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Strumenti geopolitici dell'Italia nell'Artico: softpower e petrolio

Il prezzo del greggio così basso non giova all'Eni, ma la cooperazione economica con i paesi del Nord tornerà comunque a vantaggio del Paese

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Da sempre l’Artico rappresenta per il nostro Paese un’area d’interesse per l’esplorazione e la ricerca scientifica.
Molti viaggiatori italiani si sono spinti nei loro viaggi fino alla regione artica; basti pensare a Luca Amedeo di Savoia-Aosta (Duca degli Abruzzi), Umberto Nobile, con il suo dirigibile Italia o Silvio Zavatti, che addirittura imparò la lingua della popolazione indigena degli Inuit.
Per merito dei nostri esploratori, l’Artico ha acquisito nel corso della storia un interesse scientifico di grande importanza.
L’Italia è presente stabilmente in questa regione attraverso il CNR, che gestisce la Base Artica Dirigibile Italia (coordinata dal Polar Network del CNR) e finanzia la Amundsen-Nobile Climate Change Tower.
Grazie a questi meriti che potremmo definire «secolari», l’Italia nel maggio del 2013, durante il vertice di Kiruna, è entrata a far parte del Consiglio Artico come membro osservatore permanente.
Oltre ai riconoscimenti scientifici, l’Italia è riuscita ad ottenere questo status anche per gli intensi rapporti diplomatici e commerciali con i Paesi membri del Consiglio Artico.
Un ultimo fondamentale punto che ha giocato a favore del nostro Paese, molto apprezzato dagli Stati artici, è stato il fatto che l’Italia ha sempre avuto un importante coinvolgimento scientifico nello studio delle popolazioni artiche.
La posizione delle popolazioni indigene, infatti, è un punto prioritario nella politica degli Stati artici.
In aggiunta ai meriti strettamente legati alle attività che l’Italia ha portato avanti, sia dal punto di vista scientifico che diplomatico, bisogna anche riconoscere che negli ultimi anni si è verificata una notevole evoluzione nella prassi del Consiglio Artico.
L’allargamento, deciso durante il vertice di Kiruna, ha portato il numero degli Stati osservatori a 12, numero maggiore di quello degli Stati membri, senza contare le organizzazioni non governative e governative con le quali il numero dei partecipanti al Consiglio sale fino a 30.
Ciò ha trasformato il Consiglio Artico in una organizzazione ricca, complessa e articolata, sancendo una nuova politica proiettata verso l’esterno che dimostra come l’Artico stia diventando un affare d’interesse internazionale e non più regionale.
 
La zona artica negli ultimi 15 anni è diventata un’area di proiezione geopolitica da parte degli attori geograficamente contigui e non solo.
Il progressivo e rapido scioglimento dei ghiacci che porterà tra non molto a una navigabilità quasi annuale dei Passaggi a Nord Est e Nord Ovest (riducendo le rotte commerciali tra Asia ed Europa di migliaia di chilometri) e l’immensa quantità di risorse energetiche presenti al di sotto della piattaforma artica, hanno provocato una competizione geopolitica che negli ultimi anni ha acquistato sempre più importanza.
Lo status di membro osservatore permanente nel Consiglio Artico, significa per l’Italia tentare di annoverarsi tra gli attori internazionali che, in qualche modo, giocano questa partita.
È chiaro che i Paesi artici, beneficiando della contiguità territoriale con lo spazio artico, hanno la possibilità di utilizzare strumenti più diretti, sia in termini geopolitici che giuridici, dato che la prossimità territoriale da agio a questi Stati di rivendicare una vera e propria sovranità sul territorio.
Tuttavia l’Italia, attraverso la sua presenza scientifica e i suoi interessi economici, può tentare di competere in qualche modo a quelle che sono le sempre più appetibili risorse artiche.
La presenza di Eni in quest’area s’inserisce perfettamente nel contesto appena descritto. La multinazionale italiana è presente in Norvegia dal 1965 grazie a Eni Norge Upstream che opera nel settore dell’esplorazione e della produzione degli idrocarburi.
 
Le ricerche più promettenti sono connesse alla scoperta, avvenuta nel 2000, d’ingenti quantità d’idrocarburi nel Mare di Barents, in particolare nell’area di Goliat.
Qui si stima la presenza di circa 250 milioni di barili di petrolio. Alla luce di questa scoperta, Eni si è subito attivata per intraprendere un’attività di estrazione e nel giugno 2009, il parlamento norvegese ha approvato il Plan for Development and Operation (PDO), che autorizza Eni a operare nell’area di Goliat.
La costruzione della FPSO (Floating and Production Storage Offloading Unit) è stata affidata alla Hyundai Heavy Industries nel 2010.
Goliat è la prima piattaforma in assoluto che opererà nel settore norvegese del Mare di Barents. Secondo le aspettative, sarà il più importante e proficuo progetto nel settore Oil&Gas nella zona Artica; inoltre, secondo quanto emerge dagli obiettivi indicati dall’azienda, sembra rispondere alle sfide tecniche, economiche, ambientali e sociali che si presenteranno.
Il progetto comprende intorno ai 43 miliardi di euro d’investimento diretto e ulteriori spese future di circa 1 miliardo di euro l’anno.
Secondo le statistiche, le imprese e le popolazioni locali beneficeranno di circa un terzo degli investimenti.
Per la popolazione della regione del Finmark e in generale per la Norvegia del Nord, dato che la piattaforma dovrà restare a largo del Mare di Barents per almeno 15 anni, gli spin-off, dal punto di vista economico e finanziario, potrebbero risultare molto positivi.
Eni-norge infatti, attraverso la collaborazione con PetroArctic, Lofoten e Vesteralen Petro, ha reso possibile il coinvolgimento del business locale nello sviluppo delle operazioni di Goliat. Eni ha anche assunto forza lavoro locale e firmato contratti con fornitori regionali.
 
Inoltre, Eni si è impegnata a rispettare la volontà e gli interessi della popolazione indigena Sami, attraverso una vera e propria «Policy on Indigenous People».
La multinazionale, come si legge nel documento in questione, s’impegna a consultare la popolazione Sami prima di ogni decisione, elaborando congiuntamente ad essa la migliore strategia affinché le operazioni svolte non ledano i diritti, le abitudini, la cultura e l’ambiente della popolazione indigena.
Infine, in risposta alla questione ambientale nel Mare di Barents, Eni ha stanziato intorno ai 5 milioni di euro finalizzati a progetti di ricerca. Questi ultimi hanno lo scopo di sviluppare la capacità di utilizzare tecnologie nel rispetto dell’ambiente, pratiche sostenibili e prontezza nelle emergenze climatiche.
La piattaforma è stata progettata per operare in condizioni climatiche ostili (soprattutto per quanto riguarda la stagione invernale), in un’area che gli esperti Eni chiamano «the Manageable Arctic».
Si stima che la piattaforma possa resistere alle condizioni climatiche e ambientali artiche per circa 100 anni e dovrebbe riuscire a produrre 100.000 barili di petrolio al giorno.
L’inizio delle operazioni è previsto per il 2016.
 
La multinazionale italiana è a un passo dal condurre la più grande operazione di estrazione di petrolio che sia stata mai messa in atto nella parte più a nord del pianeta (circa 300 miglia dal Circolo Polare Artico).
Eni tuttavia, nonostante le grandi ambizioni del progetto, potrà incontrare degli ostacoli dal punto di vista economico: l’esperienza di Shell e quella di Statoil mettono in guardia da qualsiasi illusione.
Queste grandi società si sono ritirate poco tempo fa dal territorio, dopo che gli insormontabili costi di estrazione e l’abbassamento del prezzo del petrolio hanno reso svantaggiosa la loro permanenza nelle acque artiche.
Secondo uno studio da parte di alcuni analisti norvegesi, Eni, per poter pareggiare il proprio bilancio, avrebbe bisogno di un prezzo del petrolio di circa 95$ al barile.
Per Credit Suisse invece, Eni ha bisogno che il prezzo oscilli intorno ai 100$, mentre per Citigroup 120$. Al contrario, Claudio Descalzi, CEO di Eni, assicura che 55$ al barile sono sufficienti per raggiungere il pareggio.
Anche se così fosse, il progetto presenta notevoli vulnerabilità economiche. Il prezzo al barile odierno è di 45$ e si prospetta che possa scendere fino a 20$, come riportato da Goldman Sachs. I costi di estrazione sono molto alti e un’economia del petrolio così svantaggiosa non gioca di certo a favore di Eni.
 
Tuttavia, dal punto di vista geopolitico, possiamo intravedere in Goliat il frutto di ottimi rapporti diplomatici e commerciali intrattenuti bilateralmente con gli Stati artici (in questo caso la Norvegia).
Si vede perfettamente come l’Italia, attraverso la sua presenza scientifica, le buone relazioni diplomatiche con gli Stati artici, i comuni interessi commerciali, la cooperazione economica e quindi gli strumenti che generalmente vengono definiti di «soft power», possa portare avanti i propri interessi nell’Artico, date le ottime prospettive future che questa zona riserva.
 
Manuele Poli
(Ce.S.I.)

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