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«DNA Trentino. Dai nostri avi – Racconti di storia vissuta»

Il Trentino degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta in una pubblicazione che raccoglie 37 interviste e che presto sarà anche un portale web

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Avvicinare i giovani alla storia recente del Trentino. Questo l’obiettivo primario del progetto, presentato stamane alla Sala Belli della Provincia, attivato dall’Ufficio per il Sistema bibliotecario trentino e la partecipazione culturale con la collaborazione di TSM Trentino School of Management.
Una storia non costruita sui documenti o sui riscontri di archivio, ma sulle testimonianze di chi, le vicende narrate, le ha vissute in prima persona.
Di qui l’acronimo, dai nostri avi, DNA Trentino, racconti di storie vissute.
Racconti, per ora, in forma di volume ma destinati ad essere diffusi attraverso il web con un portale (DNA Trentino) aperto alle testimonianze di tutti i trentini.
Un modo forse nuovo di raccontare la storia di questa terra e di tradurla nella contemporaneità, nel contesto attuale, mettendola a disposizione dei giovani affinché possano creare attraverso essa la mappa del proprio futuro.
«Un lavoro – scrive l'assessore alla cultura Tiziano Mellarini nella premessa al volume – che connette in modo virtuoso generazioni diverse che tanto hanno da raccontarsi e forse anche tanto da comprendersi.»

Come la molecola che trasmette da una generazione all’altra caratteristiche genetiche, così DNA Trentino tramanda e trasferisce informazioni ed esperienze importanti per capire la realtà di oggi. Un filo ideale che percorre il tempo , che si evolve e che lega il passato al presente e al futuro.
Con la partecipazione di tre giovani tirocinanti - Elena Baldo, Daniela Deon e Martina Nardelli - che hanno colto la sfida di un progetto tutt’altro che scontato, è stata raccontata, attraverso la viva voce dei protagonisti del tempo, la storia del Trentino e della sua gente negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta.
«Tre decenni – spiega Mauro Marcantoni di TSM – che sono il presupposto del Trentino di oggi e che corrispondono a tre diversi vissuti: gli anni Cinquanta come decennio del io voglio (il riscatto, uscire dalla miseria, rinascere), gli anni Sessanta del io posso (cambiare il mondo, realizzare i sogni e le aspirazioni del decennio precedente), e gli anni Settanta, decennio del io dubito (che lo sviluppo economico sia indefinito e lineare, dei dogmi morali ed etici, della sostenibilità di un progresso a scapito dell'ambiente).»
Suggestioni, racconti, che hanno fatto da contrappunto, tramite due giovani lettori, Elisa e Matteo, alla presentazione di DNA Trentino.
«Una storia raccontata non come successione di date e avvenimenti ma come brani di esistenze – dice Sara Guelmi, direttrice dell'Ufficio Sistema Bibliotecario Trentino e Partecipazione Culturale – ciascuna con la propria carica di entusiasmo e difficoltà. Un volume che nasce dall'importanza di attivare un progetto rivolto ai giovani, che non hanno conoscenza di cosa era la vita dei loro genitori e dei loro nonni, un passato recente che deve essere conosciuto.»
  
 
 
La pubblicazione presentata oggi presso la sala Belli del Palazzo della Provincia autonoma di Trento è il frutto tangibile di un progetto ben riuscito che è ad un tempo un importante punto di arrivo e la premessa di nuove suggestive evoluzioni.
«Ma anche – come afferma Claudio Martinelli, dirigente del Servizio Attività culturali – un investimento sui giovani.»
La pubblicazione, a tiratura limitata, rappresenta infatti solo il primo step di un progetto che nei prossimi mesi troverà nel web la sua più congeniale applicazione.
Nella seconda fase saranno raccolti contributi di partecipazione popolare attraverso le testimonianze e i documenti che i trentini vorranno condividere, contribuendo così, ciascuno con la propria storia personale, al grande comune racconto della storia di questa terra.
Le tre tirocinanti sono Elena Baldo, Daniela Deon e Martina Nardelli; gli intervistati: Renato Ballardini, Francesco Borzaga, Paola Buccella, Elio Caola, Franco de Battaglia, Milena Di Camillo, Mariarosa Fedel, Antonio Fontana, Lucia Fontana, Mariano Gianotti, Sergio Giovanazzi, Paola Gottardi, Iole Gregori, Giorgio Grigolli, don Giuseppe Grosselli, Sara Guelmi, Mauro Marcantoni, Pio Marchel, Alma Meggio, Enrica Nardelli Pastore, Gilberto Navarini, Mario Negri, Gianfranco Postal, Giorgio Postal, Erminia Pozzato, Silvano Rauzi, Natale Remondini, Natale Rigotti, Adriana Maurina Rossi, Marta Sala, Fiorentino Sandri, Franco Sandri, Sandra Segatta, Achille Simonini, Marcello Taddei, Sandra Tafner, Gino Tomasi.

TESTIMONIANZE

 ANNI CINQUANTA  
Io voglio

Sono prebellico. Lo dico perché c’è una linea di demarcazione molto netta tra i prebellici e i postbellici. I primi sono quelli che hanno vissuto una società e un sistema di vita, economico e di valori, che era fermo da duemila anni. Il decennio degli anni Cinquanta iniziava in una povertà assoluta perché eravamo reduci dalla guerra.
Dal punto di vista delle statistiche nazionali eravamo in fondo, a livello del Sud che già aveva livelli abbastanza bassi.
C’era un’economia di sussistenza. Alcuni dovevano lasciare il Trentino e andare a cercare lavoro in Francia o in Germania o nelle Americhe. Il «Piano Fanfani» organizzava i disoccupati e dava loro lavoro per mettere a posto le strade, le montagne.
Una vacca, un vitello, qualche gallina, c’era anche chi aveva un paio di buoi. Gli animali erano piccoli perché non gli davano da mangiare. Gli animali, in fondo, erano magri, come la gente. Lavare si lavava col sapone e c’era la caldera. Il bucato si faceva una volta al mese. Si cospargeva con la cenere della stufa a legna e si metteva a strati in acqua e lisciva. Mettevano a bollire l’acqua, col fuoco sotto, e dentro a bollire ’ste lenzuola.
La macelleria a Ospedaletto apriva solo alla domenica mattina e c’erano famiglie che per il pranzo domenicale compravano un chilo di ossa per fare il brodo: era già un pranzo di lusso.
La carne si mangiava una volta alla settimana; per il resto: polenta, pasta asciutta! L’arrosto, per dire, era pollo arrosto.
La radio! Era il ’51-’52. C’era un occhietto verde, che quando giravi la stazione, quando prendevi bene la frequenza, doveva essere chiuso; c’era una specie di membrana che si apriva e si chiudeva.
E poi è arrivata la televisione. Mia sorella aveva comprato una televisione a gettone: dovevi mettere un gettone per accenderla e uno anche per vederla! Non esisteva che un bambino stesse sveglio oltre il Carosello. C’era un unico canale, bianco e nero e tutto quello che veniva proposto era considerato «il massimo».
Nel ’56 è venuto il primo trattore qui a Faedo, prima non ce n’erano.
La Regione con le competenze per l’agricoltura e quelle in materia di cooperazione, ha cominciato a sostenere l’agricoltura per l’acquisto degli attrezzi, soprattutto del trattore, ed incentiva l’infrastrutturazione.
C’erano le attività classiche dell’artigianato. Il Trentino industriale non era neanche nato, era in gestazione fantasiosa.
Trento era la città delle botteghe e il Trentino la zona delle botteghe. Pensate che a Trento città c’erano più calzolai di tutta Milano.
Del turismo, mi ricordo le prime motociclette dei tedeschi, con il sellino affianco, e i primi italiani che stavano qui un mese. Il turista voleva conoscere il macellaio, il parroco, voleva conoscere il paese e la gente.
Trento è passata, da cinquantamila a settantamila abitanti in pochi anni e non aveva un piano regolatore. Per i nuovi quartieri sorti, la regola era tre metri dal confine, l’allineamento sulla strada e ventiquattro metri di altezza, anche ventotto certe volte: se guardate quelle zone lì vedete ’ste case raggruppate senza ordine!

Mauro Marcantoni.

C’erano poche automobili, c’erano ancora molti cavalli, molti carri e i buoi.
Le strade erano tutte bianche, e brutte.
Sono andato qualche volta a ballare, ma non era una cosa che mi appassionasse, invece lo sport mi divertiva molto. Nuoto, montagna, sci. Lì c’erano ragazzi e ragazze; le ragazze mi sono sempre interessate... E mi interessano anche adesso.
Nei paesi tutto ruotava attorno al teatro e all’oratorio. C’era la banda, nascevano le prime filodrammatiche, i cori di montagna.
Andavamo quotidianamente ad attraversare l’Adige a nuoto. Adesso sarebbe inimmaginabile, non eravamo degli eroi, solo la concezione della natura era molto differente.
La scuola era vista come grande occasione di riscatto. Non c’era ancora la media unica, per arrivare alle medie ci voleva l’esame.
C’era la propensione ad andare ovunque fuorché a casa. Mia mamma mi chiedeva: «Ma dove stai meglio che a casa tua?», e io per risposta: «Da qualsiasi parte». Si prendeva una scarica preventiva ed educativa, ma poi te ne andavi lo stesso.
Io a mia mamma e mio papà davo ancora del «Voi», e non era una famiglia all’antica la mia. Quando mia mamma mi parlava io non proferivo parola, lo stesso quando mio papà mi diceva qualcosa.
Era quasi escluso cercare contatti con le ragazze, il processo era un po’ anomalo: prima venivano individuate. Ad esempio si diceva: «Giù al Valcanover ce n’è una bona», non importava se era bella, brutta, intelligente, furba, colta. Ce n’è una, nessuno sapeva com’era. Allora dovevi escogitare il modo per ’narghe al vers. Si sapeva che andava a messa a Canale? Allora tutti a messa a Canale, finché in un modo o nell’altro uno riusciva a parlare con lei e allora la invitavi, non a titolo personale ma a titolo collettivo.
Se si voleva invitarla a titolo personale bisognava chiedere il permesso ai genitori. A titolo collettivo veniva volentieri, ma in genere con una o due amiche, poi la invitavi a ballare, si chiacchierava, nasceva un po’ di simpatia, c’era un minimo di approccio e poi nasceva la storia. Dopo un mese si diceva: «Ah, i è morosi quei doi lì» e quando si diceva così, «l’era nada la caora». Nessuna festa, si arrangiavano per conto loro: il moroso di solito andava a casa della ragazza, una barba spaventosa!
I collegamenti tra paesi erano difficili e perciò erano rari i matrimoni con gente «furesta». Se poi c’era un matrimonio con gente sotto Verona o sopra Salorno, si diceva: «L’ha sposà ’na taliana» – «L’ha sposà ’n todesc».
Il matrimonio era sempre in chiesa.
Mi sono sposata ad Arco, perché mio marito era di Arco e perché i miei non volevano che mi sposassi. È stato il primo matrimonio civile che han fatto ad Arco, nel ’57! A Pergine il sindaco, mi aveva detto: «No, no. Tu hai due fratelli che… tuo padre, poi… !! Mi fanno il far west. Io ti do la delega e vai al paese di tuo marito, che io non ti sposo!».

Non l’ho voluto fare in chiesa, per mio marito, che non voleva, e per ripicca.
Tutte le donne che si sposavano, lasciavano il lavoro per accudire la famiglia. Papa Pio XII dopo la guerra aveva fatto un’enciclica dove esortava le donne a rimanere «angelo del focolare». Le ragazze che si sposavano si licenziavano e sembrava una cosa normale.
Le donne che studiavano erano poche. Era già costoso fare studiare gli uomini, le donne figuriamoci, anche perché non c’erano prospettive di lavoro tali da poter compensare lo sforzo. Le donne sposate avevano il problema dei figli, perché l’ordine era: «Fate tutti i figli che Dio vi manda». Le donne con figli senza essere sposate erano povere derelitte, abbandonate, espulse dalla famiglia che non le voleva più, erano l’ultimo gradino della scala sociale.
Le case erano come le caverne. C’erano le lampadine con al massimo «dieci candele». Tanti avevano una lampadina a metà tra due stanze per fare luce da due parti, ma alla fine si vedeva poco sia da una parte che dall’altra. I servizi poi, erano tutti fuori.
Non c’era mica l’acqua nelle case. Andavamo alla fontana in piazza. C’erano la cucina e due o tre stanze, in inverno la legna nella stufa serviva solo per riscaldare la cucina. La maggior parte della legna veniva venduta.
La prima casa, dopo sposata, aveva camera e cucina; non c’era il bagno, ma il gabinetto era in casa. La cucina era piccola, c’era la stufa, ma non c’era il frigo.
Nel ’58, quando mio papà è andato in pensione, con la buona uscita ha voluto farsi il bagno nuovo. Quando arriva il camioncino per scaricare, una vicina pettegola si è precipitata: «Sa falo el Bepi de sta vanduvola?» Allora l’operaio che scaricava: «È la vasca da bagno». «Oooooh». Poi scarica il water: «Sti afari qua sa ei pò?». «Il gabinetto.» «Gesù Maria!».
Guardava un po’ titubante. Poi c’era anche il bidet, e dice: «Scùseme Toni, ma san falo pò de do cessi?».
Sto povero, per togliersi dall’imbarazzo risponde: «Virginia, questo è per fare quella dura, questo è per fare quella molla!»; «Gesù Mariaaaaaaaaa!».

 ANNI SESSANTA
Io posso 

Gli anni Sessanta sono caratterizzati dall’industrializzazione e dall’istruzione. Sono stati gli anni della svolta, gli anni del progresso e delle aperture, un volano dello sviluppo.
La crescita della produttività fa sì che si abbassi la componente lavoro. Quindi è chiaro che quel mondo rurale tramonta piuttosto rapidamente: cambia il lavoro, cambiano i ritmi di vita, cambia anche dal punto di vista sociale e culturale.
Il primo elettrodomestico è stato il frigorifero, la televisione è venuta dopo (si andava ancora a vederla nei bar!).
Prima del frigorifero in casa, il burro stava fuori dalla finestra.
Il sabato era giorno di bucato, per cui era una giornata di tragedia per la famiglia: la mamma aveva il nervoso perché era stanchissima; bolliva le cose nel pentolone e poi nella vasca da bagno a lavare e strofinare. Un sabato era piegata sulla vasca da bagno e si è incriccata. Dopo tre giorni nel letto, ha telefonato al papà dicendo: «Portatemi la lavatrice!».
Gli anni Sessanta hanno portato qualche abominio, come per esempio la fòrmica! Tutti quei bei mobili di arte povera sostituiti con terrificanti tavolini con le gambette d’acciaio e il ripiano di fòrmica! Piacevano tanto, ma erano delle cose indegne.
Ancora più sconvolgente è stato l’arrivo del gas: si accendeva con un movimento e costava poco, altro che fuoco nel focolare.
Il miglioramento è andato crescendo. Sono gli anni di benessere, perché lavoro ce n’era, bastava aver voglia.
Negli anni Sessanta c’è una presenza sempre più forte delle istituzioni pubbliche. Sono gli anni del boom economico. La Provincia aveva potestà legislative importanti, ma non nei settori economici. Aveva voce in capitolo sulla formazione professionale e in materia di urbanistica come strumento di programmazione dello sviluppo. Usa questo come base e il resto se lo inventa.
Quando il turismo apre la strada a forme di speculazione edilizia, si verificano situazioni di irrimediabile alterazione ambientale.
Sono anni decisivi da tutti i punti di vista. Il PUP, grandissimo disegno innovativo, aveva lo scopo di creare le condizioni di vivibilità su tutto il territorio, portando i servizi in tutte le valli, anche le più periferiche.
In due anni si è fatto il Piano: tantissime riunioni nei Comuni e nelle vallate. Ogni settimana c’era una riunione con i sindaci e gli amministratori erano chiamati a contribuire.
L’autostrada è stata la premessa essenziale per tutto ciò che è venuto dopo, è stata un’operazione gigantesca in quei tempi, non tanto dal punto di vista costruttivo, ma soprattutto dal punto di vista economico.
Gli industriali venivano volentieri in Trentino, perché dicevano: «Son montanari, abituati a lavorare sodo». Poi, c’è da dire che i trentini, per loro natura, erano metalmezzadri: lavorare la campagna e poi fare il metalmeccanico, era una delle ragioni per cui le fabbriche venivano da noi, anche se la paga era un po’ fiacca, potevano arrotondare col lavoro nei campi.
Nel ’66, a Trento gh’è stà l’alluvione. È stata una cosa terrificante: mi ricordo che qui alla Sloi la mattina presto, ci hanno portati con i barconi dei pompieri, ci hanno calati in acqua in mezzo alle melme maleodoranti con le tute, con le maschere e con gli stivali; ci siamo messi con grande impegno, a sgomberare gli uffici e i reparti. Era una cosa spettrale.
Allora c’era Kessler e ai dipendenti del Museo e al Direttore, che ero io, ha detto: «Vi metto a disposizione l’elicottero della Provincia per andare sui punti di maggior disagio, andate là e quello che dovete fare lo vedrete!».
Siamo stati i primi ad andare in Primiero, dov’era un disastro tremendo.
A Castelnuovo, che allora non c’era ancora la Malerba, vedevi proprio la povertà: quelle facce di pellagra quelle facce grigie, bruttine, erano brutte dalla povertà. Dopo l’apertura della Malerba, nel giro di cinque-sei mesi, quando hanno iniziato a girare un po’ di soldini, si notava proprio il cambiamento, la gente era fiorita.
Vivevamo in un tempo di grandi speranze; credevamo nella crescita, nello sviluppo e nel progresso.
Non c’era di che essere tanto allegri dal punto di vista dei divertimenti. Il cinema era un lusso: andare al cinema era un evento; andare a teatro non se ne parlava nemmeno.
Le feste, che si chiamavano «festine», erano quasi tutte in casa.
C’era la balera. Lì si parlava seduti sul divanetto; si parlava perfino mentre si ballava. Io mi sono sposata a ventidue anni e a quell’epoca non se ne parlava di uscire di sera, quindi in balera si andava la domenica pomeriggio, dopo una trattativa estenuante. E si andava in gruppo.

Sara Guelmi.

Il mangiadischi è stata una cosa epocale. Erano di plastica, coloratissimi ed era normale vedere i ragazzini camminare per la strada con il mangiadischi a tutto volume. Il simbolo di quegli anni è stato il juke-box nei bar.
Al mio paese la banda era un’istituzione, suonarci era un privilegio e un orgoglio.
Andavi a scuola di banda, con la promessa che se imparavi il solfeggio, poi ti insegnavano a suonare uno strumento. È nata l’epoca delle orchestrine: la fisarmonica, il contrabbasso, la chitarra, che doveva accompagnare, il trombone a tiro, il sax o il clarinetto. Ma più difficile di tutto era che questi strumenti suonassero in sintonia!
Una delle cose che ha portato il vero cambiamento è stata l’istituzione della scuola media dell’obbligo… E nel contempo c’ è stato il crollo delle «vocazioni», cioè dell’entrata in seminario.
La scuola era più selettiva, e anche il rapporto fra famiglia e scuola era diverso: la famiglia non dava mai ragione al figlio.
Il fatto forse più interessante, è l’arrivo dell’università a Trento.
A me sociologia ha aperto una finestra sul mondo, perché la mia vita era un po’ ristretta: ero sempre in parrocchia, poi è arrivata la facoltà di Sociologia e ha dato una sferzata.
Si contestava tutto. Si lavorava molto, nelle cosiddette «comuni», nei quartieri si facevano ricerche, si facevano analisi. Parecchia gente diceva: «Eh ma insomma, dicono anche cose vere!», soprattutto tra gli operai alla Michelin, alla Sloi, alla Carbochimica.
Si diceva: «con i comunisti quello che è di uno è di tutti». Ostrega, meglio di così non esiste: io non avevo niente, non poteva che andarmi bene! Una filosofia perfetta. Allora, avanti con questa filosofia! La gente purtroppo era ignorante, non era culturalmente istruita. Allora si chiedeva la parità dei diritti, la parità di tutto. All’inizio gli studenti di Sociologia avevano delle idee bellissime. Dopo un po’ la situazione è degenerata.
I trentini erano ancora molto chiusi, non abituati a convivere con quei giovani che contestavano e sovvertivano l’ordine. Ci fu ad esempio il famoso controquaresimale in Duomo di Paolo Sorbi. Ma chi avrebbe mai pensato prima di poter interloquire col prete sostenendo apertamente idee diverse?
La redazione de «L’Adige» era proprio di fronte all’università, dalla finestra noi si vedeva tutto, i cortei, i sit-in, parola che la gente non sapeva neanche cosa volesse dire. Strano poi che gli studenti facessero queste cose insieme agli operai, di notte entravano insieme a loro nelle aule e capivano un po’ di più le cose che prima non sapevano. Questo poteva diventare un pericolo.
L’ultima corriera era alle otto e se facevi tardi come facevi a tornare a casa? Renato Curcio aveva un maggiolino e mi portava su. Mia mamma mi chiedeva: «Chi el sto sior?»; «Mah è uno bravo, perché vorrebbe che tutte le persone fossero ugual». «Bè mi sembra interessante». Gli davamo un bicchiere di vino e andava via.
C’è stato il Sessantotto e il movimento femminista. Queste cose incidono sull’emancipazione, anche se non vuoi. C’è sempre qualcuno in famiglia che capisce più dell’altro, qualcuno che trascina. Mano a mano che la gente si emancipava, anche il numero dei componenti delle famiglie diminuiva. Negli anni Sessanta è arrivata anche la pillola: la si vendeva in farmacia, ma le donne cattoliche non potevano prenderla!

 ANNI SETTANTA 
 Io dubito 

La Provincia scommette tutto su un progetto di sviluppo tendente a garantire a tutta la popolazione trentina le maggiori opportunità di crescita economica, sociale e culturale.
Lo slogan è «creare l’effetto città in tutte le valli». Un bagaglio ricco di stimoli e di prospettive, premessa per i vasti spazi di autonomia legislativa e amministrativa che stanno aprendosi con il secondo Statuto di autonomia.
Negli anni Settanta c’è stata la prima caduta, ha cominciato a venire un po’ di crisi, si inizia a vedere che non si riesce più a vivere all’altezza del boom economico: bisognava stringere la cinghia.
La crisi economica e petrolifera nel 1973 ha segnato molto l’economia italiana e trentina: ha portato un fermo dell’economia, una situazione congiunturale molto difficile e delicata. Ad esempio, la domenica era vietato circolare con la macchina, poi hanno trovato la soluzione delle targhe alterne.
Personalmente l’avevo vissuta come una festa, però i motivi erano preoccupanti. Le domeniche di austerity la città senza auto era vuota; per me era una festa di godibilità della città e così come il risparmio sull’illuminazione.
Quando sono venuto a Trento da Varese, all’inizio degli anni Settanta, Trento era conciata male come città; era brutta, era sporca, era nera. Le case erano affumicate dalla fuliggine dei riscaldamenti e dal traffico.
C’era ancora bisogno di case. L’ITEA ha costruito il quartiere di «Madonna Bianca». C’era questa idea di fare case alte con molto spazio libero verde attorno. Costruire una casa di dieci-quattordici piani, costa molto meno: hanno costruito settecento appartamenti con il costo di quattrocentottanta.
La necessità di affrontare la protezione dell’ambiente ha trovato rispondenza da parte della Amministrazione provinciale, favorita dal graduale passaggio di competenze dalla Regione.
La Val Rendena ha un versante che ha un sedimento arenaceo con dei residui uraniferi, e hanno realizzato delle gallerie di ricerca e ispezione per vedere quant’era questo uranio. A un certo punto, hanno deciso di sfruttare il materiale. In questo modo avrebbero modificato la valle e, soprattutto avrebbero portato in superficie le radiazioni, cioè il Radon, che è un gas nocivo. Inoltre, dire che lì si cercava l’uranio, avrebbe avuto effetti disastrosi dal punto di vista del turismo.
La gente si è ribellata; hanno preso dei cesti (quelli per portare il letame), li hanno riempiti con i libretti verdi che la Provincia aveva sparso per tutta la valle per dire le ragioni per cui era utile questo lavoro, e li hanno riversati sul banco del Comune dove c’era la riunione. Alla fine non ne hanno più fatto niente. La gente si è ribellata.

Era il ’78. Tornavo da Arco e al Belvedere, sopra Trento, vedo la città a fuoco. Piove a dirotto. Un operaio mi dice: vara Bepi, ghè zo la Sloi che salta! È allagata, il piombo esplode!
La SLOI. Il sindaco che è stato capace di farla chiudere. È vero che portava lavoro, è vero che portava soldi ma gli operai andavano a lavorare con un atteggiamento sacrificale. Cioè «ne sacrifican per la famiglia, saven che alla Sloi se crepa però almen portan a casa do soldi».
Avevano il turno più breve «sei per sei» ed erano ben retribuiti, però quando andavo in mensa alla SLOI qualche volta, «mi sembra di arrivare in un manicomio». Il piombo dava alla testa, colpiva gli organi più deboli, a volte il fegato. Sono stati eroici quegli uomini della SLOI… rimetterci la vita pur di tirar su la famiglia!
Erano anni di grandi battaglie, per i consultori e l’educazione sessuale. A Cembra, la bibliotecaria aveva esposto, in biblioteca, l’enciclopedia sessuale della Mondadori. Il maestro lo aveva trovato sconveniente e scandaloso, perché nell’enciclopedia c’era anche l’anatomia. Ne è nato un caso giudiziario che ha fatto scalpore a livello nazionale. Tra le grandi battaglie, quella per il divorzio era una battaglia sociale per la famiglia con ricadute positive sulla donna, che non era tutelata.
Da una parte noi preti dovevamo predicare il Vangelo: «il matrimonio è indissolubile». Dall’altra parte c’era la legge che dice: non possiamo imporre il Vangelo a chi non crede al Vangelo. La laicità dello Stato era una parola che non c’era prima; la laicità dello Stato è di tutti e per tutti.
A Trento in occasione della cosiddetta legge del divorzio chi diceva che non si può imporre l’unità del matrimonio con i vigili urbani, né con la forza dello Stato, era visto un po’ spregiudicato, eretico. Nella nostra esperienza dei gruppi della Pastorale del lavoro e delle ACLI è stato uno dei temi che ha creato qualche problema; e noi preti dovevamo barcamenarci.
Non c’erano tutele. Ti costringevano a licenziarti. Volevano licenziare anche mia cognata quando è rimasta incinta. Era appena uscita, però, questa legge che tutelava le donne – e mentre le altre se ne andavano, lei si è opposta al licenziamento.
La legge 194, sull’interruzione volontaria di gravidanza ha sollevato dibattiti e questioni. È stata una battaglia difficilissima e lacerante, perché entrava in campi che sono assolutamente personali, ma infine ha prevalso la libertà di scelta, pur sempre sofferta.
Soffiava un vento diverso. Le donne si riunivano, parlavano di diritti, formavano cortei e giravano per le strade urlando: «L’utero è mio e lo gestisco io». Uno choc. Parole nuove come veicolo di idee nuove. «Ecologia», per esempio, bandiera di comportamenti che mettevano al centro il rispetto dell’ambiente.
Gli anni Settanta, con le leggi sul divorzio e sull’aborto, sono stati vissuti dalle donne come un periodo di grande conquista.

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