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Dal manicomio di Pergine a Zwiefalten – Terzo Reich, 1940

Oggi 26 maggio, ciascuno di noi dedichi un pensiero e una carezza a quelle 299 persone che 80 anni fa vennero deportate in Germania perché malate i mente

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 PREMESSA 
La storia che stiamo per raccontare nasce da un odioso accordo che Mussolini strinse con Hitler, col quale aveva deciso di sciogliere il problema degli altoatesini di madre lingua tedesca esattamente come Alessandro Magno aveva fatto con il nodo gordiano: un taglio netto.
In virtù di tale accordo, aveva costretto i cittadini della provincia di Bolzano a scegliere una volta per tutte. O restare in Alto Adige (Da Bleiber) rinunciando alla lingua tedesca, o in alternativa optare (Optanti) per la lingua tedesca a patto di lasciare l’Italia e andarsene in Germania ad assumere la cittadinanza del Terzo Reich.
L’Austria non era ancora stata annessa, per cui l’accordo valeva appunto per la sola Germania.
 
Fino a quel momento, i malati di mente della regione (anche quelli semplicemente depressi) venivano ricoverati all’ospedale psichiatrico di Pergine, in quanto cittadini italiani.
Da allora in poi, anche i parenti degli Optanti ospitati nel manicomio trentino dovettero lasciare l’Italia per essere ospitati in analoghe strutture della Germania.
Trattandosi di persone incapaci di intendere e volere, avevano bisogno di un tutore legale che fosse titolato a decidere per loro se restare o andarsene. Le autorità competenti tuttavia, o per comodità o per cattivo senso dei diritti del malato o per semplice inettitudine, non andarono molto per il sottile e decisero il trasferimento in massa degli Altoatesini, indipendentemente dalla cittadinanza che avessero intenzione di scegliere.
 
Gli storici che negli anni dopo la guerra hanno avuto modo di prendere visione delle carte, dicono tuttavia che non ci fu un metodo vero e proprio e che solo la confusione regnò sovrana.
Un pasticcio italiano dunque, ingigantito dalla capacità teutonica di portare a termine queste pragmatiche decisioni.
La storia che segue parla di quel maledetto unico treno che partì da Pergine per trasferire nel Terzo intramontabile Reich le persone che più avevano bisogno di aiuto.


Il direttore di allora del manicomio di Pergine (a destra), insieme con altri medici. 
 
Sono le prime ore del mattino del 26 maggio 1940, una domenica di primavera, il treno straordinario in partenza da Pergine è diretto a nord.
Duecentonovantanove persone, 160 uomini e 139 donne, malate di mente - come si usava dire allora - lasciano il manicomio di Pergine accompagnate da suore, personale infermieristico, medico e dal direttore del manicomio in persona.
Indossano il vestito più bello, il numero indelebile sulla giacca corrisponde a quello sul bagaglio. Sono in ordine, pettinate con cura le donne, rasati gli uomini.
Sono a disposizione materiali di medicazione e di pronto soccorso e un vagone letto per i pazienti più gravi.
Tante le fasce di età rappresentate, dai 20 agli oltre 70 anni. Poche sono le persone sposate. Appartengono quasi tutti/e a ceti sociali umili, 238 di queste persone provengono dal manicomio di Pergine, le altre dagli istituti di Stadio, di Nomi, di Udine.
Tutta la notte si protrae l’afflusso dei malati, che arrivano alla stazione a piedi, e la loro sistemazione nei vagoni.
 
Un’inquietudine serpeggia tra chi resta. Oltre alla tristezza della separazione, probabilmente definitiva, dopo una lunga consuetudine, una preoccupazione più fonda: circolano voci allarmanti sulle intenzioni delle autorità tedesche riguardo alla sorte delle/dei malati di mente. 
 

I pazienti salgono sul treno alla stazione di Pergine. 

Tutto procede senza intoppi, se ne rallegra il prefetto di Bolzano: le autorità tedesche e l’amministrazione italiana hanno siglato un ottimo accordo; con il trasferimento della popolazione altoatesina di lingua tedesca nel Reich si elimina un possibile focolaio di conflitto in ambito di politica estera. 
La partenza da Pergine ha una giustificazione abbastanza accettabile sul piano formale: in seguito agli accordi italo-tedeschi del 1939 ed alla legge n. 1241 del 21 agosto 1939, la popolazione di madrelingua tedesca delle province di Bolzano, Trento, Belluno e Udine che ha optato liberamente per la cittadinanza tedesca emigra verso il Reich, portando con sé anche le e i malati di mente.
 
Chi ha preso questa decisione, di farli partire? I pazienti poterono decidere in modo autonomo della loro sorte?
E chi decise per le malate e i malati gravi incapaci di intendere e di volere?
Dagli studi degli archivi dell’ormai ex manicomio di Pergine emergono una serie di irregolarità, omissioni, comportamenti superficiali, illegali, da parte del personale medico e della magistratura: uomini e donne strappati a forza o con l’inganno dal loro ambiente e dai legami affettivi che lì si erano radicati.
Fu una deportazione, non una libera scelta.
 
 
Il vagone letto, per i malati più gravi. 
 
Sono su quel treno ormai. Roma si è liberata di un fardello inutile; Berlino non deve pagare le spese di degenza a un istituto psichiatrico straniero, è perfettamente in grado di accudire le e i nuovi arrivati.
Sono su quel treno ormai. I più, ignari della destinazione, pensano e sperano di tornare a casa. I più consapevoli intuiscono, qualcuno tenta di fuggire, salta dal treno, si nasconde nei cespugli, viene ripreso. Altre e altri sono stretti nella camicia di forza.
 
Le diagnosi di malattia sono le più varie, alcune gravi, altre minori, spesso affrettate e superficiali.
Alcuni malati e malate, come quelli che lavoravano nella colonia agricola di Stadio, ben consapevoli di quanto succede, si lamentano, inascoltati. Un’opzione fatta per loro da chissachì, la partenza da un luogo caro a cui sono affezionati, una destinazione ignota senza prospettiva di ritorno.
 
Alle 9.30 il treno valica il Brennero: la cittadinanza italiana è ufficialmente perduta. 
 

Dalla stazione di Zwiefalten verso l'ospedale psichiatrico.

Durante la sosta a Monaco. un malato tenta di gettarsi sotto un treno dalla disperazione.
Verso le 21 l’arrivo nella stazione di Zwiefalten.
Zwiefalten è un comune tedesco situato oggi nel Land del Baden-Württemberg, che conta 2.144 abitanti.
Qualcuno si rifiuta di scendere dal treno, serpeggia una certa agitazione, in vari casi si è costretti a ricorrere alla forza.
Alle 23 le malate e i malati sono già nel loro nuovo manicomio, trasportati con autobus dalla stazione.
 
Il personale di custodia è invitato a non insistere, non potrà accedere alla struttura psichiatrica, non potrà prender parte alla sistemazione delle malate e dei malati, non deve assolutamente preoccuparsi di nulla.
Viene organizzata appositamente, per chi accompagna, una visita turistica «di distrazione» a Stoccarda e a Monaco prima del ritorno in Italia.
Si rammaricano le suore, che no, non le autorizzarono ad accompagnare le loro malate, a riporre le loro cose, a sistemare il loro letto, a parlare delle loro abitudini, delle paure, delle manie con le nuove infermiere.
 
La porta del manicomio di Zwiefalten si rinchiude alle loro spalle.
Sono nel terzo Reich.
E nel terzo Reich i malati e le malate di mente vanno eliminati.
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 AKTION T4 
La cultura di morte trova teorici eminenti.
 
Adolf Jost, uno psicologo tedesco, sostiene nel suo saggio «Il diritto alla morte», pubblicato nel 1895, che la decisione sulla morte o sulla vita delle persone spetta allo Stato, che deve essere autorizzato, in ogni momento, a sopprimerle a sua discrezione, per il bene supremo della collettività, così come accade in guerra, dove migliaia di individui vengono sacrificati.
 
Nel 1920, due autorevoli professori, uno psichiatra e l’altro giurista, scrivono insieme l’opera cruciale sull’argomento, dall’esaustivo titolo «Il permesso di annientare una vita senza valore di vita» (lebensunwerten Lebens).
E a quale persona la definizione di «vita senza valore di vita» si adatta meglio che ad una malata o a un malato di mente, oltre che alle malate e ai malati incurabili e deformi?

A sinistra, il permesso di annientare una vita priva di valore di vita. 
 
«Morti cerebrali, psichiche, esistenze inutili, imbecilli incurabili, gusci umani vuoti», così vengono definiti.
Lo psichiatra, che dovrebbe tutelare la salute, afferma che la soppressione di una «vita indegna di vita» è un «atto terapeutico», perché salvaguardia la collettività e «libera» le persone malate dalle loro pene.
Il giurista, che dovrebbe tutelare la vita sociale, esplora il modo legale di legittimare tale permesso, propone una commissione giudicante e sancisce la esenzione di responsabilità legale del personale sanitario implicato nel processo di uccisione.
 
Le basi teoriche per lo sterminio sono gettate.
«Screibtischtäter», criminali a tavolino, è lecito definirli, loro pianificano: saranno altri/e ad eseguire.
 
Il nazismo, di fatto, semplicemente non fa che tradurre in pratica questi principi.
 
Si programma un’ondata di propaganda contro la malattia psichica tramite cinematografia e stampa.
Nelle parole di Adolf Hitler «questi miserabili malati» consumano le risorse della comunità, del Volk (popolo), vivono in strutture protette e sicure sottraendo in modo vile il sostentamento necessario a milioni di soldati giovani e sani che al fronte soffrono la fame e rischiano la vita per la difesa e la gloria della Nazione.
Si contrappongono la guerra, l’eroico popolo tedesco, alla indegna e codarda zavorra umana che vegeta in istituti finanziati dallo Stato. 
 
Anche per questo, il decreto, firmato dal Führer su carta intestata personale, redatto in ottobre, viene retrodatato 1 settembre 1939, data di inizio della guerra: la conquista dello spazio vitale del Reich deve coincidere simbolicamente con la purificazione del Paese dagli esseri inferiori. 

Il decreto del Fuhrer del 1939.

Il testo è scarno. «…Estendere le competenze a medici di cui verranno comunicati i nominativi, affinché questi possano concedere la morte di grazia (Gnadentod) a pazienti a loro giudizio incurabili». Scarno ed essenziale.
 
Già nel 1933 era stata introdotta la sterilizzazione forzosa di centinaia di persone, molte della quali decedute in seguito all’intervento, ritenute portatrici di tare ereditarie.
Successivamente si era costituito un «Comitato del Reich» con libertà di decidere quando dare la morte a bambine e bambini affetti da malattie ereditarie e congenite gravi.
Si iniziò a uccidere neonate e neonati, (forse parve più facile o almeno meno innaturale cominciare dai più piccoli), poi si continuò, in una inarrestabile e inarrestata escalation, con le bambine e i bambini fino a 3 o 4 anni e poi ancora di età maggiore.
Ora tocca alle malate e ai malati psichici di ogni età.
 
«Gnadentod», morte di grazia, morte misericordiosa, eutanasia, parole che mascherano un’organizzazione efficiente e implacabile, la cui sede centrale è a Berlino, in via dello zoo, al numero civico 4 (Tiergartenstrasse, 4), da cui l’abbreviazione di «Aktion T4».
 
A tutti gli istituti psichiatrici, agli ospedali, ai cronicari, raggiunti in modo capillare con l’aiuto del Ministero della Sanità, viene richiesto di compilare questionari riguardanti le ricoverate e i ricoverati, apparentemente a fini statistici.
La compilazione, per la quale non si lascia neanche il minimo tempo materiale necessario, avviene spesso in modo superficiale e sommario.
 
I moduli, inviati al Ministero dell’Interno del Reich, vengono valutati da una commissione di lavoro composta da tre autorità mediche (di solito psichiatri) appartenenti ai massimi dirigenti del progetto, che decidono, in modo indipendente, della sorte delle persone.
 
Tiergartenstrasse, 4 - Quartiere generale dell’Ente
per la salute pubblica e l’assistenza sociale

 
Il segno più (+) redatto in matita rossa significa morte, il segno meno (-) redatto in matita blu significa vita, il punto interrogativo (?) corrisponde a un rinvio della valutazione.
Non si esamina nessuna cartella clinica, non viene visitato nessun paziente.
La disanima dei questionari e l’ordine di uccidere avvengono in modo burocratico, frettoloso, superficiale.
In 17 giorni si arrivano a esaminare 2.109 moduli.
Un controperito (Obergutachter), spesso un eminente professore che rappresenta la psichiatria accademica tedesca, sigla la decisione finale.
 
Le persone selezionate per la morte vengono rastrellate capillarmente in ogni istituto, in ogni paese, in ogni ospedale, trasferite a forza da un manicomio all’altro, all’insaputa delle famiglie, per farne perdere le tracce, fino a giungere alla destinazione definitiva. Viene creata, per questo, un’apposita società di trasporto che si avvale di autobus con i vetri oscurati. 
Le malate, i malati, giunti al centro, vengono spogliati, fotografati, inviati in una camera dissimulata come doccia nella quale viene fatto filtrare monossido di carbonio generato dal motore di un automezzo.
Non pochi sono pienamente consapevoli della fine a cui sono destinati.
Dopo una decina di minuti la stanza viene areata. Dopo un’ora, i cadaveri vengono bruciati nel forno crematorio. Sui casi ritenuti più interessanti viene eseguita l’autopsia ed il cervello è conservato per ulteriori ricerche.  

Autobus adibiti atrasporto.

Un’apposita commissione di medici si occupa della falsificazione delle cause di morte, che devono apparire naturali: studiate accuratamente a seconda della tipologia di paziente per poter essere credibili.
Un’altra commissione si occupa di inventare una data di decesso il meno sospetta possibile.
Ai familiari, ai quali era negata per motivi di ordine pubblico legati alla guerra ogni informazione e ogni visita alla o al proprio caro, viene mandata un’urna contenente una manciata di ceneri mischiate insieme a caso con un commovente messaggio di condoglianze, in cui spesso chi scrive si lascia sfuggire errori che fanno sorgere non pochi sospetti.
 
Sei sono i manicomi che fungono da centri di sterminio, strutture circondate da alte mura come ex castelli o ex prigioni: Harteim, Sonnenstein, Grafeneck, Bernburg, Brandeburgo, Hadamar.
La morte avviene generalmente entro ventiquattro ore dall’arrivo al centro di eliminazione.
Vi muoiono 70.273 persone, secondo i dati ufficiali, forse molte di più.
 

Hadamar, uno dei centri di sterminio. 
 
Lo sterminio non può essere occultato. Autobus dai vetri oscurati trasportano le vittime, che non faranno più ritorno.
Dai forni crematori, attivi giorno e notte, escono ciocche di capelli che si librano nell’aria e un odore acre di morte.
Nonostante il regime di terrore a cui è sottoposto il personale, qualcuno parla. Le famiglie si vedono negata ogni più piccola notizia. Le urne arrivano di continuo, spesso in modo disordinato e corredate da informazioni contrastanti. 
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 LA RESISTENZA 
 
Il 19 dicembre 1940, a pochi mesi dalla deportazione da Pergine, il giornale altoatesino Volksbote, edito dalla casa editrice cattolica Athesia, pubblica un eroico articolo – se si considera l’epoca intrisa di pressioni e minacce – dal titolo «Un orribile sospetto» (Ein furchtbarer Verdacht).
 
«Un orribile sospetto» Volksbote, 1940.
 
Si legge «…Se non si è selvaggi, non ci si libera più, per giorni, da tale notizia…»
L’articolo suscita violente reazioni nei rappresentanti dello Stato tedesco in Italia ed è una delle cause della soppressione del giornale, ordinata nell’ottobre dell’anno dopo.
 
Quanto si sapeva al tempo della deportazione, in maggio?
Quali, e di chi, le responsabilità dell’invio in Germania verso un probabile destino di morte?
 
Nel Reich, l’angoscia attanaglia la popolazione. Protesta, rabbia, confusione, dolore nelle famiglie: interpreti ne divengono personalità religiose protestanti e cattoliche, che, a rischio della vita, esprimono sgomento e sdegno.
Saranno talvolta minacciate di morte e inviate nel campo di concentramento di Dachau.
La lettera pastorale dei vescovi tedeschi, «l’obbligo di coscienza di opporsi all’eliminazione di una vita innocente anche a costo della propria vita», viene letta dal pulpito di ogni chiesa; si moltiplicano le prediche appassionate di chi si fa portavoce della gente e di Dio.
Quella di Clemens von Galen (foto di fianco), vescovo di Münster - dichiarato Beato nel 2005 da Papa Ratzinger - che viene riprodotta e distribuita nell’intera Germania e lanciata sotto forma di volantino dagli aerei della Royal Air Force britannica sulle truppe tedesche, ha un impatto enorme sulla popolazione, tanto che secondo Bormann, uno dei più potenti gerarchi nazisti, il vescovo è meritevole di morte.
 
L’attuazione del progetto «T4» è opera del personale medico e infermieristico dal principio alla fine.
La classe medica è quindi al servizio del nazismo. Peggio, è essa stessa nazista.
 
È difficile valutare quanti sono gli psichiatri e il personale sanitario che sabotano l’uccisione, che in modi limitati, indiretti, silenziosi, cercano di sottrarre alla burocrazia della morte il maggior numero di malate e malati, falsificando le diagnosi, affidandoli alle famiglie, nascondendoli.
 
Pochi sono gli psichiatri che si oppongono ufficialmente.
Tra questi Gottfried Ewald (foto di fianco), che pure gode, presso il regime nazista, di grande considerazione (tanto da essere invitato a divenire un dirigente del progetto T4).
«Non posso scegliere una professione la cui attività quotidiana sia quella di eliminare una persona malata a causa della sua malattia, dopo che i suoi parenti sono venuti da me, in piena fiducia e ricercando il mio aiuto.»
Consapevole delle conseguenze, dirà alla moglie «Devi prepararti alla possibilità che, da un giorno all’altro, io venga mandato in un campo di concentramento.»
 
Il 24 agosto 1941, sotto la pressione dell’opinione pubblica e della Chiesa, Hitler ordina la sospensione del progetto «Aktion T4».
 
È la fine della morte per gassazione. Ma lo sterminio di massa è appena incominciato e continua sotto altre forme. È l’inizio di una nuova morte, per alcuni aspetti ancora più terribile e dolorosa.
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 EUTANASIA SELVAGGIA 
 
Nonostante gli episodi di resistenza, la maggior parte della classe medica è «nazificata», nazista convinta: anche dopo la sospensione del progetto T4, le uccisioni di massa continuano.
Inizia il periodo della cosiddetta «eutanasia selvaggia». I medici possono ora decidere di propria iniziativa chi deve vivere e chi deve morire e scegliere il modo di uccidere a propria discrezione.
Il regime incoraggia le uccisioni, continua a organizzare i «trasporti», documenta i decessi negli archivi centrali, alcune camere a gas rimangono pronte a riprendere l’attività.
 
Si decide di uccidere le pazienti e i pazienti facendoli morire di fame.
Alcuni direttori di istituti psichiatrici - volonterosi carnefici di Hitler - si ingegnano, di propria spontanea iniziativa, in invenzioni. 
 
Hermann Pfanmüller (foto di fianco) fonda «le case della fame» (Hungerhäuser), Valentin Falthauser elabora una dieta speciale (Sonderkost) del tutto priva di grassi, composta da patate, rape, cavoli, che «dovrebbe portare a morte lenta in tre mesi», rapidamente estesa a numerosi ospedali.
Una direttiva di restrizione alimentare, emanata il 30 novembre 1942, sostenuta da ordini provenienti da Berlino, è inviata a tutti i direttori degli istituti psichiatrici, a cui viene comandato di attuare «senza indugio» il programma.
«Sale immense, buie… silenziose. Nessun rumore. Niente. Le persone non mostrano alcun segno di vita. Non dicono niente. Alcune sono in piedi. Come semicadaveri… Pazienti con allucinazioni di spiriti che vengono di notte a mangiare il loro cibo…» (testimonianza di medici alla fine della guerra).
 
Si uccide anche con i farmaci. Somministrazioni letali di morfina, scopolamina, barbiturici, veronal, luminal.
Si tengono apposite riunioni per decidere chi debba essere ucciso/a, con quali farmaci ed in che dosi.
 
Qualsiasi sia il tipo di uccisione attuato, si falsificano le cartelle cliniche, inventando plausibili cause naturali di morte.
Il processo di sterminio continua fino alla fine del regime nazista e, in alcuni luoghi, anche oltre: le truppe alleate liberano pazienti che stanno per essere fucilati.
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 IL DESTINO DELLE PERSONE DEPORTATE DA PERGINE
 
Quando le persone deportate da Pergine arrivano al manicomio di Zwiefalten, ospitato presso un’antica abbazia benedettina contigua a una bellissima chiesa, nel maggio del 1940, è in piena attuazione l’«Aktion T4», che prevede la morte per gassazione.
 
Il manicomio di Zwiefalten, che dista appena 25 chilometri dal Centro di sterminio di Grafeneck, funge proprio da stazione intermedia sulla via della morte (Durchgangsanstalt), un istituto di raccolta e di attesa verso il luogo dell’esecuzione.
 
Le condizioni delle malate e dei malati sono terribili.
Dalla testimonianza di una psichiatra: «…Sdraiati a terra, sulle panche, su sacchi di paglia, su tavoli, in una totale confusione, giovani e vecchi, deformi e informi, rapati a zero, scritto in blu un numero sulla fronte e sull’avambraccio… pregano in coro, Santa Maria, madre di Dio, prega per noi…»

Munch, la Morte al timone.
 
Ogni tre settimane un ente centrale berlinese sollecita un elenco che riporti le capacità lavorative di ciascun paziente, da cui sono scelte «d’ufficio» le persone più gravi per inviarle alla morte.
 
È probabile che, come tutti gli altri pazienti, anche gli altoatesini fossero destinati a morire nelle camere a gas e che la decisione di deportarli proprio a Zwiefalten, centro di smistamento per la morte, non sia stata casuale.
Tre altoatesini furono effettivamente inviati a Grefeneck in data ignota e in seguito ritrasferiti a Zwiefalten, probabilmente graziati in base a considerazioni di convenienza politica.
 
Secondo fonti tedesche del dopoguerra, nessuna delle 299 persone deportate da Pergine risulta assassinata nelle camere a gas.
 
È possibile che la loro morte sia stata evitata o per non interferire con la massiccia immigrazione della popolazione altoatesina optante verso il terzo Reich, oppure semplicemente per caso, a seguito della cessazione della attività di Grafeneck avvenuta nel marzo 1941.
 

Abbazia di Zwiefalten. 

Settantacinque pazienti, selezionati tra i casi più gravi e disperati, furono trasferiti in manicomi diversi nel giro di pochi mesi, senza nessuna esauriente spiegazione.
Forse coinvolti nella fase iniziale dell’operazione T4 che prevedeva il continuo passare da un istituto all’altro, in gruppi sempre diversamente composti e con personale sempre diverso, per rendere più difficile la ricostruzione di ciò che sarebbe accaduto.
 
Il direttore di Weissenau, uno dei manicomi in cui erano stati trasferiti, scrisse nella relazione annuale del 1941 che «i malati giunti dal sud erano scampati all’annientamento grazie alla improvvisa cessazione dell’Aktion T4», sottintendendo che il destino pianificato fosse la morte, di cui - come direttore - era pienamente a conoscenza.
 
Dopo la fine dell’operazione T4 lo sterminio delle persone malate non cessa, ma continua in altri modi, tramite «l’eutanasia selvaggia».
Questa consuetudine di morte, ordinata da Berlino a tutti i direttori sanitari, è attuata anche nei manicomi in cui sono ricoverate le persone deportate da Pergine. 

Berlino, Tierengartenstrasse 4, Monumento  commemorativo sopra, la lapide sotto.
 
È quasi impossibile ricostruire ciò che accadde veramente alle singole e ai singoli pazienti, sia per l’incompletezza con cui venivano gestite le cartelle cliniche, sia per la loro volontaria falsificazione o addirittura distruzione da parte del personale sanitario dopo il decesso.
 
Moltissime e moltissimi furono coloro che morirono di fame, di freddo, di stenti, di tubercolosi, di altre malattie, senza nessuna cura, abbandonati nella più feroce delle solitudini, senza più rapporti con la propria famiglia, sradicati dai luoghi conosciuti e cari.
Non è più possibile stabilire ora se vi siano stati omicidi intenzionali tra i singoli individui, ma forse non è importante, perchè l’intera organizzazione dei manicomi nel terzo Reich era finalizzata alla morte.
 
Qualcuna delle persone deportate da Pergine rimpatriò, alcune riuscirono a sopravvivere alla fine della guerra.
Si sa che altoatesine e altoatesini, provenienti da manicomi diversi da Pergine, furono torturati.
Bambini e bambine furono sottoposti a esperimenti medici sul vaccino tubercolare, infettati appositamente con il bacillo di Koch, uccisi in modo programmato e sottoposti ad autopsia.
 
Non credo sia lecito fare distinzione tra coloro che morirono nella camere a gas, coloro che morirono mediante farmaci letali, coloro che morirono di fame e di stenti nel più totale abbandono o coloro che furono usati come cavie per esperimenti scientifici.
Tutte e tutti furono vittime di uno sterminio pensato e pianificato da una classe politica e medica di una crudeltà fino ad allora né conosciuta né concepibile, che sarebbe approdata dopo breve tempo ad Auschwitz.
 
È accaduto così vicino a noi, nel tempo e nello spazio.
 
Il 27 gennaio, ciascuno di noi dedichi un intimo pensiero a quelle donne e a quelle bambine, a quegli uomini e a quei bambini.
Un pensiero e una carezza, perché possano rivivere grazie alla memoria almeno per un momento nel tepore del nostro cuore.
Alle carnefici e ai carnefici è più difficile, non so che dire. 
 
Eliana Frizzera
e.frizzera@ladigetto.it
  
 Ringraziamenti 
Ermanno Arreghini, per le ricerche nell’archivio dell’ex manicomio di Pergine
Giuseppe Pantozzi, per lo studio sulla storia della psichiatria nel Tirolo e nel Trentino
 
 Fonti 
Robert Jay Lifton: I medici nazisti,1986
Giuseppe Pantozzi: Gli spazi della follia – Storia della psichiatria nel Tirolo e nel Trentino, 1830-1942, 1989
Atti del convegno: Follia e pulizia etnica in Alto Adige,1995
 

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