Il primo capitolo è dedicato all'azione economica dei governi De
Gasperi dal '46 al '53. Malgrado il fuggevole riconoscimento che
dal 1950 era cominciato "un ciclo diverso" in cui avevano preso
corpo "scarsissime iniziative 'riformistiche'", sulle quali per
altro Togliatti manteneva un giudizio "riservato e diffidente", la
sua tesi era che De Gasperi avesse voluto "ridar vita alla economia
italiana come era stata sotto il fascismo" e promuovere "un ritorno
al passato senza eccessive modificazioni".
Non è il caso di discutere questi giudizi ormai largamente
confutati dalla storiografia più recente.
È sufficiente ricordare che in quegli anni l'Italia fu dotata di
una moderna "economia mista" e furono poste le basi del grande
balzo nella divisione internazionale del lavoro che Togliatti
stesso avrebbe riconosciuto nel 1961.
Inoltre si deve a De Gasperi, più che ai ministri della sinistra
democristiana che facevano parte del suo governo, la capacità di
sfruttare il riorientamento dei fondi Erp nel quadro della svolta
statunitense del 1949-50 per la stabilizzazione produttivistica
dell'Europa, dando inizio così al ciclo politico del "centrismo
riformatore".
L'attenzione va, invece, fermata sulla definizione che Togliatti
dava della politica economica degasperiana: quella di
"restaurazione del capitalismo".
In realtà voleva dire che era stato ripristinato il modello di
sviluppo tradizionale dell'economia italiana, fondata sui bassi
salari e i bassi consumi (quello che egli chiamava "la struttura
economica tradizionale"); ma la nozione di "restaurazione
capitalistica" era fuorviante e inappropriata poiché, a cominciare
dal PCI, nessuna delle forze politiche fondamentali aveva sostenuto
nel dopoguerra che l'Italia si potesse ricostruire su basi 'non
capitalistiche'.
Al giudizio di "restaurazione capitalistica" Togliatti faceva
seguire quello di continuità con lo Stato corporativo.
Non sminuiva il valore della distruzione delle impalcature
politiche dello stato totalitario, peraltro voluta anche dagli
alleati, ma intendeva affermare che, nelle strutture dell'economa
mista, si era ripristinata quella fusione tra le oligarchie
finanziarie ed industriali e gli apparati di governo che era stata
la sostanza del corporativismo fascista.
Va richiamata l'attenzione sul punto di arrivo della sua
ricostruzione e sulla argomentazione che, seguendo uno schema
palesemente teleologico, lo preparava.
Respingendo la tesi che "la rottura politica del '47" fosse stata
imposta dagli Stati Uniti, Togliatti si proponeva di dimostrare che
essa era scaturita da scelte di politica interna sulle quali aveva
influito in misura determinante il pensiero di De Gasperi riguardo
alla società e allo Stato.
Per dimostrare la sua tesi si addentrava nell'analisi degli scritti
degasperiani degli anni Trenta, evidenziandone principalmente tre
aspetti.
Mentre la Chiesa aveva avallato l'identificazione tra il
corporativismo fascista e quello propugnato dalla dottrina sociale
cattolica, De Gasperi non aveva mai ceduto su questo punto e ciò
costituiva il caposaldo del suo antifascismo.
Ma nel difendere il corporativismo cattolico come variante valida
del "corporativismo societario", inserito cioè nelle strutture
dello Stato democratico, De Gasperi aveva manifestato una palese
inclinazione a giustificare la possibilità di più di un compromesso
dei cattolici con il fascismo.
In estrema sintesi, nell'Europa degli anni Trenta divisa, secondo
Togliatti, dall'alternativa tra fascismo e comunismo, De Gasperi
era stato "un esecutore obbediente e zelante" dell'orientamento
della Chiesa, disponibile al compromesso col fascismo ma mai con il
comunismo o il socialismo. Il suo atteggiamento non si spiegava con
debolezze del carattere ma con la contraddittorietà della sua
concezione corporativa.
Inoltre, Togliatti riteneva determinante il fatto che il
cattolicesimo politico fosse rimasto estraneo alla ricerca
dell'antifascismo europeo degli anni Trenta. Con un'analisi che
ricorda la critica delle Lezioni di politica sociale di Luigi
Einaudi ad ogni forma di corporativismo, considera il principio
della lotta di classe l'unica prosecuzione progressiva del
liberalismo e la sua esplicazione il vero soggetto della
modernità.
Egli ritiene quindi che il corporativismo cattolico di De Gasperi,
coniugato alla "mancata rottura originaria" dei cattolici col
fascismo e all'isolamento dall'antifascismo italiano ed europeo,
gli avesse precluso la comprensione effettiva del fascismo e lo
avesse reso incline al compromesso con alcuni suoi aspetti.
Con espressione malevola ed insinuante Togliatti definisce
l'antifascismo di De Gasperi "un antifascismo di tipo speciale" e
tanto l'analisi, quanto la sua stilizzazione concettuale, rendono
necessarie alcune precisazioni.
Che l'antifascismo di De Gasperi fosse diverso da quello dei
comunisti, dei socialisti e degli azionisti era una constatazione
banale ma non priva di valore politico. E, sotto questo profilo, il
discorso di Togliatti è palesemente aporetico: sottolineare la
diversità dell'antifascismo degasperiano introduceva una
discriminante nell'antifascismo, incrinando il postulato della sua
unità che aveva costituito il cardine della "democrazia
progressiva".
Inoltre portava a concludere che l'antifascismo autentico fosse
solo quello di ispirazione classista e questo costituiva
un'ulteriore contraddizione rispetto al suo stesso antifascismo,
che si era caratterizzato, nel panorama del comunismo
internazionale, per la distinzione tra fascismo e capitalismo.
Contraddittoria era infine l'insinuazione che, con "la rottura
politica del '47", De Gasperi avesse lasciato alle sinistre il
monopolio dell'antifascismo poiché anche la politica che il PCI
aveva sviluppato in seguito e che il saggio su De Gasperi intendeva
irrobustire e aggiornare si fondava sull'unità
dell'antifascismo.
Ai giudizi sui contenuti economici del centrismo degasperiano segue
quello sulle sue caratteristiche politiche, sintetizzato nella
formula «una democrazia che scivola verso la reazione. E, in questa
parte, il saggio diviene ancor più ambivalente scoprendo le sue
finalità politiche.
Per definire il regime politico che aveva preso forma nel periodo
compreso tra l'avvento di De Gasperi e la fine della prima
legislatura, Togliatti prende le mosse dalle Idee ricostruttive e
riconosce l'originaria novità della Democrazia Cristiana: ne
sottolinea il carattere democratico e avanzato giungendo ad
affermare che, «se in questi anni il programma formulato da De
Gasperi nel 1944[…] fosse stato applicato anche solo per metà, ci
si sarebbe avvicinati assai a una trasformazione già in senso
socialista o per lo meno conseguentemente democratico, del volto
del nostro paese».
Ma poi osserva che quel programma non era fondato su una visione
approfondita della storia d'Italia e non indicava i dispositivi che
ne garantissero l'applicazione.
Perciò, una volta assunta la direzione del paese, aveva potuto
essere facilmente abbandonato.
Come prova della sua strumentalità, Togliatti evocava
l'atteggiamento di De Gasperi nei confronti dell'Assemblea
costituente dando credito alla tesi che si fosse astenuto
"deliberatamente e costantemente" dai suoi lavori e spiegava così
la disinvoltura con cui, dopo "la rottura politica del '47", i
governi da lui diretti avevano ibernato la Costituzione.
La formula della "democrazia che scivola verso la reazione"
oscillava tra l'aspetto politico, esemplificato dal carattere
anticomunista e antisindacale del governo, e quello istituzionale,
rappresentato dal mantenimento della legislazione penale fascista,
dai disegni di legge del '52, restrittivi delle libertà di stampa,
sindacali e di sciopero, e soprattutto dalla legge elettorale
maggioritaria.
Riprendeva poi il confronto tra De Gasperi e Giolitti, già avanzato
nella conferenza del 1950, per negare ai governi centristi
qualsiasi risvolto riformatore. Infine contestava l'europeismo di
De Gasperi sostenendo, in linea con le posizioni sovietiche, che
l'integrazione europea fosse irrimediabilmente ipotecata dal
disegno egemonico americano sull'Europa e che De Gasperi non avesse
mai mostrato di voler sostenere, sia pure nel quadro della
strategia del containement, l'interesse nazionale dell'Italia.
A quasi cinquant'anni da quando questi giudizi furono formulati,
non è il caso di argomentare l'erroneità di molti di essi e
soprattutto della formula che li compendiava.
Conviene piuttosto domandarsi il perché del loro carattere così
accentuatamente unilaterale e liquidatorio.
E la spiegazione, a mio avviso, è nelle finalità politiche del
saggio, peraltro apertamente dichiarate.
Il saggio è scritto nella fase iniziale del "disgelo"
internazionale e dell'apertura a sinistra nella quale Togliatti si
accingeva a riformulare la strategia del PCI.
Vi è in lui il convincimento non solo che la sconfitta del
centrismo avesse dato inizio a un nuovo periodo della storia
politica italiana, ma anche che il PCI potesse reinserirsi nel
gioco politico.
La spia più evidente di ciò mi pare la tesi del carattere
fallimentare del centrismo degasperiano, fondata interamente sulla
"rottura politica del '47" e sostenuta da un notevole sforzo
argomentativo volto a dimostrare che il programma iniziale della DC
avrebbe potuto realizzarsi solo con la collaborazione governativa
dei partiti popolari.
In questo quadro compaiono anche argomenti ritorsivi come la
sottolineatura del fatto che l'investitura di De Gasperi fosse
scaturita dal quadro politico originato dalla "svolta di
Salerno".
E giocano risentimenti personali: rifiuta di riconoscere a De
Gasperi la statura dello statista perché non aveva mostrato di
comprendere che, in un paese appartenente alla sfera di influenza
americana come l'Italia, la "democrazia progressiva" non avrebbe
potuto assumere i tratti delle "democrazie popolari" e non aveva
avuto il coraggio di scommettere su di lui.
A me pare che la coloritura liquidatoria del giudizio su De Gasperi
e lo sforzo di argomentare storicamente che la Dc avesse un futuro
corrispondente alla sua ispirazione originaria solo in un rapporto
solidale con il movimento operaio fossero motivati dall'intenzione
di parlare alla nuova generazione democristiana che si andava
affermando in quegli anni. Togliatti certamente non sottovalutava
il fatto che, dopo la sconfitta del '53 causata principalmente dal
successo delle destra monarchico-missina, nel confronto interno
alla DC era prevalsa la decisione di raccogliere la sfida delle
sinistre, sbarrando la strada a qualunque prospettiva di alleanza
con la destra.
Sebbene sottacesse che De Gasperi aveva favorito questo
orientamento e la stessa successione di Fanfani alla segreteria del
partito, il riconoscimento del valore politico della sua relazione
al Congresso di Napoli conferma che intendeva parlare alle sinistre
democristiane, in primo luogo alla "sinistra di base",
privilegiandole come interlocutrici di una nuova stagione politica.
Fra i non pochi brani del saggio in cui Togliatti si rivolge ad
esse conviene citare quello iniziale:
Nel momento che nel campo democristiano e cattolico... ricompaiono…
fermenti nuovi e correnti di opposizione diverse dal passato e
talora più promettenti, la nostra opinione è che sia da seguire,
proprio col pensiero a queste cose nuove e nei giudizi sul passato,
il metodo della completa sincerità e chiarezza.
Ricorrendo quindi al suo consueto metodo storico, proponeva di
avviare il confronto da una valutazione dell'opera di De Gasperi e
con tono paternalistico scriveva:
L'assenza di una ragionata e approfondita critica dell'opera di De
Gasperi non può che impedire a queste correnti di prendere
coscienza di se stesse e del loro compito, può ridurre l'azione
loro a una serie di recriminazioni contingenti, interessanti
sempre, ma frammentarie e non troppo feconde. Una feconda azione
politica non può risultare che da una visione concreta ed organica
della vita italiana degli ultimi dieci anni e delle sue non
soddisfatte esigenze, ed è a una visione siffatta che noi ci
vorremmo riferire.
L'ambizione storiografica del saggio era dunque finalizzata a
gettare le basi di una nuova stagione politica e di una nuova
strategia, e le tendenziosità dell'interpretazione e l'asprezza dei
giudizi erano funzionali a questo scopo. In altre parole, non si
sfugge alla sensazione che con il suo saggio Togliatti mirasse a
porre le fondamenta della strategia di scardinamento della
centralità democristiana che avrebbe seguito con crescente
determinazione dal '58 in avanti.
L'ultima parte del saggio è quella a cui credo si possa riconoscere
un maggior respiro storico e, sebbene il titolo dell'ultimo
capitolo, "minaccia di una nuova teocrazia", appaia il più
aggressivo, in verità non lo è perché è rivolto all'azione della
Chiesa più che all'opera di De Gasperi.
Prendendo spunto dagli scritti del 1928-33 sulla storia del
"Centro" germanico, Togliatti evidenzia la nitidezza e fermezza
dell'orientamento cattolico-liberale di De Gasperi, originate dalla
consapevolezza che la crisi del primo dopoguerra era sfociata
nell'avvento del fascismo per il mancato accordo tra Popolari e
Socialisti.
Poi, tracciando il profilo storico del cattolicesimo europeo tra
Ottocento e Novecento, individua lucidamente la peculiarità della
situazione italiana caratterizzata dalla "questione vaticana" e dal
fatto che la Chiesa, nella crisi dello stato liberale, avesse
individuato nel fascismo l'interlocutore più affidabile per
risolvere la "questione romana".
Con il Concordato aveva perciò conquistato un potere di influenza
sulla società e sullo Stato che andava ben oltre la salvaguardia
della sua "libertà" e si esplicava attraverso l'esercizio del suo
"magistero".
Con l'inizio della guerra fredda, l'inquadramento della Chiesa
nello schieramento atlantico aveva influito in misura determinante
sulla situazione italiana e aveva costretto De Gasperi a subire lo
snaturamento del suo disegno originario.
Il "blocco d'ordine" creato intorno alla DC nel '48, consenziente
De Gasperi, aveva favorito la trasformazione della DC in partito di
fiducia della grande borghesia e la Chiesa, imponendogli "l'unità
politica dei cattolici", ne aveva fatto il veicolo del suo disegno
di "restaurazione teocratica"perseguito in quegli anni in tutta
Europa.
La sintesi necessariamente stringata del pensiero di Togliatti non
rende giustizia alla ricchezza delle sue argomentazioni che, per
quanto opinabili, colpiscono se si tiene conto dello stato
embrionale degli studi sul cattolicesimo politico tra le due guerre
in quegli anni.
Ma per concludere la disamina del saggio, vorrei porre l'accento
sul suo punto di arrivo: che fosse stata l'incapacità di opporsi
alle pressioni vaticane e della grande borghesia ad indurre De
Gasperi a compiere il passo falso della "legge truffa", causandone
la sconfitta.
A me pare che su questi passaggi - fra cui si colloca "l'operazione
Sturzo" - Togliatti ponesse questioni che neppure oggi sono del
tutto risolte dalla ricerca storica.
Ad ogni modo, quello che non appare persuasivo è sicuramente la
definizione della DC. Sottacendo il valore del patto
costituzionale, comunque salvaguardato, e sottovalutando la portata
delle riforme compiute nella prima legislatura che avevano
scombussolato il "blocco d'ordine" del 18 aprile, Togliatti
rimuoveva le ragioni principali della sconfitta del '53 e formulava
quel giudizio, già ricordato, sulla Dc che ha pesato a lungo ed in
parte grava tuttora sulla comprensione delle sue peculiarità e
dell'effettiva dinamica del sistema politico italiano.
Epilogo
Il saggio di Togliatti sull'opera di De Gasperi non solo non è
"equanime", come l'autore stesso sapeva avendo posto nel titolo un
bel punto interrogativo, ma è anche costellato di giudizi
acrimoniosi sulla sua persona.
Nella vibrante biografia di suo padre Maria Romana Catti riferisce
una confidenza di De Gasperi "a un amico" che potrebbe contribuire
a spiegarli:
«Dopo il 18 aprile trovatosi battuto non mi ha più salutato, anche
quando ci incontravamo alla buvette della Camera si allontanva
fingendo di non vedermi. È freddo, metallico. La Russia ne ha fatto
un bolscevico perfetto; una centrale di ricezione e di trasmissione
davanti alla quale l'entità uomo scompare.»
Ma il saggio togliattiano è permeato dalla psicologia del
vincitore, non dello sconfitto: il convincimento che lo anima è che
la sconfitta della "legge truffa" avesse trascinato con sé quella
di De Gasperi, della Democrazia Cristiana e quella del
centrismo.
Penso, perciò, che l'acrimonia, l'ingenerosità e talvolta il
carattere aggressivo dei giudizi sulla persona di De Gasperi,
inseriti, peraltro, in uno scritto di grande ambizione
storiografica, debbano avere anche altre spiegazioni.
Si dovrebbe scavare a fondo nel risentimento lasciato
dall'attentato del 14 luglio nell'animo di Togliatti.
Lo suggerisce il giudizio che egli stesso aveva formulato nella sua
"biografia autorizzata" del '53 nella quale, avvalendosi anche
delle opinioni di due autorevoli quotidiani inglesi come il "Times"
(liberale) e il "Manchester Guardian" (laburista), aveva attribuito
la responsabilità politica dell'attentato "al clima creato ad arte
dai clericali, e in particolare da De Gasperi, per le elezioni del
18 aprile".
E lo conferma la lettera di accompagnamento della risoluzione del
PCI sulla bocciatura della CED, parzialmente inedita, che Togliatti
inviò a Edoardo D'Onofrio il 20 agosto 1954. De Gasperi era appena
morto e si doveva organizzare la partecipazione del PCI ai suoi
funerali.
Togliatti scrive: «Mi sono posto in contatto con Nenni. Questi mi
dice che andrà ai funerali, tanto se saranno a Roma, quanto a
Trento. Io invece non ci vado, e do alla cosa un significato. Sono
per la reverenza ai morti (anche se i nostri avversari non sempre
seguono la stessa condotta, come dimostrano le dichiarazioni fatte
da De Gasperi alla morte di Stalin); sono quindi d'accordo che i
nostri commenti in questo momento abbiano un tono moderato, che non
possa urtare nessuno. Sono però contrario a qualsiasi forma di
embrassons nous presente il cadavere: anzi, la cosa profondamente
mi ripugna, come una volgarità e una ipocrisia.
«De Gasperi, del resto, combattè contro di noi senza esclusione di
colpi, rigettando qualsiasi senso di umanità. Dopo il 14 luglio non
ebbe né una parola né un gesto di umana comprensione per i
lavoratori in cui spontaneamente era insorta una grande
indignazione.
«Volle che fossero esclusi persino dalla scarna amnistia del '53.
Se le notizie son vere sembra sia morto di ira al vedere come si
stanno imponendo alcune delle nostre più giuste ed umane proposte
(distensione internazionale, pace!). Per tutto questo, mi
raccomando! Vada un gruppo di compagni, deputati e senatori, ai
funerali. Vacci pure tu, con Scoccimarro, come vicepresidenti; ci
vada anche qualcun altro, in modo che ci sia la nostra presenza. Ma
evitare qualsiasi manifestazione che sia al di là della reverente
correttezza umana.»
Ma riprendiamo il filo del discorso. I problemi che il saggio ci
consegna sono principalmente due: il giudizio su De Gasperi
antesignano della guerra fredda in Europa e quello sulla DC partito
di fiducia della borghesia.
Pur considerando il ribaltamento del quadro politico generale
intervenuto dalla metà del '47 in poi, non si può fare a meno di
osservare che il saggio presenta giudizi opposti a quelli che
avevano ispirato l'azione di Togliatti nei confronti di De Gasperi
nel triennio della loro collaborazione.
E poiché ha l'ambizione di fondarli sulla ricostruzione della
biografia politica ed intellettuale dello statista trentino, ci
pone dinanzi ad un evidente dilemma: o si deve considerarlo
un'autocritica radicale della percezione che aveva avuto della sua
figura fino alla "rottura politica del '47", o si deve ritenere che
considerasse quella rottura un errore catastrofico per l'Italia e
per la DC, rivelatore della mediocre statura di De Gasperi e
dell'effettivo carattere del suo disegno, che prima non aveva
compreso.
Questo convincimento è espresso nel modo più significativo in un
brano di Conversando con Togliatti in cui egli afferma: «Un nostro
avversario intelligente e capace non ci avrebbe messo fuori del
governo. Anzi, prendendo in parola le posizioni e le dichiarazioni
nostre, ci avrebbe forse sfidato a rimanervi, e avrebbe lavorato
per far sorgere una situazione nella quale noi potessimo essere
stretti senza via d'uscita oppure spezzati.»
Per quanto lo stile di pensiero di Togliatti solitamente rifuggisse
dall'idea di una storiografia controfattuale, un leader politico
che fondava la sua azione sul metodo storico non avrebbe potuto
rinunciarvi; e il brano citato evidenzia il convincimento che,
quando ormai la guerra fredda stava per esplodere, De Gasperi
avrebbe potuto attendere il momento in cui il PCI fosse stato
costretto dal "legame di ferro" con l'URSS ad uscire dal governo,
come presto sarebbe avvenuto a seguito della costituzione del
Cominform.
Ma, lasciando alla ricerca storica il compito di approfondire un
tema così impegnativo, vorrei tornare ancora per un momento sul
nesso tra l'immagine della DC degasperiana e la nuova strategia
politica di Togliatti volta a privilegiare come interlocutore la
sinistra democristiana.
L'obiettivo di scardinare la centralità della DC prevedeva o quanto
meno auspicava la possibilità che il partito si spezzasse.
Era un obiettivo realistico? Credo che tra le smentite più severe
si possa citare un brano della relazione di Aldo Moro al Consiglio
Nazionale della DC del 20 luglio 1961.
Quando Togliatti aveva già schierato il PCI su una linea di
inserimento nel centrosinistra volta a dividere la DC, Moro gli
obiettò: «Il giudizio sulla DC è comprensibilmente sommario e
schematico. Ed essa, qualificata per comodità di polemica come
forza di destra, viene presa in considerazione non per la realtà
delle sue posizioni libere e vive, ma, secondo il rozzo modulo
comunista, quale partito dei monopoli a servizio dei grandi
interessi capitalistici che sarebbero quindi riusciti a condurre
per anni milioni e milioni di italiani ad agire contro i loro
interessi, contro se stessi.»
La critica di Moro metteva in luce non solo il limite politico
della strategia togliattiana, ma anche quello culturale
dell'analisi su cui si fondava.
Riassunta nello slogan della DC "partito dei padroni" e "partito
americano", quell'analisi non consentiva al suo stesso autore di
comprendere che la figura e l'opera di De Gasperi avevano
costituito un punto di equilibrio, una sintesi e un elemento
identitario in cui si riconoscevano tutte le correnti democristiane
e avrebbero continuato a riconoscersi sino alla fine della DC.
Moro coglieva nel segno denunciandone il determinismo economico e
il riduzionismo sociologico che sarebbero stati superati, ma solo
in parte, negli anni '70. Infatti in quegli anni anche i comunisti
cominciarono a riparlare di De Gasperi e a ripensarne l'opera e la
figura.
Nel 1974 Pietro Scoppola pubblicò su il Mulino il saggio
su De Gasperi e la svolta politica del 1947 che tre anni dopo
sarebbe diventato l'ultimo capitolo de La proposta politica di De
Gasperi.
Da esso prese spunto Giorgio Amendola per avviare una revisione
dello schema togliattiano che avrebbe avuto le manifestazioni più
significative nella recensione alla Intervista su De Gasperi di
Giulio Andreotti e in quella molto ampia e innovativa al libro di
Scoppola pochi mesi dopo.
Commentando anche lui su "il Mulino" il primo scritto di Scoppola,
Amendola aveva rilevato che si staccava "dal magro bilancio
dell'anno degasperiano" per la novità dell'impostazione e la
ricchezza della documentazione.
Ma va attirata l'attenzione sul punto saliente del suo scritto:
Scoppola aveva affermato che la rottura del '47 era stata condotta
in modo da "non sospingere i comunisti verso una opposizione al
governo ma al sistema"; Amendola aggiunse informazioni ed elementi
di valutazione che lo confermavano e arricchivano.
Egli argomentava che dal giugno '46 Togliatti, consapevole
dell'imminenza della guerra fredda, aveva inasprito i toni della
polemica contro il governo per prepararsi alla rottura e, pur
cercando di rallentarne i tempi, aveva però inteso favorirla.
Inoltre, accennando vagamente a testimonianze personali, suggeriva
l'idea che De Gasperi e Togliatti avessero in qualche modo pilotato
insieme la rottura.
Nelle due recensioni del '77 arricchì le analisi e le testimonianze
dando impulso all'abbandono del paradigma togliattiano: un
abbandono inizialmente parziale, ma poi sempre più completo, che si
fondava sul progressivo superamento del determinismo economico e
del riduzionismo sociologico che avevano inficiato il saggio di
Togliatti.
Il PCI veniva lentamente sviluppando la capacità di fondare
l'analisi della politica italiana e delle relazioni internazionali
sulle interdipendenze e le interazioni tra gli attori, e questo si
riverberava sulle visioni retrospettive e sulla percezione storica
della figura di De Gasperi.
Ma vorrei concludere con alcune considerazioni sulla vischiosità di
quel nuovo percorso.
La prima riguarda la cultura politica del PCI post-togliattiano. Il
metodo storico come fondamento dell'azione politica non aveva più
l'incidenza e lo spessore che aveva avuto con Togliatti, per cui il
contributo di Amendola restò un caso pressoché isolato.
La seconda è che, nel concepire la sua revisione, Amendola aveva
potuto giovarsi dei contributi significativi della storiografia
cattolica, ma ad essi non corrispondeva un impegno minimamente
paragonabile della storiografia comunista e di
sinistra.
La terza è che il processo di revisione rimase un fatto d'élite,
mentre nel senso comune dei militanti e degli elettori comunisti e
di sinistra continuò - e forse continua - a prevalere l'immagine
della DC"partito americano e partito dei
padroni.
L'ultima considerazione riguarda la storiografia. Credo di poter
dire che con quegli scritti Amendola desse impulso al paradigma
della complementarità fra DC e PCI nella storia della repubblica
che, fatto proprio inizialmente da Scoppola, caratterizza una parte
limitata ma molto significativa della storiografia politica degli
ultimi venti anni favorendo nuove ricerche e l'acquisizione di
risultati sempre più convincenti.