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«Egitto: la lobby dei generali che tiene in pugno il paese»

Come hanno dimostrato gli avvenimenti di questi giorni, l'ago della bilancia è rappresentato anche stavolta dall'esercito – Di laura Fontata

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Dalla rivoluzione che nel 1952 pose fine alla corrotta e sfarzosa monarchia di re Faruk alla sollevazione popolare della Primavera Araba nel febbraio 2011, ogni avvenimento o cambiamento politico in Egitto ha trovato sempre a disposizione un burattinaio d'eccezione, pronto a tirare i fili degli eventi: l'esercito egiziano.
Da Neguib a Mubarak, passando per Nasser e Sadat, la carica di Presidente della Repubblica è sempre stata ricoperta da personalità provenienti dai ranghi militari.
L'unica eccezione era rappresentata fino al 3 luglio scorso da Mohamed Morsi, eletto presidente nel giugno 2012 a seguito delle proteste di Piazza Tahrir.
Morsi, infatti, appartiene ai Fratelli Musulmani, il movimento islamista storicamente e idealmente contrapposto all'esercito.
 
Nell'ultimo anno il consenso popolare nei confronti dei Fratelli Musulmani si è andato sempre più affievolendo, soprattutto a causa della crisi economica che con il crollo del turismo e degli investimenti stranieri sta mettendo in ginocchio il paese.
La piazza ha imputato al presidente Morsi la colpa di non essere stato in grado di porre rimedio alla situazione.
Prontamente l'esercito si è fatto portavoce e garante delle istanze del popolo, dimenticandosi però come quella dei militari sia una vera e propria potentissima «lobby», che con quasi un milione di uomini controlla fra il 25 e il 45% dell'economia nazionale.
 
Il ruolo dell'esercito nell'economia egiziana rappresenta ancora uno dei più grandi tabù del paese, qualcosa che tutti immaginano o sanno, ma di cui pochi egiziani sono pronti a parlare apertamente.
Infatti, i generali ricchi e corrotti, spesso incompetenti nel management aziendale, non hanno mai accolto le richieste di trasparenza che pervenivano, negando sempre la pubblicazione del bilancio dell'esercito.
Dall'edilizia alla vendita immobiliare, dalla produzione alimentare alle società di pulizia e alle pompe di benzina, l'esercito è attivo quasi in ogni settore produttivo.
Sono molti gli stati che per garantirsi un alleato in Medio Oriente investono nell'economia egiziana.
Primi fra tutti sono gli Stati Uniti che riservano all'Egitto 1,3 miliardi di dollari all'anno, quantificabili nella vendita di armi e in aiuti alle fabbriche militari.
 
La scalata al potere da parte dei militari inizia con il colpo di stato organizzato dalla società segreta militare dei «Liberi Ufficiali», che porta alla cacciata di re Faruk.
Fra i leader del golpe ci sono Neguib, Nasser e Sadat, che diventeranno poi i primi tre presidenti della repubblica.
Ed è proprio sotto la presidenza di Nasser nel 1956 con la nazionalizzazione dei mezzi di produzione che i generali iniziano ad accaparrarsi ruoli sempre più strategici nell'economia.
La corruzione e il mal governo dilagano, principalmente per colpa della mancanza di competenze da parte dei militari.
 
Alla morte di Nasser nel 1970 gli succede Sadat, anche lui proveniente dai ranghi dell'esercito.
Durante la sua presidenza la nazionalizzazione subisce una battuta di arresto, in favore di una maggior apertura verso l'economia di mercato e i prodotti stranieri.
Tuttavia è proprio negli anni Settanta che viene fondato l'NSPO, l'Organizzazione dei Prodotti Nazionali, costituito da aziende create ad hoc per essere gestite da ex generali e colonnelli in pensione.
Alle imprese gestite dai militari vengono garantiti privilegi mai concessi ad altre attività, ne nel settore pubblico ne tantomeno in quello privato.
Tuttavia, le aziende dell'esercito si distinguono per la loro totale mancanza di competitività ed efficienza, riuscendo a reggersi in piedi solo grazie al fatto che i soldati di più basso livello sono costretti a comprare con i loro miseri stipendi i loro prodotti, perlopiù scadenti.
Città vengono costruite appositamente per essere abitate dagli ufficiali, i quali potevano godere di migliori condizioni di vita e accedere a servizi e negozi dedicati.
 
Sotto la pressione degli Stati Uniti, della World Bank e del FMI, la privatizzazione continua anche con Mubarak, divenuto presidente dopo l'assassinio di Sadat nel 1981.
Il processo però va molto a rilento: nel ventennio 1991-2011 delle 314 aziende pubbliche da privatizzare solo 91 vengono vendute, ma anche fra queste 91 molte vengono solo chiuse o inglobate in altre aziende statali.
Le aziende militari non vengono comunque toccate.
Già nel 2008, quindi prima della Primavera Araba, un cable mandato dall'ambasciata statunitense al Cairo lo conferma.
«La maggior parte degli analisti concordano che i militari si oppongono al processo di liberalizzazione in quanto vedono nel libero mercato una minaccia alla loro posizione di monopolio.»
 
Tutto questo ha portato nel corso dei decenni ad una crescente spaccatura fra la società civile e quella militare, sempre più evidente dopo la fine del regime di Mubarak.
Come hanno dimostrato gli avvenimenti di questi giorni, l'ago della bilancia è rappresentato anche stavolta dall'esercito, che con il suo peso politico ed economico influenzerà il futuro assetto dell'Egitto.
Bisogna solo attendere i prossimi sviluppi per vedere se l'appoggio dell'esercito alle richieste di democrazia dei cittadini sia autentico oppure se sia solo di facciata, per difendere gli interessi egemonici dei generali. 
 
Laura Fontana

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