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Si è spento il senatore a vita Giulio Andreotti, aveva 94 anni

E' scomparso l’uomo che ha scritto la storia d’Italia della seconda metà del Novecento

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Il senatore a vita Giulio Andreotti era nato a Roma il 14 gennaio 1919 fu uno dei politici italiani che più hanno inciso sulla storia della Prima Repubblica, essendo stato protagonista della vita politica italiana per tutta la seconda metà del XX Secolo.
È stato uno dei principali esponenti della Democrazia Cristiana, della quale non fu mai segretario politico, mentre ricoprì per sette volte la carica di Presidente del Consiglio dei ministri.
Dal 1945 in poi è stato nelle assemblee legislative italiane: dalla Consulta Nazionale all'Assemblea costituente, e poi nel Parlamento italiano dal 1948, come deputato, fino al 1991 e successivamente come senatore a vita.
 
Nato a Roma da genitori originari di Segni, rimase precocemente orfano del padre e perse anche Elena, l'unica sorella. Frequentò il ginnasio al «Visconti» e il liceo al «Tasso». Si iscrisse poi alla facoltà di Giurisprudenza e si laureò il 10 novembre del 1941 a pieni voti.
Intraprese la carriera politica già nel corso degli studi universitari, durante i quali entrò a far parte della Federazione Universitaria Cattolica Italiana, che era l'unica associazione cattolica riconosciuta nelle università durante il fascismo, nella quale si formerà buona parte della futura classe dirigente democristiana.
Conobbe Alcide De Gasperi lavorando alla Biblioteca Vaticana.
«Io non sapevo chi fosse quel signore. – Dirà poi Andreotti parlando di de Gasperi. – Lui sapeva invece che dirigevo il giornale degli universitari cattolici»
Durante la guerra scrisse per la Rivista del Lavoro, pubblicazione di propaganda fascista, ma partecipò anche alla redazione clandestina de Il Popolo.
Il 30 luglio 1944, al Congresso di Napoli, fu eletto nel primo Consiglio nazionale della Democrazia cristiana e il 19 agosto divenne responsabile dei gruppi giovanili del partito. In tale carica verrà confermato dal Congresso giovanile di Assisi del gennaio 1947.
 
Fu De Gasperi ad introdurlo nella scena politica nazionale, designandolo quale componente della Consulta nel 1945 e successivamente favorendone la candidatura alle elezioni del 1946 all'Assemblea Costituente.
Andreotti entrò poi nel quarto governo De Gasperi, in veste di sottosegretario alla Presidenza in tutti i governi De Gasperi e poi nel successivo governo Pella, fino al gennaio 1954.
Ad Andreotti furono affidate numerose e ampie deleghe (fra le altre, quelle per lo spettacolo, lo sport, la riforma della pubblica amministrazione, l’epurazione). A lui si devono in particolare la rinascita della industria cinematografica nazionale e il rilancio degli stabilimenti di Cinecittà devastati nell'immediato dopoguerra , la rinascita del CONI e l'autonomia finanziaria dello sport attraverso il collegamento con il totocalcio.
Nel 1954 è per la prima volta ministro, guidando gli Interni nel brevissimo primo governo Fanfani. Successivamente diventa ministro delle Finanze. Quasi parallelamente all'affermarsi della segreteria nazionale di Amintore Fanfani, la corrente andreottiana nasce in quegli anni, ereditando nella capitale i quadri della destra clericale che nel 1952 s'erano coalizzati – con la benedizione del Vaticano – dietro il tentativo di espugnare il Campidoglio con la lista civica guidata da Luigi Sturzo.
Eliminata la vecchia guardia degasperiana dalla guida del partito, gli andreottiani aiutarono la neonata corrente dei dorotei a conseguire la maggioranza necessaria per scalzare Fanfani dalla Presidenza del consiglio e dalla segreteria della Democrazia cristiana.
 
Nei primi anni sessanta fu ministro della Difesa quando esplose lo scandalo dei fascicoli SIFAR e del Piano Solo, un presunto progetto di golpe neofascista, promosso, secondo il settimanale L'Espresso, dal generale missino Giovanni De Lorenzo.
L'incarico ministeriale rivestito da Andreotti fu onerato, da una successiva legge, della responsabilità della distruzione dei fascicoli, con cui il Sifar aveva schedato importanti politici italiani, di cui aveva composto dei ritratti poco favorevoli. Gli si addebita perciò una responsabilità quanto meno oggettiva nel fatto che quei fascicoli fossero stati prima fotocopiati e poi passati alla P2 di Licio Gelli, che aveva portato quei materiali all'estero, a dispetto del fatto che la commissione parlamentare d'inchiesta avesse deciso di far bruciare a Fiumicino, nell'inceneritore, i fascicoli abusivi.
Quasi a rimarcare la differente cifra della sua condotta, Francesco Cossiga, che nella veste di sottosegretario alla Difesa procedette parallelamente all'espunzione con omissis del rapporto della commissione ministeriale d'inchiesta del generale Manes sul «Piano Solo», ha sempre pubblicamente vantato il suo intervento censorio, dichiarando di averlo svolto nella piena legalità.
Nel dicembre del 1968 viene nominato capogruppo della Dc alla Camera, incarico che manterrà per tutta la legislatura fino al 1972, quando divenne per la prima volta Presidente del Consiglio, incarico che reggerà, alla guida di due esecutivi di centro-destra, fino al 1973.
Continua a ricoprire incarichi di primo piano, nei successivi esecutivi.
 

 
Nel ruolo di ministro della difesa, rilascia una famosa intervista a Massimo Caprara con cui rivela le coperture istituzionali dell'indagato per la strage di piazza Fontana, Guido Giannettini (Andreotti sarà prosciolto, nel 1982, dall'accusa di favoreggiamento nei confronti di Giannettini).
Fra il 1974 e il 1976 ricopre il ruolo di Ministro del Bilancio nei governi Moro IV e Moro V.
Nel 1976, il governo, presieduto da Aldo Moro, perse la fiducia dei socialisti in Parlamento e il Paese si avviò alle elezioni anticipate, che videro un forte aumento del Partito Comunista Italiano, guidato da Enrico Berlinguer. La Democrazia Cristiana riuscì, anche se solo per pochi voti, a restare il partito di maggioranza relativa.
Forte del buon risultato elettorale, Berlinguer propose, appoggiato anche da Aldo Moro e Amintore Fanfani, di dare concretezza al compromesso storico, ovvero alla formazione di un governo di coalizione fra PCI e DC, per superare la difficile situazione dell'Italia dell'epoca, colpita dalla crisi economica e dal terrorismo.
Nel marzo del 78 la crisi del Governo Andreotti fu superata grazie alla mediazione di Aldo Moro che promosse un nuovo esecutivo, sempre un monocolore democristiano ma sostenuto dal voto favorevole di tutti i partiti compreso il PCI (votarono contro solo MSI, PLI e SVP). Il nuovo governo fu nuovamente affidato ad Andreotti e ottenne la fiducia in Parlamento.
Il 16 marzo, lo stesso giorno del sequestro di Moro.
La drammatica situazione fece nascere la cosiddetta «solidarietà nazionale», in nome della quale il PCI accettò di votare comunque la fiducia malgrado Andreotti avesse rifiutato tutte le richieste della sinistra (riduzione del numero dei ministri, inclusione di alcuni indipendenti, esclusione di ministri quali Antonio Bisaglia e Carlo Donat Cattin, apertamente contrari alla politica di solidarietà nazionale).
Il ruolo di Andreotti nella gestione del sequestro Moro è fortemente controverso.
Rifiutò ogni trattativa con i terroristi in nome della ragion di Stato, sposando la linea della fermezza e scatenando forti critiche contro di lui da parte della famiglia dello statista rapito.
Nel suo memoriale, scritto mentre era prigioniero, Moro riservò giudizi durissimi su Andreotti.
Dopo l'omicidio di Moro, nel maggio del 1978, l'esperienza della solidarietà nazionale proseguì, portando all'approvazione di importanti leggi, come la riforma sanitaria.
La richiesta dei comunisti, per una partecipazione più diretta alle attività di governo, fu respinta dalla DC: di conseguenza Andreotti si dimise nel giugno del 1979.
 
Andreotti assume la carica di Ministro degli Esteri nel primo governo Craxi, incarico che mantiene nei successivi governi fino al 1989. Forte della sua pluridecennale esperienza di uomo politico, Andreotti favorì il dialogo fra USA e URSS, che in quegli anni si stava aprendo.
All'interno del governo, si rese protagonista di diversi scontri con Craxi, ma nella gestione filoaraba della politica estera fu oggettivamente in consonanza con il premier socialista, schierandosi con lui nella questione della risoluzione negoziata del dirottamento della nave Achille Lauro.
Anche grazie a questi sviluppi, svolse successivamente un ruolo di tramite fra Craxi e la Democrazia Cristiana, i cui rapporti erano tutt'altro che idilliaci.
Gli scontri fra il carismatico leader socialista e il segretario democristiano Ciriaco De Mita erano all'ordine del giorno, tanto che i giornali parlarono dell'esistenza del triangolo CAF (Craxi-Andreotti-Forlani): quando tale intesa sottrasse a De Mita la guida del governo, nel 1989, Andreotti fu chiamato nuovamente alla presidenza del Consiglio, incarico che resse fino al 1992.
 
Si trattò di un governo dal decorso turbolento: la scelta di restare alla guida del governo, nonostante l'abbandono dei ministri della sinistra democristiana, non impedì il riemergere di antichi sospetti e rancori con Craxi. Lo scandalo Gladio e le «picconate» del presidente della Repubblica Francesco Cossiga lo videro destinatario di pressioni istituzionali fortissime, cui replicò con la consueta levità di spirito dichiarando che era «...meglio tirare a campare che tirare le cuoia».
Nel 1992, finita la legislatura, Andreotti rassegnò le sue dimissioni, non mancando di chiosare che facendo le valigie aveva trovato nei suoi cassetti alcune lettere del Presidente della Repubblica ancora chiuse. Eppure a quel Presidente dovette la sua sopravvivenza politica nella sua quarta età: l'anno prima era stato nominato senatore a vita proprio da Cossiga.
 
Nel 1992, il senatore a vita Giulio Andreotti era considerato uno dei candidati più papabili per la carica di presidente della Repubblica, ma la sua corrente non si espose mai con una candidatura esplicita che portasse alla conta dei voti, preferendo l'esercizio di un'estenuante interdizione che tenne sulla corda gli altri candidati del CAF (fino a bruciare, in due memorabili scrutini di metà maggio, la candidatura di Arnaldo Forlani, che non riuscì a raggiungere il quorum per meno di trenta voti).
Quella di Andreotti, che era studiata come una candidatura da far emergere dopo l'affossamento delle altre, divenne però a sua volta del tutto impraticabile dopo l'assassinio del giudice Giovanni Falcone a Palermo: il fatto che due mesi prima fosse stato assassinato a Palermo Salvo Lima, della medesima corrente di Andreotti, fu giudicato in Parlamento un evento di scarsa presentabilità pubblica, in una situazione di emergenza nazionale nella lotta alla mafia.
Così si passò a considerare altri nomi più «istituzionali»: prima il presidente del Senato Giovanni Spadolini e poi, con successo, quello della Camera Scalfaro, sostenuto anche dalla sinistra.
 
Non toccato dalla tempesta di Tangentopoli, nel 1993, dopo le rivelazioni di alcuni pentiti, viene indagato come mandante dell'omicidio Pecorelli dalla Procura di Perugia. Sarà assolto definitivamente dalla Corte di Cassazione dieci anni dopo.
Lo stesso anno fu accusato di aver favorito la mafia, tramite la mediazione del suo rappresentante in Sicilia, Salvo Lima. Il Senato, dietro sua sollecitazione, concesse l'autorizzazione a procedere e il processo accertò la collaborazione di Andreotti con la criminalità organizzata fino al 1980, facendo così scattare la prescrizione.
Le elezioni politiche del 2006, che videro una vittoria di misura dell'Unione di Romano Prodi, con al Senato un leggero vantaggio di seggi tra lo schieramento vincente e la Casa delle Libertà, fecero discutere sui futuri assetti istituzionali e sulla necessità di ricompattare un'Italia sostanzialmente divisa in due.
Perciò, da alcuni settori del centro-destra era giunta la proposta di assegnare la Presidenza del Senato al senatore a vita Andreotti, ritenuto capace di mediare tra i due schieramenti e tra le due anime del Paese.
Il 19 maggio 2006 accordò la fiducia al governo Prodi II, assieme agli altri sei senatori a vita, suscitando vive polemiche nella Casa delle Libertà, che aveva sostenuto la sua candidatura alla Presidenza del Senato. Successivamente, si consultò spesso con il nuovo Presidente del Consiglio riguardo alla politica estera, che continuava a seguire in qualità di membro della Commissione Affari esteri del Senato.
Il 21 febbraio 2008 suscitò scalpore la sua astensione in Senato alla risoluzione della maggioranza di centrosinistra, relativa alle linee guida di politica estera illustrate dal Ministro degli Esteri Massimo D'Alema al Senato della Repubblica, che non ottenne il quorum di maggioranza, iniziando così la crisi di Governo che portò il Presidente del Consiglio Romano Prodi a rassegnare, in serata, le dimissioni dal suo incarico al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
 
Il suo notevole archivio cartaceo (3.500 faldoni, dal 1944 in poi) che, negli ultimi anni della sua carriera parlamentare, aveva sede nel suo ufficio di piazza in Lucina, è stato acquisito dalla Fondazione Sturzo ed è sempre stato utilizzato da Andreotti.
Il senatore Giulio Andreotti è il capo di governo più longevo in tutta la storia unitaria dell'Italia. Dopo il 30 dicembre 2012, giorno della scomparsa di Rita Levi-Montalcini, è stato il più anziano senatore in carica.
È morto a Roma alle 12.24 del 6 maggio 2013.
 
I suoi misteri forse se ne sono andati con lui, o forse verranno un po’ alla luce.
Ma il nostro giudizio su Giulio Andreotti è positivo. È stato l’uomo di Stato italiano dotato di maggiori capacità dell’intera seconda metà del XX secolo, secondo forse al solo Alcide De Gasperi.
Nella sua vita non ha mai cercato la gloria, ma solo i risultati. Non ha mai voluto lo scontro ma le mediazione. Il suo ruolo di pacificatore presso i paesi del mediterraneo hanno fatto di lui un uomo di statura internazionale.
 
Si ringrazia Wikipedia per le molte infpormazioni che ci ha consentito di attingere e per le foto che abbiamo utilizzato.

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