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Groenlandia: nuova via verso le «terre rare» – Di Pietro Lucania

Le ragioni per cui la Groenlandia ha abrogato il precedente divieto di estrazione di materiali radioattivi dal territorio

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Il 24 ottobre 2013 il Parlamento di Nuuk, capitale e principale centro della Groenlandia, ha approvato con 15 voti a favore contro 14 una mozione (proposta dall’attuale governo guidato dalla socialdemocratica Alequa Hammond) che, di fatto, ha abrogato il precedente divieto di estrazione di materiali radioattivi dal territorio.
Il divieto all’estrazione era stato concepito nel 1988 dal Parlamento della Danimarca (da cui la Groenlandia ha ottenuto l’autogoverno nel 2009, fatta eccezione per le politiche estera e di difesa) nel contesto di una strategia definita di «tolleranza zero» verso i minerali radioattivi.
Tuttavia, tale posizione è stata rivista negli ultimi tempi.
Da quando, cioè, il governo di Hammond ha riscontrato forti difficoltà nella gestione economica del Paese e, per questo, ha elaborato nuove strategie di rilancio per contrastare una crisi senza precedenti, aggravata da un tasso di disoccupazione notevole.
 
La mozione apre di fatto alla possibilità di intraprendere importanti progetti di estrazione di materiali di cui è ricco il sottosuolo, quali oro e diamanti, nonché delle cosiddette «terre rare», solitamente abbreviate con le sigle REM (Rare Earth Metals), RE (Rare Earths) o REE (Rare Earth Elements): si tratta di 17 elementi chimici che, in relazione alle caratteristiche, vengono suddivise in leggere, medie e pesanti.
Il termine «rare» deriva dal fatto che i minerali da cui tali elementi vennero originariamente isolati erano ossidi non comuni.
Cionondimeno, essi si trovano in concentrazioni abbastanza elevate in diverse aree geografiche del pianeta.
La loro classificazione come materiali strategici non è casuale: l’utilizzo di materiali non ferrosi per applicazioni speciali è in considerevole aumento e l’impiego delle terre rare (che costituiscono il gruppo più significativo) è determinante non solo per noti prodotti quali smartphone e computer, ma anche in applicazioni quali componenti per laser; magneti permanenti. Catalizzatori di combustione, deidrogenazione, idrogenazione e cracking; componenti elettronici (catodi, condensatori, semiconduttori, coloranti per vetri e ceramici); fosfori per televisori a colori.
 
Finora è stata la Cina ad avere il monopolio estrattivo di tali minerali (con circa il 97% delle estrazioni a livello globale).
La decisione da parte di Pechino nel periodo 2010-2011 di ridurne le quote di esportazione, aumentandone la tassazione, ha creato uno sconvolgimento nel mercato delle terre rare, il cui prezzo sul mercato ha registrato aumenti variabili dal 300% al 4.000%.
Successivamente, l’andamento del mercato è stato più regolare ed i parametri si sono parzialmente consolidati.
Quanto avvenuto, in ogni caso, è stato sufficiente a generare una ristrutturazione del mercato globale delle REE attraverso politiche di economizzazione di questi materiali.
Tra le conseguenze dell’eccesso di produzione, la Cina ha dovuto affrontare complesse problematiche di tipo ecologico, dovute in gran parte all’azione selvaggia di estrazione che comporta il trattamento di materiali a bassa radioattività attraverso un processo di purificazione della roccia madre, realizzabile con l’impiego di acidi concentrati la cui dispersione nell’ambiente provoca danni irreparabili; anche per questo, la produzione cinese ha avuto un rallentamento, venendo quantificata, attualmente, in circa l’85% del mercato totale.
 
Nei prossimi anni, in ragione di tali dinamiche economiche, la ripresa estrattiva da parte di società quali le americane Molycorp Inc. e Rare Element Resource Ltd. (entrambe quotate alla New York Stock Exchange con progetti in California e nel Nord America), la Frontier Rare Earths (quotata alla Toronto Stock Exchange con progetti operativi in Sudafrica in collaborazione con la Korea Resources Corporation), nonché delle australiane Greenland Minerals and Energy Ltd. e Lynas Corporation (entrambe quotate alla Australian Securities Exchange, principalmente interessate al territorio della Groenlandia la prima e della Malaysia la seconda), porterà ad un aumento della produzione che equivarrà ad un incremento dell’offerta e, sostanzialmente, ad una maggiore stabilità dei prezzi.
 
Stando ad alcuni studi specializzati, il progressivo scioglimento dei ghiacciai nell’area della Groenlandia sta facendo emergere terreni in precedenza impraticabili e, di conseguenza, sta portando a maggiori possibilità estrattive in materia di terre rare.
Secondo i dati dell’azienda australiana Greenland Minerals and Energy, le riserve presenti nell’area meridionale della Groenlandia potrebbero costituire circa il 9% di tutti gli attuali giacimenti esistenti, con una capacità di estrazione di circa 40.000 tonnellate annue.
Si ipotizza quindi che, in base a tali potenzialità, sia possibile soddisfare per oltre cinquanta anni il 25% della domanda mondiale di terre rare (l’elemento inferenziale in questo caso è ovviamente determinato dalle attuali percentuali di richiesta di queste materie).
La Groenlandia fino ad oggi è stata considerata molto attraente dagli investitori internazionali principalmente per la propria stabilità politica, un facile accesso ai trasporti delle merci via mare e un sistema burocratico molto snello ed efficiente.
Un aumento delle attività estrattive e un’adeguata politica di imposizione di royalties, ovvero dei diritti che le aziende minerarie dovranno versare per lo sfruttamento del sottosuolo groenlandese, oltre ad apportare innegabili benefici al Paese, contribuirebbero ad una maggiore indipendenza economica del paese dalla Danimarca.
 
Si discute molto su quali progetti possano ritenersi prioritari.
Dagli stessi ambienti governativi è stato reso noto che una delle prime concessioni (di durata trentennale) è stata affidata alla società britannica London Mining per un progetto denominato «Isua», probabilmente uno dei più grossi investimenti per l’estrazione di minerali di ferro.
Il progetto prende il nome dall’area prescelta, appunto nella località di Isua, che dista circa 150 chilometri dalla capitale groenlandese Nuuk, e il relativo impianto potrebbe produrre ogni anno 15 milioni di tonnellate di concentrato di minerale di ferro di altissima qualità per l'industria siderurgica.
La società britannica ha già reso nota l’inclusione nel progetto di altri partner esteri e non si esclude il coinvolgimento di circa 3 mila unità di tecnici cinesi, specializzati nel settore e pronti a trasferirsi in Groenlandia (una cifra considerevole se rapportata alla popolazione di circa 56 mila abitanti dell’isola).
 
Il ricorso alla tecnologia e alla manodopera specializzata è di fondamentale importanza nel settore, stante le specificità del territorio: solo il 15% di esso, infatti, è privo di ghiaccio, mentre la parte restante è costituita dalla calotta polare, con uno spessore di circa 3 chilometri nei picchi più alti e per una superficie complessiva pari a 1,71 milioni di chilometri quadrati.
La coalizione di governo di Hammond è perfettamente cosciente che la decisione presa comporterà dei rischi dovuti alle varie fasi di estrazione e trattazione di materiali radioattivi, in particolare dal punto di vista ecologico.
Non a caso, non sono mancate aspre critiche da parte degli ambientalisti locali e di Greenpeace, incentrate sul pericolo che nei depositi interessati possano esserci materiali altamente radioattivi.
Altre polemiche hanno inoltre posto l’accento sull’assenza in Groenlandia di un quadro legislativo in grado di circoscrivere i rischi connessi a una massiccia invasione in quei territori di aziende multinazionali con migliaia di lavoratori al seguito.
 
Al Greenland Home Rule Government (il Parlamento Groenlandese), spetta ora il compito di bilanciare tali timori con i paventati benefici.
Riuscire a sfruttare l’opportunità di divenire un polo di riferimento per il mercato mondiale delle terre rare potrebbe infatti costituire una sicurezza per il futuro della Groenlandia e, in tal senso, portare a nuovi passi in avanti verso l’indipendenza dalla Danimarca.
Quest’ultima, dal canto suo, dovrà in ogni caso dare il proprio consenso all’avvio delle attività estrattive. Un ottimo incentivo, in tal senso, è costituito dalla possibilità, per Copenaghen, di poter esercitare una serie di diritti sui guadagni dell’isola continentale e dalla prospettiva di inserimento nei mercati fino ad oggi appannaggio di Canada, Kazakistan e Australia.
Il governo danese dovrà comunque provvedere a soddisfare le richieste dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (l’AIEA) circa le garanzie di non proliferazione nucleare e, conseguentemente, dotarsi di un idoneo sistema di controllo sia per la fase estrattiva che per la conseguente esportazione (al riguardo, fonti danesi riferiscono che è già in parte realizzato un protocollo specifico che favorisce le ispezioni finalizzate al monitoraggio dei siti estrattivi, allo stato operativo delle attività e alla stima annua della produzione).
 
Pietro Lucania
(Ce.S.I)

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