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La Turchia tra paralisi politica e ripresa del conflitto col PKK

La stagione di attentati e azioni intimidatorie rischia di protrarsi nel Paese a prescindere dall’esito delle elezioni del 1° novembre

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Verso la fine di agosto, il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha indetto nuove elezioni per il prossimo 1° novembre, dopo che la tornata elettorale del 7 giugno scorso non ha prodotto una maggioranza in grado di governare.
Il Partito Giustizia e Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi, AKP) ha perso, per la prima volta dal 2002, la maggioranza assoluta dei seggi (pur conservando quella relativa) ed è stato costretto a cercare un Governo di coalizione.
Le consultazioni fra i partiti rappresentati in Parlamento, guidate dal Premier ad interim Ahmet Davutoglu, però, si sono protratte per quasi tre mesi senza successo, bloccate da veti incrociati e dalla reciproca diffidenza.
Di fronte alla crescente paralisi politica, il Presidente Erdogan ha quindi indetto nuove elezioni, scartando la possibilità (prevista dalla Costituzione anche se non vincolante) di affidare un mandato esplorativo al Partito Popolare Repubblicano (Cumhuriyet Halk Partisi, CHP), arrivato secondo alle ultime elezioni.
Tale decisione risponde certamente alla volontà di evitare un accordo in extremis fra il CHP, il Partito del Movimento Nazionalista (Milliyetçi Hareket Partisi, MHP) e il Partito Democratico Popolare curdo (Halkların Demokratik Partisi, HDP), che avrebbe estromesso l’AKP dalla guida del Paese e, di conseguenza, avrebbe fatto naufragare definitivamente il principale progetto politico di Erdogan, ovvero la modifica dell’assetto istituzionale in direzione di un presidenzialismo forte.
Tale modifica entrerebbe immediatamente in vigore qualora raccogliesse in Parlamento una maggioranza qualificata corrispondente ai due terzi dei voti.

Allo scopo di raggiungere questa soglia, durante le consultazioni l’AKP ha seguito un doppio binario.
Da un lato, l’AKP ha tentato di indicare all’elettorato un’unica opzione come garanzia di stabilità politica, ovvero un Esecutivo monocolore, che soltanto esso può formare.
Infatti, il CHP, principale partito di opposizione, ha raccolto soltanto il 26% dei voti e nel prossimo futuro potrebbe non riuscire a migliorare tale risultato tanto da guadagnare la maggioranza assoluta. Inoltre, le agende delle opposizioni divergono su molti temi fondamentali, ragion per cui un eventuale futuro governo di coalizione avrebbe con tutta probabilità vita breve e faticherebbe nel produrre risposte rapide ai problemi del Paese.
Dall’altro lato, l’AKP ha tentato di mettere in difficoltà il partito filo-curdo HDP, il cui ingresso in Parlamento gli ha sottratto quei seggi necessari per ottenere almeno la maggioranza assoluta.
Infatti, il sistema elettorale della Turchia prevede una ripartizione dei seggi che premia il primo partito, garantendogli una cospicua sovra-rappresentanza, solo nel caso in cui poche formazioni superino l’altissima soglia di sbarramento del 10%.
L’HDP, che aspira a diventare l’interlocutore politico dell’intera minoranza curda, ha ottenuto il 14% dei voti grazie ai promettenti passi avanti nel processo di pace con il PKK (Partîya Karkerén Kurdîstan, Partito Curdo dei Lavoratori), che prospettava la fine di decenni di lotta armata e l’avvio di una normalizzazione dei rapporti fra Stato e curdi.
In tal senso l’interruzione dei negoziati e l’avvio delle operazioni militari contro il PKK, iniziata alla fine di luglio e affiancata anche da un maggiore impegno turco nella lotta allo Stato Islamico, ha come effetto quello di mettere in questione la stessa legittimità politica dell’HDP.
Infatti, l’HDP si è trovato a dover bilanciare il netto rifiuto della lotta armata, grazie al quale si era ritagliato un ruolo di mediazione fra Stato e PKK, con la necessità di difendere la causa curda per non perdere consensi preziosi.
L’azione politica dell’HDP è resa più complessa sia dalla retorica polarizzante di Erdogan e dei vertici dell’AKP, che mira a tacciare di connivenza con l’organizzazione terroristica qualsiasi posizione non allineata con le operazioni anti-terrorismo dell’Esercito, sia dal vasto sostegno popolare che il PKK ha dimostrato, soprattutto in passato, di poter ottenere in particolare nel sud-est della Turchia, ovvero l’area dove l’HDP ha raccolto il maggior numeri di voti.
 
Nonostante i ripetuti appelli rivolti al PKK dal leader dell’HDP Selahattin Demirtaş, nei quali ha chiesto un cessate il fuoco unilaterale, i militanti curdi hanno continuato a colpire la Polizia e l’Esercito turco con attentati e azioni di guerriglia.
Mentre in vaste aree del sud-est del Paese è stato imposto il coprifuoco e sono state dichiarate diverse «zone temporanee di sicurezza» funzionali alle operazioni dell’Esercito, i militanti del PKK esercitano, di fatto, il controllo di decine di villaggi e città, i cui accessi sono bloccati da check-point.
Recentemente il PKK ha alzato il livello dello scontro con attentati come quello di Daglica, dove due mine azionate a distanza sono esplose al passaggio di blindati dell’Esercito turco e i soccorritori sono stati ingaggiati in uno scontro a fuoco durato ore.
In rappresaglia, l’Esercito ha lanciato raid aerei sulle montagne di Kandil, al confine con l’Iraq, dove si trova il quartier generale del PKK, e ha inviato truppe di terra nel Kurdistan iracheno.
La decisione del PKK di proseguire nell’escalation potrebbe portare effetti contrastanti per il gruppo terroristico. Infatti, una prolungata situazione di instabilità nuocerebbe a Erdogan, che si potrebbe trovare, nel prossimo futuro, a dover fronteggiare il crescente malumore di larga parte della società, con aree del Paese al di fuori del controllo statale e un’economia sempre più in affanno, rischiando di perdere consensi. Qualora l’intransigente posizione dell’attuale Presidente diventasse insostenibile, un’eventuale riapertura del tavolo negoziale consegnerebbe al PKK una maggiore forza contrattuale.
Pertanto, è probabile che il PKK aumenti il numero di attentati e cerchi di consolidare il controllo nelle province del sud-est, in modo da rendere impossibile un regolare svolgimento della tornata elettorale del 1° novembre.
 
Tuttavia, per il gruppo terroristico una lotta armata a oltranza si potrebbe rivelare controproducente. Infatti, il prosieguo di attentati contro le infrastrutture energetiche nell’area a ridosso del confine turco-iracheno danneggerebbe considerevolmente i rapporti economici sempre più stretti fra Ankara e Erbil.
La sicurezza della zona rientrerebbe fra le priorità di qualsiasi Governo turco, a prescindere dall’esito delle prossime elezioni, e troverebbe una sicura sponda nel presidente del Kurdistan iracheno Masoud Barzani.
La perdita della regione di Kandil sarebbe un grave colpo per il PKK, ma con tutta probabilità non sufficiente a costringerlo a interrompere la lotta armata.
Infatti, tale eventualità non farebbe altro che accelerare un processo già in atto, ovvero lo spostamento del grosso delle azioni del PKK dalle zone montuose e rurali verso i centri abitati, con una parallela ramificazione della leadership tale da impedire che poche azioni mirate dell’Esercito possano decapitare i vertici del gruppo e costringerlo alla resa.
Pertanto, esiste il pericolo concreto che l’attuale nuova stagione di instabilità trascini la Turchia in un conflitto a bassa intensità che rischia di protrarsi nel tempo.
L’Esercito potrebbe trovarsi di fronte a uno scenario di guerriglia urbana di difficile gestione, che richiede l’uso di strumenti eccezionali come la dichiarazione dello «stato di emergenza» e l’impiego massiccio di reparti specializzati, mentre potrebbe impedire l’uso dei bombardamenti aerei.
Inoltre, il PKK ha dimostrato di godere di un notevole e rinnovato sostegno popolare e di disporre di buone capacità di reclutamento, soprattutto fra i giovani, sfruttando l’ambiguità della politica turca rispetto alla crisi siriana.
Infatti, non è un mistero che il governo di Ankara, nel contesto delle operazioni militari contro lo Stato Islamico in Siria, non abbia disdegnato di colpire anche le milizie curde impegnate nel contrasto al movimento terroristico di al-Baghdadi.
Una simile condotta ha generato una profonda indignazione nella comunità curda turca che, in alcuni casi, ha assunto tratti radicali ideali per far attecchire la propaganda del PKK.
 
In tal senso appare emblematico il caso di Cizre, città al confine con Iraq e Siria nella provincia di Şırnak caduta sotto il controllo del PKK, che nelle ultime settimane è stata completamente isolata dall’Esercito per costringere i militanti alla resa.
Le operazioni, però, sono limitate dall’attivismo di larga parte della popolazione, che funge consapevolmente da scudo per i militanti del PKK, e dall’intervento di numerosi rappresentanti dell’HDP che si sono prontamente recati sul posto.
Tali modificazioni delle caratteristiche del conflitto fra Turchia e PKK produrranno verosimilmente un aumento delle vittime civili, oltre a un incremento dei caduti tra le fila dell’Esercito.
Ciò potrebbe esasperare un clima già teso aumentando il malcontento di altri settori della popolazione anche nell’ovest del Paese, e in particolare potrebbe suscitare reazioni nei fautori di un nazionalismo intransigente.
È il caso di larga parte dei sostenitori del MHP, la cui pregressa e netta contrarietà al processo di pace col PKK, unitamente alla crescente instabilità e a una prolungata paralisi politica, potrebbe produrre risposte violente il cui bersaglio sarebbe individuato genericamente nella minoranza curda.
Questa eventualità è resa più probabile dalla scelta di buona parte dei vertici dell’AKP, nonché del Presidente Erdogan, di blindare il consenso verso il proprio operato tramite la promozione di manifestazioni di protesta contro i media vicini all’opposizione, considerati fautori di una linea troppo accondiscendente rispetto al PKK, da cui possono facilmente scaturire azioni violente condotte da parte dei manifestanti.
 
Pertanto, sia a causa del nuovo assetto territoriale del PKK, sia in forza della crescente intolleranza di settori della popolazione verso la minoranza curda, la stagione di attentati e azioni intimidatorie che ha caratterizzato la scorsa campagna elettorale rischia di protrarsi nel Paese a prescindere dall’esito delle elezioni del 1 novembre.
Tale eventualità è resa più probabile sia dall’atteggiamento intransigente dell’AKP, che continua a puntare a un Esecutivo monocolore esasperando i rapporti con le opposizioni, sia dalla buona tenuta dell’HDP in termini di consenso, che i sondaggi quantificano in un aumento di circa l’1%.
Pertanto, appare estremamente probabile che il voto anticipato consegni ai partiti un peso simile a quello guadagnato nella scorsa tornata elettorale, senza che siano immediatamente disponibili alternative politiche concrete.
 
Lorenzo Marinone
(Ce.S.I)

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