Il 6 luglio 1945 fu consumato l'eccidio di Schio
La guerra era finita da un mese, ma i partigiani trucidarono per rappresaglia 54 persone, tra cui 14 donne, la più giovane aveva 16 anni
La Biblioteca Civica R. Bortoli, i cui locali nel 1945 ospitavano tribunale e carceri, teatro dell'eccidio.
L'eccidio di Schio è il massacro compiuto nella notte tra il 6 e il 7 luglio 1945 (due mesi dopo la fine della guerra) a Schio da un gruppo formato da ex partigiani della Divisione garibaldina Ateo Garemi e agenti della Polizia ausiliaria partigiana, istituita alla fine della guerra e composta da ex partigiani. |
Il contesto
Schio, nella provincia di Vicenza, aveva pagato cara l'opposizione al fascismo da parte di molti suoi abitanti durante la seconda guerra mondiale.
In quella zona, gli occupanti nazisti e i loro alleati fedeli a Mussolini repressero l'antifascismo in modo particolarmente feroce.
Inoltre, la zona divenne un punto di raccolta di truppe tedesche verso la fine del conflitto, provocando fortissime tensioni con la popolazione ed innumerevoli violenze.
Il 14 aprile 1945, le Brigate Nere arrestarono il partigiano scledense [abitante di Schio – NdR] Giacomo Bogotto, lo torturarono, gli cavarono gli occhi e forse lo seppellirono ancora vivo.
La sua salma fu quindi riesumata il giorno dopo la Liberazione di Schio, il 30 aprile, davanti agli occhi di una popolazione sconvolta ed inferocita.
A maggio arrivarono le notizie della strage di Pedescala (Altipiano di Asiago): 82 civili innocenti uccisi dai tedeschi in ritirata, come rappresaglia di un attacco effettuato dai partigiani mentre i tedeschi fuggivano. Gli abitanti della zona tentarono di farsi giustizia da soli e solo l'intervento del comando alleato limitò le vittime fasciste a pochi individui.
Il 27 giugno William Pierdicchi, unico sopravvissuto dei 14 antifascisti di Schio deportati a Mauthausen-Gusen e Dachau a causa delle delazioni degli aderenti scledensi alla Repubblica Sociale Italiana, rientrò in città in uno stato miserabile, ridotto al peso di 38 chili, suscitando un forte moto di rabbia popolare: il giorno dopo un'enorme folla si radunò nella piazza principale del paese chiedendo giustizia.
Vi erano nel carcere mandamentale di Schio persone fermate per indagini su eventuali loro corresponsabilità col regime fascista e con la RSI o per testimoniare nelle indagini in corso.
Il capitano Chambers, responsabile alleato dell'ordine cittadino, accese ulteriormente gli animi annunciando che, se non fossero state presentate denunce circostanziate entro cinque giorni, le persone arrestate senza denuncia sarebbero state liberate.
In questo clima maturò l'eccidio del 6 luglio.
La situazione politico-militare
Nella zona di Schio durante la Resistenza era stata attivata la Divisione Garibaldi Ateo Garemi, di orientamento prevalentemente comunista.
Alla fine della guerra le formazioni partigiane ebbero l'ordine di consegnare le armi e di smobilitare: la maggior parte dei partigiani eseguirono l'ordine, ma alcuni di essi, che avevano lottato non solo per cacciare lo straniero, ma anche per arrivare a un nuovo ordine sociale, mostrarono molta reticenza.
A Schio nel maggio del 1945 il potere civile era tenuto dal locale CLN e dal nuovo consiglio comunale da esso nominato: sindaco era il comunista Domenico Baron.
Il potere militare era detenuto dall'esercito alleato, da reparti dell'esercito Italiano, da pochi Carabinieri della locale stazione e da uomini delle ex-Brigate Garibaldi ingaggiati nella Polizia ausiliaria partigiana per il mantenimento dell'ordine pubblico.
L'eccidio
Un reparto di partigiani della brigata garibaldina, comandato da Igino Piva e Valentino Bortoloso (nomi di battaglia Romero e Teppa), irruppe nella notte del 6 luglio nel carcere mandamentale della città: non disponendo di elenchi di fascisti, li cercarono ma, non avendoli trovati, le vittime furono scelte tra i 99 detenuti del carcere.
Tra questi, solo 8 erano stati indicati al momento dell'arresto come detenuti comuni, mentre 91 erano stati incarcerati come politici di possibile parte fascista, sebbene non tutti fossero ugualmente compromessi con il fascismo e in molti casi forse fossero stati arrestati per errore.
Erano infatti ancora in corso gli accertamenti delle posizioni individuali: per alcuni era già stata accertata l'estraneità alle accuse ed era altresì programmata la scarcerazione, non avvenuta per lentezze burocratiche.
Gli 8 detenuti comuni vennero subito esclusi dalla lista, insieme a 2 detenute politiche non riconosciute come tali in quanto stavano pulendo le scale.
Dopo un'approssimativa cernita, che suscitò contrasti tra gli stessi fucilatori, alcuni proposero che fossero risparmiate almeno le donne, che in genere non erano state arrestate per responsabilità personale ma solo fermate per legami personali con fascisti o per indurle a testimoniare nell'inchiesta in corso.
Teppa si oppose dicendo: «Gli ordini sono ordini e vanno eseguiti», ma non disse da chi provenivano gli ordini (e non fu mai accertato, nonostante un processo apposito nel 1956).
Dopo un'ora di incertezza, mentre alcuni partigiani non convinti si allontanarono, vennero uccise a colpi di mitraglia 54 persone, tra cui 14 donne (la più giovane di 16 anni), e ne vennero ferite numerose altre.
Alcuni detenuti, coperti dai corpi dei caduti, si salvarono indenni.
Quando giunsero, i soccorritori trovarono il sangue che colava sulla scala e sul cortile, arrivando fin sulla strada.
Un primo gruppo di barellieri fu respinto e minacciato e solo successivamente i feriti furono trasportati all'ospedale.
Anche qui medici, ed infermieri, dediti alla cura dei sopravvissuti feriti subirono minacce.
Dopo l'eccidio
L'evento ebbe grande risonanza non solo nazionale ma anche internazionale, perché venne utilizzato per dimostrare il pericolo costituito dal persistere di formazioni solo nominalmente dipendenti dal CLN.
Su pressione delle autorità di occupazione alleate venne aperta un'inchiesta e nel processo postumo del 1952 risultò che, tra le persone colpite, 27 erano componenti del Partito Fascista.
Tuttavia l'azione degli ex-partigiani riscosse un certo sostegno nel paese in quanto molti temevano, dopo il discorso di Chambers, che senza l'esecuzione sommaria quelli tra loro che avessero avuto responsabilità fasciste avrebbero facilmente guadagnato l'impunità.
«Si può dire che la causa antifascista era più giusta perché si opponeva a un regime fascista che si era affermato con la violenza, l'oppressione e la soppressione dei diritti dell'individuo [...] Ma l'episodio di Schio è avvenuto al di fuori del periodo di guerra, quando uccidere era diventato inaccettabile.
«Questo era un atto fuori legge e fuori dalle regole, portato a termine dai partigiani in aperta sfida anche ai loro stessi superiori.»
[«Sarah Morgan Rappresaglie dopo la Resistenza. L'eccidio di Schio tra guerra civile e guerra fredda» - NdR]
Resta da notare, peraltro, che all'indomani dell'evento le organizzazioni partigiane, la Camera del Lavoro e il Partito Comunista Italiano condannarono l'accaduto in quanto la guerra era già finita da nove settimane e si sarebbe dovuto attendere l'inchiesta sulle responsabilità individuali delle persone arrestate.
I tre processi
Il processo militare alleato
Il governo militare alleato, nella persona del generale Dunlop governatore militare del Veneto, affidò le indagini agli investigatori John Valentino e Therton Snyder.
Lo stesso generale così condannò con parole dure l'eccidio l’8 luglio 1945 al Municipio di Schio:
«Sono qui venuto per una incresciosa missione, per un anno e mezzo ho lavorato per il bene dell’Italia, la mia opera e la mia amicizia sono state, io lo so, riconosciute e apprezzate, è mio dovere dirvi che mai prima d’ora il nome dell’Italia è caduto tanto in basso nella mia stima, non è libertà, non è civiltà che delle donne vengano allineate contro un muro e colpite al ventre con raffiche di armi automatiche e a bruciapelo.
«Io prometto severa e rapida giustizia verso i delinquenti, confido che il rimorso di questo turpe delitto li tormenterà in eterno e che in giorni migliori la città di Schio ricorderà con vergogna e orrore questa spaventosa notte e con ciò ho detto tutto»
In due mesi di indagini Valentino e Snyder identificarono quindici dei presunti autori della strage, di cui otto ripararono in Jugoslavia prima dell'arresto e sette vennero arrestati.
Il processo istituito dalle autorità militari alleate si svolse nell'autunno del 1945.
La Corte militare alleata, presieduta dal colonnello statunitense Beherens, assolse due degli imputati presenti e condannò gli altri cinque, tre di essi furono condannati a morte, due furono condannati all'ergastolo, altri tre imputati furono condannati in contumacia a ventiquattro e a dodici anni di reclusione.
Le condanne a morte verranno commutate nel carcere a vita dal capo del governo militare alleato, il contrammiraglio Ellery Stone.
Le condanne emesse
- Valentino Bortoloso, condannato a morte.
- Renzo Franceschini, condannato a morte.
- Antonio Fochesato, condannato a morte.
- Gaetano Canova, condannato all'ergastolo.
- Aldo Santacaterina, condannato all'ergastolo.
La pena effettivamente scontata dai cinque condannati presenti al processo fu tra i 10 e i 12 anni.
Il processo penale italiano
Altri autori dell'eccidio furono individuati successivamente e fu istruito un secondo processo, condotto da una corte italiana.
Il secondo processo si tenne a Milano e la sentenza fu emessa dalla Corte d'Assise di Milano, il 13 novembre del 1952, con otto condanne all'ergastolo.
Tuttavia uno solo sarà presente, gli altri sette erano fuggiti nei paesi dell'est dove trovarono protezione (come molti altri autori di stragi): Ruggero Maltauro, estradato dalla Jugoslavia dopo la rottura con il Comintern, condannato all'ergastolo, ma che in seguito godrà di uno sconto della pena.
Il terzo processo
Nel 1956, undici anni dopo l'eccidio, si tenne a Vicenza un terzo processo.
Erano da accertare due fatti, le eventuali responsabilità del ritardo a dare esecuzione all'ordine di scarcerazione di una parte dei detenuti, emesso a Vicenza e trasmesso per competenza a Schio ma non eseguito, e l'individuazione della catena gerarchica da cui era partito l'ordine di eseguire la strage.
Si trattava di individuare eventuali responsabilità nel ritardo dell'esecuzione dell'ordine di scarcerazione, ritardo costato la vita a varie persone, e individuare i mandanti della strage, indicati dal Maltauro, alla corte d'Assise di Vicenza.
Erano imputati Pietro Bolognesi, segretario comunale e Gastone Sterchele, ex vicecomandante della Brigata Garibaldi Martiri della Val Leogra.
Sterchele fu assolto con formula piena, Bolognesi per insufficienza di prove; in appello fu anch'egli assolto per non aver commesso il fatto.
L'atteggiamento del PCI
L'Unità aveva definito i responsabili dell'eccidio «provocatori trotskisti». In realtà, i partigiani che avevano condotto l'eccidio al carcere di Schio erano legati al Partito Comunista e alle ex-Brigate Garibaldi.
Tre di loro, sfuggiti alle indagini, si recarono a Roma al Ministero di Grazia e Giustizia per conferire con Palmiro Togliatti, che all'epoca guidava il dicastero della Giustizia, dal quale dipendeva il carcere di Schio, che inoltre era nello stesso tempo segretario del PCI.
Li ricevette in via Arenula, allora sede del Ministero, il segretario del Ministro, Massimo Caprara.
Il Ministro della Giustizia incaricò la Direzione del partito di provvedere e su richiesta della direzione del partito i tre partigiani, coautori dell'eccidio, vennero aiutati dall'organizzazione del PCI a rifugiarsi a Praga.
Durante una visita nella capitale cecoslovacca di Togliatti e Caprara, essi ebbero un incontro casuale e ringraziarono per averli aiutati.
Di questo episodio Caprara, che materialmente accolse e trattò con gli omicidi per conto del ministro Togliatti, fece una dettagliata descrizione in un suo famoso libro.
Nel 1946 fu approvata la cosiddetta amnistia Togliatti, di cui beneficiarono migliaia di fascisti e collaborazionisti, ma anche partigiani autori di eccidi e di moltissimi altri casi simili di giustizia sommaria.
Le commemorazioni
Recentemente il fatto di sangue è stato riportato alla ribalta dai libri di Giampaolo Pansa sulla Resistenza e di Massimo Caprara, nonché dell'antropologa Sarah Morgan e dagli storici locali, Simini, Valente e De Grandis.
Questo fatto di sangue è stato commemorato per decenni quasi esclusivamente dalle famiglie delle vittime finché, dopo un percorso complesso di riavvicinamento, nel 2005 è stata firmata una «Dichiarazione sui valori della concordia civica» tra il sindaco di Schio, Luigi Dalla Via, i rappresentanti del «Comitato familiari delle vittime dell'Eccidio di Schio» e i rappresentanti dell'ANPI e dell'AVL.
A parte i familiari delle vittime, costituiti dapprima in comitato e ora in associazione, sono stati già da tempo presenti con proprie manifestazioni gruppi della destra neofascista che ricordano l'eccidio con un corteo nella cittadina, fatto che suscita sempre notevoli polemiche da parte dell'ANPI e di numerosi cittadini, partiti e movimenti democratici e della sinistra, nonché, dopo il 2005, in modo espresso più o meno marcato, da parte del Comune di Schio.
Nel 2016 l'ANPI ha incluso Valentino Bortoloso (peraltro già decorato in precedenza dal Presidente della Repubblica Pertini) nella lista dei partigiani meritevoli della Medaglia della Liberazione, assegnatagli quindi in prima istanza e successivamente revocatagli dal Ministero della Difesa, su impulso dell'associazione parenti e richiesta dell'attuale sindaco.
Uno dei parenti, Anna Vescovi, figlia del Commissario prefettizio Giulio assassinato nell'Eccidio, ha tuttavia meditatamente provveduto a ricostruire un percorso di avvicinamento personale e familiare che si è poi concluso col suo perdono del partigiano e la sottoscrizione da parte di entrambi di una lettera aperta di riconciliazione nella e per la pace: il documento è stato solennemente firmato davanti al vescovo di Vicenza il 3 febbraio 2017, nel consapevole e dichiarato solco tracciato dalla fondamentale «Dichiarazione» del 2005, meglio nota come «Patto di Concordia civica».
Commenti (1 inviato)
Morti sul posto
Teresa Amadio, anni 41, operaia tessile.
Teresa Arcaro, anni 45, operaia tessile.
Dr. Michele Arlotta,anni 62, Primario dell’ospedale di Schio.
Irma Baldi, anni 20, casalinga.
Quinta Bernardi, anni 28, operaia tessile.
Umberto Bettini, anni 40, impiegato.
Giuseppe Bicci, anni 20, impiegato.
Ettore Calvi, anni 45, tipografo.
Livio Ceccato, anni 37, impiegato.
Maria Dal Collo, anni 56, casalinga.
Irma Dal Cucco, anni 19, casalinga.
Anna Dal Dosso, anni 19, operaia.
Antonio Dal Santo, anni 47, operaio.
Francesco De Lai, o Dellai Francesco, anni 42, operaio tessile.
Settimio Fadin, anni 49, commerciante.
Mario Faggion, anni 27, autista.
Severino Fasson, anni 20, calzolaio.
Fernanda Franchini, anni 39, casalinga.
Silvio Govoni, anni 55, im piegato.
Adone Lovise, anni 40, impiegato.
Angela Irma Lovise, anni 44, casalinga.
Blandina Lovise, anni 33, impiegata.
Lidia Magnabosco, anni 18, casalinga.
Roberto Mantovani, anni 44, segretario comunale.
Isidoro Dorino Marchioro, anni 35, commerciante.
Alfredo Menegardi, anni .., capostazione.
Egidio Miazzon, anni 44, impiegato
Giambattista Mignani, anni .. , capitano di fanteria.
Luigi Nardello, anni 35, cuoco.
Giovanna Pangrazio, anni 31, impiegata.
Alfredo Perazzolo, anni 29, meccanico.
Vito Ponzo, anni 58, commerciante.
Giuseppe Pozzolo, anni 46, impiegato.
Giselda Rinacchia, anni 25, operaia.
Ruggero Rizzoli, anni 51, maggiore.
Leonetto Rossi, anni 20, studente, milite della stradale.
Antonio Sella, anni 60, farmacista.
Antonio Slivar, anni 65, pensionato.
Luigi Spinato, anni 36, portiere.
Giuseppe Stefani, anni 63, impresario.
Elisa Stella, anni 68, casalinga.
Carlo Tadiello, anni 22, studente, ufficiale GNR.
Sante Tommasi, ani 53, impiegato.
Luigi Tonti, anni 48, commerciante.
Francesco Trentin, anni 53, invalido, operaio tessile.
Ultimo Ziliotto, anni 38, impiegato.
Oddone Zinzolini, anni 40, rappresentante.
[modifica]Deceduti nei giorni successivi per le ferite riportate
Giovanni Baù, anni 24, commerciante.
Settima Bernardi, anni 21, operaia.
Arturo De Munari, anni 43, tessitore.
Giuseppe Fistarol, anni 47, maggiore genio.
Mario Plebani, anni 49, commerciante.
Carlo Sandonà, anni oltre 70, pensionato ex-barbiere
Dr.Giulio Vescovi (ex commissario prefettizio fascista).
Sopravvissuti
17 sono stati feriti ma non uccisi:
Luigi Bigon, anni 42, rappresentante.
Antonio Borghesan, anni 19, elettricista.
Giuseppe Cortiana,
Maria Dall’Alba, anni 23, casalinga.
Anselmo Dal Zotto,
Guido Facchini,
Giuseppe Faggion,
Mario Fantini,
Anna Maria Franco di anni 16,
Emilia Gavasso, anni 49.
Carlo Gentilini, anni 38, ingegnere.
Emilio Ghezzo,
Olga Pavesi, anni 42, casalinga.
Calcedonio Pillitteri,
Arturo Perin,
Rino Tadiello,
Rosa Tisato.
13 restarono illesi:
Giovanni Alcaro,
Bruno Busato,
Pietro Calgaro,
Diego Capozzo (ex vicecommissario prefettizio fascista),
Augusto Cecchin,
Alessandro Federle,
Vittorio Federle,
Agostino Micheletto,
Umberto Perazzolo,
Caterina Sartori,
Ferrj Slivar,
Alfredo Tommasi,
Basilio Trombetta.
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