Clamorosa decisione del governo USA di «nazionalizzare i debiti» di due banche
Lo stato in questa maniera si fa carico di quasi 25 miliardi di dollari messi a rischio dalla «crisi dei mutui»
Apprendiamo ora che il governo Bush
- rigorosamente di domenica - ha nazionalizzato le due banche che
avevano finanziato la maggior parte dei mutui d'America, la
Fannie Mae e la Freddie Mac. La pragmatica
decisione è avvenuta per salvare l'economia degli USA e, in buona
sostanza, quella del mondo intero.
Per spiegarci
meglio, in questa maniera il Tesoro americano ha assunto
il controllo di istituti che sono esposti per cifre insostenibili,
acquistandone le azioni per gestirle in amministrazione
controllata. Questo consente agli Istituti in questione di evitare
il fallimento che avrebbe trascinato con sé quasi tutta l'economia
americana. Lo stato USA si assume quindi l'onere di accollarsi un
debito (per la precisione una insussistenza attiva) per
quasi 25 miliardi di dollari.
Ma proviamo a riassumere la situazione e renderla più comprensiva.
Negli ultimi anni gli Americani avevano investito nell'immobiliare
come se si trattasse di azioni di Wall Street. Acquistavano
immobili al solo scopo di rivenderli poco tempo dopo a cifre
maggiori, indi-pendentemente dal valore reale dei beni, dalla loro
collocabilità sul mercato abitativo, dalla loro redditività e, non
ultimo, dalla posizione ipotecaria delle unità. Quando cominciò la
crisi, non solo gli investitori si accorsero presto di avere in
mano dei cerini che stavano per scottare le dita, ma anche le
banche si accorsero di aver finanziato dei beni che non valevano
assolutamente niente, per la semplice ragione che non c'erano
abbastanza inquilini e, soprattutto, canoni d'affitto in grado di
remunerare i mutui concessi.
Per le banche che non restava che entrare in possesso degli
immobili, riscuotendo le ipoteche. Ma con il risultato che si
trovavano ad essere proprietarie di immobili che valevano sì e no
un terzo del prestito concesso e, nella maggior parte dei casi,
invendibili. Il problema, come avevamo detto in un articolo di
quasi un anno fa, era immediato: alla chiusura contabile le banche
avrebbero dovuto dare agli immobili il valore a bilancio esatto,
tegistrando la perdita per il valore non coperto dalle
ipoteche.
Per quelle banche non restava che la via della riduzione del
capitale sociale e, nel caso che questo fosse insufficiente, nella
dichiarazione di fallimento. E i loro clienti avrebbero scoperto
presto di non essere più in grado di incassare i soldi che avevano
depositato.
Scenario da tregenda, cioè da Grande Depressione degli
anni Trenta.
Avevamo cominciato ad assistere a qualche fallimento bancario
clamoroso, con i clienti che facevano la coda agli sportelli per
incassare solo una piccola parte dei propri depositi, importi il
più delle volte stabiliti dai liquidatori fallimentari. Situazione questa che
richiamava da vicino, appunto, quanto accaduto nel 1929 e protratto
per gli anni Trenta, allorché furono le azioni quotate in borsa a
crollare, in quanto gonfiate dal mercato e non dalla crescita del
reale valore intrinseco delle aziende. Anche allora però la crisi
fu dettata dalle banche che si trovavano in difficoltà, in quanto
proprietarie a loro volta di titoli praticamente privi di
valore.
In quei tempi il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano
Roosvelt (nella foto
di fianco) decise di interrompere il crollo a catena
della ricchezza dei cittadini americani adottando iniziative come
la nazionalizzazione dei debiti, né più e né meno di quanto deciso
oggi dal presidente più liberista degli ultimi tempi, che è Gorge
W. Bush (nella foto in
alto).
Di solito si dice che i problemi non sono né di destra né di
sinistra, mentre le soluzioni lo sono. In questo caso, il
presidente repubblicano ha affrontato il problema e lo ha risolto
con l'unico modo che aveva per salvare l'economia americana (e, di
conseguenza, quella del mondo), ricalcando le orme del suo illustre
predecessore, che di liberismo aveva poco o nulla.