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Bangladesh, tra detriti e fragilità sociali – Di Miryam Scandola

L’amara considerazione sul più spaventoso «incidente sul lavoro» mai accaduto

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Ci sono tanti tipi di macerie.
Quelle vestite dalle canotte coloratissime del marchio svedese H&M e fasciate dai sofisticati drappeggi del brand spagnolo Mango, ad esempio.
Sono le macerie dell'industria tessile di Rhana Plaza, che dal 24 Aprile si è crollata addosso uccidendo 1.084 dei suoi operai e seppellendo un numero inverosimile di dispersi.
Mentre fazzoletti di tessuto e grida di uomini rimangono intrappolati nel cemento di un edificio tutto sbagliato, la cronaca del disastro si ripete a rimbalzo sulla rete.
Il presagio delle crepe 24 ore prima della tragedia, l'area dichiarata inagibile dalle autorità, i cinici appetiti degli epigoni dell'azienda che non vogliono rallentare la produzione, gli operai impauriti, che entrano lo stesso nella fabbrica traballante per non rischiare il licenziamento.
Poi il crollo.
 
La folla degli affetti che corre nella periferia di Savar, a pochi chilometri dalla capitale, stringendo in mano le foto dei cari inghiottiti dal calcinaccio.
Secondo le fonti locali, il palazzo, progettato «solo» di sei piani e abusivamente trasformato in uno stabile di otto, è stato costruito su uno stagno riempito con terreno friabile.
I permessi, sempre secondo le fonti, sono stati sistemati previe adeguate tangenti.
Attualmente il proprietario della struttura, Mohammed Sohel Rana è stato arrestato, un attimo prima che riuscisse a scappare in India.
 
«Il settore tessile in Bangladesh costituisce l'80% delle esportazioni. In questo tipo di produzione siamo secondi solo alla Cina», – ci racconta Humayun Rashidm, 29 anni, che da qualche mese ha lasciato la sua casa, in un villaggio vicino a Dhaka, e si è trasferito a Verona, per ultimare gli studi universitari.
Ma ci sono anche altre macerie nel paese stretto tra India e Birmania.
Sono i detriti di una società sovrappopolata, dove i figli illegittimi abbandonati sui marciapiedi non si contano, perché sono troppi.
Le ultime stime dicono che sono 600 mila. La metà di loro vive proprio a Dhaka, nella capitale.
Portano insinuato anche nel loro soprannome «Tokai» (in lingua bengalese “rovistare”) la fatica della loro sopravvivenza.
 
Ogni giorno setacciano le discariche, con i piedi nelle pozzanghere putride, raccogliendo pezzettini di plastica o di alluminio da rivendere alle ditte specializzate nella separazione dei rifiuti e nel riciclo.
Il loro compenso si aggira attorno a 50 taka al giorno (0,50 euro). Le sniffate di «colla», lo speciale mastice che non fa sentire i morsi della fame, il lavoro troppo pesante, il riposo pericoloso sotto i cavalcavia o tra i binari dei treni; la vita dei bambini di strada in Bangladesh non è nemmeno una vita.
Per questo Humayun, ha scelto di stare dalla loro parte.
Ha studiato a Dhaka nell'università principale, Shahidullah Hall e si è laureato in statistica.
 
«Da subito ho iniziato a lavorare con i bambini di strada – ci dice, – insegnavo loro a leggere e a scrivere, ad alcuni addirittura qualche nozione di informatica.»
Ora frequenta la facoltà di Scienze dell'Università di Verona e non vede l'ora di finire gli studi per tornare nel suo Bangladesh.
 
Ma Humayun non è l'unico giovane a combattere per un paese più giusto.
È ancora fresco, infatti, il dramma dell'uccisione del blogger Amhed Rajib Haider, mutilato e violentemente assassinato il 5 febbraio scorso perché troppo arrogante per le frange estremiste dell'Islam bengalese.
Islam radicale che diventa religione senza controllo pronta ad eliminare i suoi oppositori e a scendere in piazza per bloccare il traffico, urlando «Un solo punto! Una sola richiesta! Gli atei devono venire impiccati!», come è successo il 5 maggio scorso con 200 mila musulmani irremovibili che chiedevano la pena di morte per il reato di blasfemia.
Il bilancio degli scontri che hanno visto la polizia usare proiettili di gomma per bloccare la vera e propria intifada dei manifestanti, parla di 29 morti.
Sono macerie anche queste.
 
Miryam Scandola
 
Si ringrazia per la gentile collaborazione Humayun Rashid.

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