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Le nuove politiche di antiterrorismo cinesi – Di Alberto Parisi

Come intende la Cina far fronte ai «tre mali» costituiti da terrorismo, estremismo e separatismo tra Xinjiang, Asia Centrale e Medio Oriente

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La crescente instabilità nella regione nord-occidentale dello Xinjiang, territorio strategico non solo per la presenza di preziose risorse minerarie ma soprattutto perché punto di transito verso l’Asia Centrale e i territori mediorientali, sta rappresentando un fattore di seria criticità per i progetti di proiezione economica e politica di Pechino verso occidente.
Principali ostacoli a questi progetti sono le frequenti tensioni, spesso sfociate in violenti scontri e atti di violenza, tra le Forze di sicurezza cinesi e l’autoctona popolazione uigura, di fede islamica sunnita e di etnia turca, che rivendica l’indipendenza di questa regione dalla Cina e, conseguentemente, si oppone alle politiche di Pechino nell’area.

Dopo secoli di alterne vicende, che lo videro conteso tra le dinastie cinesi e gli imperi e regni musulmani centro-asiatici, lo Xinjiang divenne parte della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, prima come provincia e dal 1955 come Regione autonoma.
Il nome Xinjiang, con il quale viene comunemente indicato, proviene dal cinese mandarino e significa «nuova frontiera», mentre per la popolazione musulmana locale il termine preferito è «Turkestan Orientale», che richiama i legami storici, culturali ed etnici con le altre comunità ed entità statuali turcofone dell’Asia Centrale.
Da «nuova frontiera», periferica e poco sviluppata, lo Xinjiang dovrebbe trasformarsi, nei piani di Pechino, in un «nuovo centro».
Le autorità centrali vorrebbero trasformare l’area in un hub per l’approvvigionamento di idrocarburi dall’Asia centrale, svilupparvi nuove rotte commerciali verso i mercati europei e sfruttarne i ricchi giacimenti petroliferi presenti soprattutto nei territori settentrionali della regione.
Gasdotti e oleodotti, così come le strade e le ferrovie di quella che Pechino ha definito «nuova via della seta», attraverseranno lo Xinjiang e i Paesi dell’Asia centrale e del Medio Oriente.
La necessità di garantire, innanzitutto, la stabilità interna è pertanto essenziale per il raggiungimento di tali obiettivi.
 
A tal fine Pechino, in particolar modo negli ultimi decenni, ha implementato due politiche complementari. La prima è stata quella di favorire l’afflusso di cinesi di etnia Han nella regione con l’obiettivo di sinizzare lo Xinjiang, cercando così di disinnescare attraverso la via demografica il potenziale destabilizzante di una preponderante presenza uigura.
La percezione da parte della popolazione autoctona però è stata quella di una vera e propria colonizzazione: l’arrivo di popolazioni Han è stata infatti talmente massiccia da far passare la percentuale di popolazione uigura nello Xinjiang dal 73% del 1953 al 43% del 2010 e a far crescere quella Han, nello stesso lasso di tempo, dal 7 al 41%.
La seconda politica è stata quella di modernizzare per favorire una crescita economica che, attraverso l’aumento della ricchezza, anestetizzasse le rivendicazioni separatiste e aumentasse la percezione dei benefici del legame con Pechino.
Questa si è concretizzata attraverso una sempre più sostenuta industrializzazione e con la costruzione di un imponente network dei trasporti, alimentando però principalmente timori e reazioni negative da parte degli uiguri, che hanno visto in questi progetti un attacco alla propria identità tradizionale e un ulteriore incentivo alla migrazione interna.
 
Tali politiche, e la marginalizzazione sociale ad esse connessa, non avrebbero quindi raggiunto il loro scopo, e anzi avrebbero alimentato nel tempo un movimento separatista che ha visto crescere al suo interno gruppi insurrezionali armati di matrice islamica.
A partire dagli anni ’90 tali organizzazioni hanno stretto rapporti sempre più frequenti con altre realtà insurrezionali presenti tra l’Asia Centrale e il Sud Est Asiatico, soprattutto nelle aree tribali del Pakistan e in Afghanistan, contatti che hanno permesso ai combattenti uiguri non solo di acquisire expertise operative ma anche di entrare in contatto con il network del terrorismo internazionale afferente ad al-Qaeda.
Emblematico in proposito il caso dell’East Turkestan Islamic Movement (ETIM), principale organizzazione separatista uigura di ispirazione islamista la cui base operativa si troverebbe nell’area tribale del Nord Waziristan pachistano e che intratterrebbe rapporti sia con i talebani pachistani sia con la galassia jihadista che trova rifugio in quest’area, in particolare con il Movimento Islamico dell’Uzbekistan.
Pechino ha accusato l’ETIM di essere il responsabile dei recenti attentati terroristici in Cina, che si sono distinti dagli attacchi precedenti per essere stati portati a termine fuori dallo Xinjang, aver colpito indiscriminatamente i civili e per il ricorso ad attentatori suicidi.
Tra questi i più drammatici e simbolici sono gli attentati compiuti contro le stazioni ferroviarie di Kunming, Urumqi e Guangzhou nella primavera di quest’anno e l’attacco suicida avvenuto il 28 ottobre a Piazza Tienanmen, quando una macchina si è lanciata tra la folla nei pressi del grande ritratto di Mao, arrivando quindi a colpire il cuore dello Stato.
 
All’attività terroristica interna dei gruppi uiguri e ai timori legati all’aumento dell’efficacia delle loro azioni per l’addestramento ricevuto all’estero, un ulteriore fattore di rischio per la Cina proviene dalle minacce di al-Qaeda e dello Stato Islamico (IS).
Le due realtà jihadiste hanno recentemente identificato nella Cina uno dei Paesi nemici dei musulmani, a causa di quella che viene considerata come l’occupazione di una terra islamica, lo Xinjiang, e la repressione e discriminazione subita dai suoi abitanti musulmani.
L’eventuale inquadramento dei militanti locali nel più ampio scenario jihadista globale potrebbe aumentare ulteriormente il potenziale offensivo di queste organizzazioni.
La presenza, inoltre, di almeno 100 combattenti uiguri in Siria e Iraq tra le fila dell’IS, con il loro temuto rientro in Cina, potrebbe contribuire a fornire maggiore competenza militare e un’ulteriore penetrazione dell’ideologia jihadista tra la popolazione.
A fronte di tali minacce, Pechino ha implementato fino ad ora attività antiseparatiste e antiterroristiche strutturatesi principalmente attraverso politiche repressive interne, con la presenza delle Forze Armate che è progressivamente aumentata nel corso degli ultimi anni sia nella capitale Urumqi che nelle altre principali città della regione, così come capillare è tuttora la presenza di informatori locali, che ha assunto anche le forme di una mobilitazione attiva di circa 30.000 civili nelle azioni antiterroristiche condotte durante l’estate.
Nuove misure prevedono inoltre, entro i prossimi due anni, un dispiegamento di 200.000 quadri del Partito Comunista Cinese nell’area in funzione di controllo e intelligence.
Importanza particolare ha ricoperto inoltre l’attività di monitoraggio su Internet riguardante il materiale di propaganda e addestramento jihadista, che si è configurata anche come un imponente lavoro di censura: nel 2012 il 25% dei commenti pubblicati sui social media provenienti dalla regione sono stati rimossi.
 
La natura globale delle minacce jihadiste e le sempre più strette connessioni internazionali dei gruppi separatisti uiguri impongono però oggi a Pechino l’implementazione di un’attività antiterroristica che preveda un maggiore impegno fuori dai confini nazionali.
Questa si svolge principalmente all’interno della cornice dell’Organizzazione della Cooperazione di Shangai (SCO) e della sua Struttura di Anti-Terrorismo Regionale (RATS).
Fondata da Cina, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Russia, Tajikistan e Uzbekistan, la SCO è nata con l’obiettivo principale di garantire la sicurezza nella regione centro-asiatica, unificando la lotta comune nei sei Paesi contro i «tre mali» costituiti da terrorismo, estremismo e separatismo.
Un focus particolare è rappresentato dal comune timore di contagio che potrebbe venire dallo Xinjiang, regione che riconosciuta da tutti i membri come fondamentale per la stabilità dell’area. La SCO si configura come un organismo di consultazione intergovernativo, mentre la RATS rappresenta la cornice di una cooperazione militare che punta a rafforzare le capacità di contrasto al terrorismo dei Paesi membri.
Tra le azioni intraprese all’interno della RATS ci sono le esercitazioni militari congiunte denominate Peace Mission, iniziate nel 2003. Queste si sono svolte a rotazione nei diversi Paesi appartenenti all’Organizzazione di Shangai, con un contributo preponderante di truppe e mezzi da parte di Cina e Russia.
Nonostante l’importanza rappresentata dalla nascita dell’Organizzazione di Shangai e della sua Struttura di Anti-Terrorismo Regionale, la delicatezza della tematica per i sottili equilibri nella regione e la conseguente cautela con cui i governi coinvolti si approcciano alle diverse iniziative ne rappresentano ancora i principali limiti.
 
Un ulteriore strumento del quale la Cina si sta dotando è un nuovo centro antiterrorismo, la cui futura costituzione è contenuta in una bozza di legge presentata al Comitato Permanente dell’Assemblea Nazione del Popolo, che avrà il compito di coordinare e ottimizzare la raccolta di informazioni nel campo della sicurezza e della prevenzioni di attacchi.
La nuova agenzia coordinerà e punterà a concentrare il più possibile le azioni e le politiche antiterroristiche, mettendo in comunicazione gli uffici governativi, militari e di polizia che si occupano del tema. La nuova agenzia intende inoltre promuovere una maggiore cooperazione a livello internazionale.
L’obiettivo della costituzione di tale centro antiterrorismo, che dovrebbe avvenire contestualmente all’approvazione di una legge che razionalizzi le diverse legislazioni sul tema attualmente in vigore, è quello di superare i limiti evidenziatisi fino ad ora nella lotta al terrorismo.
Al di fuori della cornice strettamente legata alla SCO, e in attesa dell’istituzione del nuovo centro antiterrorismo, l’attenzione di Pechino si è dovuta concentrare principalmente verso il Pakistan e l’Afghanistan.
La politica cinese in materia riguardo il Pakistan si configura principalmente attraverso forti pressioni sulle autorità civili e militari di Islamabad per individuare e colpire le cellule jihadiste, oltre che per impedire il passaggio di miliziani attraverso le sue frontiere.
Per quanto riguarda l’Afghanistan, l’interesse cinese verso il difficile processo di stabilizzazione del Paese e la sicurezza delle frontiere ha portato nel 2012 al la prima visita ufficiale di un leader politico cinese di alto livello in Afghanistan dal 1966: Zhou Youngkang, membro del Comitato Permanente dell’ufficio politico del Partito Comunista Cinese, ha incontrato l’allora presidente Hamid Karzai con l’obiettivo dichiarato di voler contribuire a garantire la tenuta istituzionale del Paese in vista del progressivo ritiro delle Forze militari statunitensi e NATO.
Questo primo contatto ha avuto nell’anno in corso due importanti sviluppi: l’incontro tra Hamid Karzai e il suo omologo cinese Xi Jinping a Shangai, lo scorso maggio, e la visita del neo Presidente Ashraf Ghani a Pechino, in ottobre, nel corso del quale il tema della sicurezza è stato individuato come terreno comune di cooperazione tra i due Paesi, e la creazione da parte di Pechino della figura di un Inviato Speciale per l’Afghanistan, ruolo che verrà ricoperto dall’ex ambasciatore in Afghanistan e India Sun Yuxi. Operando in collaborazione con il Ministero degli Esteri, Yuxi coordinerà le politiche comuni tra i due Paesi per impedire che il disimpegno delle forze occidentali trasformi l’Afghanistan in una zona franca per i jihadisti centro-asiatici.
L’attenzione per l’Afghanistan è condiviso da Pechino con India, Russia e Pakistan.
Con tutti questi Paesi la Cina ha tenuto nell’ultimo anno incontri diplomatici di alto livello, ma i divergenti interessi degli attori rispetto al dossier afghano rendono però difficile l’adozione delle necessarie politiche comuni.
 
Resta ancora piuttosto timido, invece l’impegno del governo cinese in Medio Oriente: sebbene la Cina abbia appoggiato la Risoluzione 2170 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni, che condanna i gruppi estremisti in Siria e Iraq e promuove sanzioni contro lo Stato Islamico e i suoi affiliati, Pechino ha comunque deciso di non aderire alla coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti e, dunque, di non inviare truppe né di fornire direttamente alcun supporto alle operazioni militari.
La decisione di non intervenire sembra essere stata presa sia in ossequio alla tradizionale politica cinese di non ingerenza negli affari interni di altri Stati, soprattutto se non strettamente connessi ai propri interessi strategici, sia per il timore che azioni dirette in Medio Oriente possano alimentare il sentimento anti-cinese all’interno della comunità musulmana nel Paese, creando così terreno fertile per la penetrazione dell’agenda jihadista all’interno dei propri confini nazionali, con ovvie ripercussioni sulla sicurezza e la stabilità interna.
Nonostante la scelta di non prendere parte attivamente alla campagna contro lo Stato Islamico in Medio Oriente, l’interesse di Pechino di rafforzare il proprio impegno in materia di antiterrorismo potrebbe comunque rappresentare un prezioso punto di contatto per ampliare i dossier di collaborazione con la Comunità Internazionale, in primis con l’Amministrazione statunitense.
Come confermato dal Presidente Obama a margine del vertice APEC (Asia- Pacific Economic Cooperation), tenutosi a Pechino nella seconda settimana di novembre, Washington sta guardando al rinnovato interesse per le politiche di antiterrorismo come ad un’opportunità di rafforzare la cooperazione bilaterale in materia, approfondendo così quelle convergenze che, già dal 2002, hanno portato le due parti ad istituire consultazioni ad alto livello per discutere di sicurezza e di contro-terrorismo.
Benché al momento appaia alquanto improbabile, un eventuale intervento cinese in Medio Oriente potrebbe permettere alle Forze Armate di Pechino di acquisire una maggiore expertise in operazioni su vasta scala.
 
Al momento, tuttavia, l’interesse di Pechino non sembrerebbe volgere tanto nella direzione di affermarsi come uno degli attori principali nella lotta al terrorismo, soprattutto di matrice jihadista, quanto in quella di cercare di scongiurare il deterioramento delle condizioni di sicurezza nelle regioni maggiormente strategiche per il proprio interesse nazionale.
Questa tendenza, infatti, si è concretizzata, da un lato, nel tentativo di incrementare i rapporti con i governi dell’Asia Centrale, nonché con quello pachistano e afghano, per mettere in sicurezza le rotte commerciali che, nei prossimi anni, dovrebbero solcare questi territori (la così detta nuova via della seta), dall’altro nell’applicazione di politiche sempre più repressive nei confronti della comunità uigura per cercare di reprimere il dissenso proveniente dall’interno dei propri confini nazionali e per scongiurare che una regione tanto strategica quanto lo Xinjiang si possa trasformare in una nuova spinta per il terrorismo internazionale di matrice islamica.
 
Alberto Parisi
(Ce.S.I.)

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