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Turchia. La vera linfa della battaglia degli alberi – Di M. Scandola

Non subiscono battute d'arresto le proteste nelle piazze di tutta la Turchia. E non si ferma neppure la risposta della polizia

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Sotto il sole indifferente di piazza Sempione a Milano, si muove l'ennesima manifestazione che tenta di arrivare davanti al Duomo per gridare la sua indignazione.
Ci sono bandiere rosse, mezze lune e stelle bianche, cartelli scritti con pennarelli arrabbiati. “Basta Erdogan” dicono i pezzi di carta stretti tra le mani dei manifestanti.
Ma cosa c'entra il primo ministro turco con il Castello Sforzesco? Apparentemente niente. In realtà molto.
Ormai, infatti, una piazza vale l'altra. L'importante è scenderci.
Così ci spiega Andrea, giovane ingegnere, occhiali da sole e piglio da attivista.
Lui in piazza c'è sceso grazie al suo coinquilino che è turco. E grazie a Twitter.
 
#occupygezi è l'hashtag che racconta meglio quello che sta accadendo ora in Turchia.
Ma se si preferisce c'è anche #occupytaksim e, perché no, anche #occupyinstanbul.
Traboccano tutti di foto degli scontri con la polizia, delle notizie in tempo reale circa i numeri degli arrestati e dei feriti, dei messaggi di solidarietà nelle lingue più disparate.
L'uso del social network è impazzito in questi giorni; si contano due milioni di tweet inviati solo tra le 16 e le 24 di venerdì 31 maggio. E dopo la mezzanotte circa tremila tweet al minuto.
 
Non per niente è scorrendo all'indietro le pagine di Twitter, che si riescono a capire i modi e i tempi di questa rivolta.
Tutto è cominciato il 29 maggio, giorno dell'inizio dei lavori a piazza Taksim per costruire un centro commerciale, alcune caserme e una grande moschea.
Le proteste sono nate per difendere dall' esuberanza asfaltatrice del governo di Erdogan, Gezi Park che con i suoi 600 alberi è, l'unica, l'aiuola verde di Istanbul.
Ma subito i turchi di Ankara, di Smirne, ma anche di Adana, di Gaziantep e di una sessantina di altre città si sono infuriati. Sono giovani, ragazze, universitari.
 
Ma non per questo la polizia si è tirata indietro.
Mille e settecento di loro sono stati arrestati durante le 235 manifestazioni che si sono tenute nei primi quattro giorni della protesta , in ogni angolo della Turchia arrabbiata. 3 morti, 4 accecati per i proiettili di gomma, 2500 feriti.
Questo il bilancio.
 
«[...] Pretendiamo dal ministero della Sanità turco informazioni precise sul numero di persone rimaste ferite negli scontri e lanciamo un appello perché ci sia uno stop nell'uso di gas lacrimogeni che sono la causa principale delle ferite riportate dai manifestanti.»
Parla così all'ANSA il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury, mentre l'ufficio della sua organizzazione, a Istanbul, è divenuto l'improvvisato ricovero per i feriti degli scontri con la polizia.
Noury non risparmia anche il racconto di numerosi abusi mandati avanti dalle forze dell'ordine come il lancio di lacrimogeni all'ingresso degli ospedali o la detenzione nei blindati di alcuni manifestanti senza permettere loro di accedere ai servizi igienici, all'acqua e al cibo per oltre 12 ore.
 
Ma è nella notte tra il 2 e il 3 giugno, quando i manifestanti hanno dato fuoco agli uffici del partito islamico di Akp del premier Tayyip Erdogan, che la protesta ha mostrato il suo vero volto e da semplice sit-in per salvare il verde della Turchia si è trasformata in rivolta per salvare, proprio, la Turchia.
Difenderla da un Islam che diventa ogni giorno più insistente e che minaccia, sempre maggiormente la laicità turca.
Ne sono certi i dimostranti con i visi persi nelle maschere anti-gas, avvolti in magliette che effigiano il volto di Ataturk, l'eroe nazionale, fondatore della Turchia laica.
Stringono tra le mani le bottiglie di birre, dopo che il governo Erdogan con una legge della settimana scorsa ha limitato l'uso di alcolici tra le ventidue e le sei del mattino.
Si baciano sulla bocca per dimostrare che lo possono fare dove vogliono. Anche quando le autorità, non meno di sette giorni fa avevano invitato a «un comportamento morale» in tutti i luoghi pubblici.
 
La cineasta turca Nagehan Uskan posta su facebook, in presa diretta, il presente plumbeo della sua Turchia.
«In questo momento è difficile prevedere cosa succederà.
«La situazione è ancora assai seria, la violenza della polizia non accenna ad attenuarsi, ma la resistenza continua ed è sempre più forte.
«Come stiamo? Non vi preoccupate, non eravamo mai stati così bene.»
 
Miryam Scandola

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