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A 70 anni dall’alluvione del Polesine del novembre 1951

Fu un evento catastrofico che colpì gran parte della provincia di Rovigo e parte della provincia di Venezia, causando circa cento vittime e più di 180.000 senzatetto

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Come chiave di lettura di ciò che accadde 70 anni fa nel Polesine è bene ricordare che la Seconda guerra mondiale era finita da soli sei anni e lo Stato non era ancora in grado di far fronte a eventi eccezionali come quelli che accaddero in quel lontano mese di novembre 2021.
E l’evento fu davvero eccezionale.
Durante le due settimane precedenti all'alluvione, si verificarono intense precipitazioni distribuite su tutto il bacino imbrifero del fiume Po. Tali precipitazioni, pur non raggiungendo nelle singole aree del bacino i picchi massimi di intensità storici, furono caratterizzate da un'anomala continuità temporale e distribuzione spaziale: infatti, non vi fu praticamente soluzione di continuità per l'intero periodo e l'intero territorio del bacino imbrifero ne fu interessato.
Inoltre, la distribuzione spazio-temporale delle precipitazioni fu tale da determinare la sovrapposizione dell'onda di piena dell'asta principale a quelle dei singoli affluenti alle rispettive confluenze.

Tale fattore costituisce più di ogni altro la causa delle anomale condizioni idrauliche in cui è venuto a trovarsi il fiume Po in occasione del disastroso evento.
Il verificarsi di tale improbabile circostanza fece sì che l'onda di piena si incrementasse progressivamente, scendendo da monte verso valle, in corrispondenza di ogni singola immissione dei numerosi affluenti, tanto alpini che appenninici.
Il risultato è stato quello di un insostenibile carico idraulico abbattutosi sui tronchi terminali dell'asta principale del fiume Po, con un interessamento particolarmente grave delle province di Mantova, Ferrara e Rovigo.
Mentre nei giorni del 12, 13 e nelle prime ore del 14 novembre l'onda di piena transitava nel mantovano senza il verificarsi di irreparabili esondazioni grazie anche alla tempestiva e massiccia realizzazione di interventi di contenimento, durante il passaggio della stessa tra le province di Ferrara, a sud, e Rovigo, a nord, avvenne l'irreparabile disastro.
 

 
Altro aspetto che spiega il disastro è legato alla mancanza totale della preallerta che sarebbe servita alle altre amministrazioni coinvolte, in primis quelle comunali rivierasche, a mobilitare uomini e mezzi per far fronte all'evento.
L'onda di piena infatti, pur rivelandosi subito di entità considerevole, non appariva, dai dati idrometrici provenienti dalle stazioni di misura a monte, di carattere straordinario e sicuramente non fece presagire ciò che poi, nei fatti, si verificò.
Tale mancata previsione, comunque grave in relazione alla drammaticità della situazione venuta a crearsi nei giorni immediatamente precedenti all'alluvione nel mantovano, fu anche figlia dei tempi per la carenza dei mezzi di comunicazione. I telefoni erano rari e appannaggio quasi esclusivo degli uffici governativi, ma soprattutto per la pressoché totale assenza dei mezzi di informazione di massa “in tempo reale”: esisteva solo la radio e non tutte le famiglie la possedevano-
Tutto questo ingenerò un ritardo nella reazione di tutte le altre istituzioni coinvolte e del territorio in genere che si rivelò incolmabile, con la conseguenza che si poté poi unicamente rincorrere gli eventi.
 
Già nelle prime ore del giorno 14 novembre, il colmo di piena iniziava ad interessare l'Alto Polesine. Gli abitanti di Melara, Bergantino, Castelnovo Bariano, Castelmassa, Calto e degli altri centri rivieraschi iniziavano una corsa contro il tempo nel tentativo di contenere le acque del fiume all'interno dei propri argini.
Guidate dai propri sindaci in prima persona, sotto il coordinamento di tecnici locali, queste popolazioni intrapresero un'immane opera di sovralzo delle sommità arginali mediante la costruzione di coronelle e soprassogli.
Solo lo spirito di abnegazione e la consapevolezza che dalla riuscita o meno dei loro sforzi dipendevano le sorti del territorio, comprese quelle delle loro stesse case e terreni, ha fatto sì che il livello delle acque fosse contenuto dalle suddette opere tumultuarie.


 
Vi era di fatto carenza di uomini, materiali (con grande penuria dei sacchi necessari per il riempimento in terra e la formazione dei rialzi arginali) e di mezzi, in quanto non vi era ovviamente disponibilità di mezzi meccanici quali escavatori, bulldozer e autocarri e si operava con semplici attrezzi manuali, spesso portati da casa.
Cosa ancor più grave fu la totale mancanza di un'organizzazione sovraordinata in grado di prevedere l'evento e organizzare le risposte adatte gestendo con razionalità la realizzazione delle opere necessarie.
Altra circostanza sfavorevole fu la presenza dei forti venti di scirocco che soffiavano quel tragico 14 novembre determinando l'innalzamento del livello di marea nell'Adriatico settentrionale, con la registrazione a Venezia, alle ore 8:05 del 12 novembre 1951, di +151 cm sul livello del medio mare, riducendo così la capacità di ricezione di quest'ultimo e quindi la velocità di deflusso del fiume verso il mare.
 
Nel corso della mattinata di quel tragico giorno 14 novembre 1951, in più tratti dell'argine sinistro del fiume Po, quelli a quota depressa, iniziarono le tracimazioni.
Mentre alcune di esse poterono essere contenute grazie ai lavori tumultuari attuati dai volontari e dai cooptati, per altre il tentativo di contenimento, per l'estensione dei tratti interessati a fronte della scarsità di uomini disponibili, si rivelò ben presto disperato.
In più, si dovette riscontrare, complice la falsa notizia di una rotta a Bergantino oltre all'immaginabile paura e al panico prodotti dall'inizio dei sormonti, l'abbandono pressoché totale dei lavori di sopralzo arginale sulla tratta Occhiobello-Canaro.
Giunti a questo punto, il tragico evolversi degli eventi era segnato: le acque tracimate, stramazzando lungo il corpo arginale, ne determinarono ben presto l'erosione sino al suo totale sfondamento.
 

 
Alle ore 19:45 del 14 novembre, l'argine maestro del fiume Po ruppe a Vallone di Paviole, in Comune di Canaro.
Alle ore 20:00 si verificò una seconda rotta in località Bosco in comune di Occhiobello.
La terza falla si produsse poco più tardi, alle ore 20:15 circa, in località Malcantone dello stesso comune.
La massa d'acqua che si riversò con furia sconvolgente sulle terre del Polesine fu immane.
Si calcola che la portata complessiva delle rotte sia stata dell'ordine dei 7.000 m³/s  a fronte di una portata massima complessiva del fiume stimata in quell'occasione in circa 12.800 m³/s.
In pratica, circa 2/3 della portata fluente, anziché proseguire la sua corsa verso il mare entro gli argini del fiume, si riversò sulle campagne e sui paesi.
Come peculiare effetto di ciò si produsse, immediatamente dopo le rotte, un repentino decremento del livello idrometrico del fiume, riscontrato nelle stazioni di misura a monte e a valle con l’effetto di svuotamento.
 
Ebbe quindi inizio una catastrofe di enormi proporzioni le cui ripercussioni si riflettono sino ai nostri giorni, segnando per sempre la storia del Polesine.
Fu essa infatti, per estensione delle terre allagate e per volumi d'acqua esondati, la più grande alluvione a colpire l'Italia in epoca contemporanea.
Ben conscio di ciò, l'allora Ingegnere Capo del Genio Civile di Rovigo, ing. Mario Sbrana, si attivò immediatamente presso il Prefetto al fine di segnalare la necessità dell'apertura di idonei varchi sugli argini della Fossa Polesella che si opponevano, come primo ostacolo, al libero deflusso delle acque verso il mare.


 
La Fossa Polesella era un corso d'acqua che metteva allora in comunicazione, ai fini della navigazione, il fiume Po dall'abitato di Polesella con il Canalbianco all'altezza di Bosaro.
Il Prefetto, Umberto Mondio, insediatosi a Rovigo da pochi giorni, in arrivo da una città del sud e quindi proiettato in un contesto e in una situazione del tutto particolari e a lui sconosciuti, di fronte alla richiesta del dirigente del Genio Civile di «far saltare» la Fossa Polesella con l'uso di cariche esplosive, tergiversò.
Il responsabile del Genio Civile, consapevole dell'urgenza di dare esecuzione a tale operazione e conoscendone la difficoltà pratica, chiese addirittura l'immediato bombardamento di quell'ostacolo da parte dell'aviazione.
L'operazione, per l'opposizione del Prefetto e degli abitanti dell’area da sacrificare, non fu attuata.
 
Il trascorrere del tempo in assenza del necessario taglio si rivelò quindi non solo inutile bensì gravemente dannoso.
Le acque di esondazione infatti, non trovando alcuno sfogo verso il mare, furono costrette a rincollare verso monte raggiungendo località quali Castelnovo Bariano, Bergantino, Castelmassa, Salara ed altre dell'Alto Polesine che sarebbero restate invece immuni dagli effetti della rotta.
Il livello delle acque esondate, confinate nel bacino determinato dall'argine sinistro del Po, da quello destro del Canalbianco e da quello occidentale della Fossa, sotto il continuo apporto delle rotte, non poté che aumentare sino a sormontare naturalmente quest'ultimo e a riversarsi comunque all'interno del suo alveo.

Questo le convogliò con furia inusitata verso il Canalbianco il quale, a causa dell'allora esistente sostegno di Bosaro, non fu in grado di farle defluire a valle con la necessaria rapidità.
Il rigurgito dell'onda di deflusso si proiettò quindi verso monte sino a raggiungere il vicino ponte ferroviario di Arquà Polesine, sulla linea Padova - Bologna, di cui erose il contornamento delle testate rompendo l'argine di sinistra.
Ciò aprì la strada alle acque verso Rovigo, centro naturalmente preposto alla gestione dell'emergenza e quartier generale di tutte le attività di coordinamento dei soccorsi, distribuzione degli aiuti e smistamento dei profughi.
Ultimo baluardo a difesa del centro di Rovigo si rivelò l'Adigetto, traslato solo 15 anni prima dall'asse mediano della città alla circonvallazione ovest.
 

 
Le tre bocche di rotta misuravano, ad evento concluso, 220 m quella di Vallone di Paviole, 204 m quella in località Bosco e 312 m quella di Malcantone.
Esse sono state attive dal giorno 14 novembre al 20 dicembre 1951, cioè per complessivi giorni 37.
La loro portata complessiva è passata dagli iniziali 7.200 m³/s. ai circa 1.500 m³/s. degli ultimi giorni di attività. È da far notare che il giorno 27 novembre, a ben due settimane dalle rotte, la loro portata era ancora di oltre 3.200 m³/s.
Il volume d'acqua complessivamente effluito dalle rotte è stato pari a 8 × 10? m³, ovvero otto miliardi di metri cubi. Il massimo volume invasato sul suolo polesano, quello cioè accumulatosi sul territorio dal momento della rotta a quello dell'inizio dello scarico a mare, verificato il 21 novembre alle ore 13.26, è stato calcolato in 3,128 × 10? m³, cioè tre miliardi e 128 milioni di metri cubi.
La superficie allagata è stata di oltre 100.000 ha, pari a circa il 52% del territorio dell'intero Polesine, compreso il Cavarzerano (VE).
 
Il numero delle vittime umane è stato di circa cento, ben 89 delle quali nel solo episodio del cosiddetto «Camion della morte» che vide l'automezzo carico di fuggiaschi sorpreso dall'inondazione la notte del 14 novembre a Frassinelle.
Il numero dei profughi costretti a lasciare le proprie abitazioni fu compreso tra 180.000 e 190.000 unità.
Andarono perduti 6.000 capi di bestiame bovino.
Incalcolabile il numero degli altri animali d'allevamento deceduti.
Dal 1951 al 1961 lasciarono in modo definitivo il Polesine 80.183 abitanti, con un calo medio della popolazione del 22%.
Al 2001 abbandonarono il Polesine oltre 110.000 persone. In molti comuni il calo superò, dal 1951 al 1981, il 50% della popolazione residente.
 
La solidarietà spontanea della popolazione fu immediata e imponente, sia nazionale che internazionale.
È in realtà evidente come, anche sul piano degli aiuti alla popolazione, si innescò una contrapposizione di carattere politico-ideologico: gli aiuti attivati dal Comitato per l'Emergenza avevano alla spalle la macchina organizzativa afferente al Partito comunista italiano, alle Camere del lavoro e alle principali organizzazioni sindacali. Quelli governativi rappresentarono invece la capacità di reazione e intervento della Democrazia Cristiana, strettamente fiancheggiata dalle ACLI e dall'associazionismo cattolico in genere.
Per meglio comprendere quelle che sono state le immediate e secondarie conseguenze dell'alluvione del 1951 sui territori colpiti è necessario contestualizzare l'evento.


Sacrario di San Lorenzo, Passo, Frassinelle Polesine.
 
Esso infatti si verificò a soli sei anni dalla fine del sanguinoso secondo conflitto mondiale che aveva visto l'Italia soccombente e aveva lasciato il Paese in condizioni di grande indigenza e distruzione.
Il clima politico era estremamente conflittuale, con una fortissima contrapposizione tra DC, che all'epoca guidava il Governo centrale, e PCI che, insieme ad altre forze di sinistra, governava il Polesine e la maggioranza dei Comuni rivieraschi del Po.
Un clima che avrebbe potuto favorire, come in certe questioni favorì, la speculazione politica fine a sé stessa, compromettendo il buon esito degli sforzi congiunti necessari ad affrontare la crisi prodotta dall'alluvione e a risollevare le sorti delle terre colpite.
La querelle sul mancato tempestivo taglio della Fossa Polesella potrebbe essere portato come esempio dei gravi effetti negativi prodotti da questa dura contrapposizione politica.
 
Il Polesine, inoltre, come terra prevalentemente agricola, risentì in modo ancor più grave della inevitabile carestia prodotta dall'inaccessibilità delle terre allagate.
Se le conseguenze a breve poterono essere affrontate con buon esito grazie alla rapidità con la quale si rimise a coltura la maggior parte delle terre e all'abbondanza degli aiuti giunti da tutta Italia, ma anche dall'estero, quelle a lungo termine furono forse più pesanti.
Moltissime delle famiglie polesane sfollate in seguito all'Alluvione del 1951 non fecero più ritorno. Complice una riforma agraria non ancora del tutto dispiegata, specie nel basso polesine, con il perdurare di ampie aree ancora a latifondo e una scarsa distribuzione della proprietà agraria, pochi polesani emigrati a seguito dell'Alluvione del 1951 trovarono un valido motivo per fare ritorno alle proprie terre d'origine.
 
Altro fattore fondamentale nel processo di spopolamento che ha interessato il Polesine a seguito dell'alluvione fu senza dubbio il rapido processo in meccanizzazione che in quegli anni investiva il settore agricolo.
In una provincia come quella di Rovigo, dove la percentuale della popolazione ancora impiegata in agricoltura era molto alta e il bracciantato molto diffuso, la brusca riduzione del fabbisogno di manodopera in questo settore dovuta all'avvento della meccanizzazione fu particolarmente impattante sul piano economico e sociale.


 
La curva dell'andamento demografico del Polesine vide nel 1951 il punto massimo, con l'inversione del trend positivo che l'aveva caratterizzata nel lungo periodo precedente.
Solo nel decennio 1951 – 1961 la popolazione del Polesine si ridusse di oltre 80.000 unità. Lo spopolamento del Polesine, iniziato nel 1951, si è protratto sino ai nostri giorni e solo dal 2001, per la prima volta dopo il 1951, la popolazione polesana ha visto un incremento numerico.
Più esattamente, la popolazione della Provincia di Rovigo nel censimento del 1951 risultava pari a 357.963 unità a fronte delle sole 242.538 presenti nel 2001, con un decremento complessivo del 32%.
Circa un abitante su tre lasciò il Polesine dopo l'inondazione anche se non esclusivamente a causa di questa.
Nel 2007 la popolazione residente era pari a 246.255, con il primo aumento registrato in 50 anni.
 
Anche la vulnerabilità idraulica di questo estremo lembo di Pianura Padana è stato e forse è tuttora ostacolo, ancor più sul piano psicologico che su quello reale, al ripopolamento, all'attrazione di investimenti e al rilancio economico di questi territori che, va ricordato, appartengono pur sempre al Veneto, regione trainante del ricco Nordest.
Solo oggi, con il cessare dell'emorragia migratoria e la timida diversificazione economica dal settore primario, con la nascita di alcune realtà produttive nel settore della piccola industria, dei servizi e del turismo, il Polesine sembra in grado di affrancarsi definitivamente da un cinquantennio profondamente segnato dall'Alluvione del 1951 e dalle sue conseguenze.
 
Si ringrazia Wikipedia per i dati, i nomi e soprattutto per le foto.

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