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Cosa sta succedendo in Afghanistan – DI Francesca Manenti

La competizione tra talebani e daesh per la destabilizzazione dell'Afghanistan

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I violenti attentati succedutisi in Afghanistan nel corso dell’ultima settimana hanno riportato drammaticamente l’attenzione internazionale sulle precarie condizioni di sicurezza all’interno del Paese.
L’attacco suicida compiuto sabato 27 gennaio nei pressi del distretto commerciale di Chicken Street (area dedicata ad uffici governativi e rappresentanze diplomatiche straniere), che ha causato la morte di 95 persone e più di 200 feriti, è stato solo il più sanguinoso tra gli episodi che stanno riacutizzando le violenze contro la popolazione civile e gli apparati istituzionali.
La causa alla base di questa nuova spirale di destabilizzazione è da ricercarsi nel consolidamento all’interno del Paese delle attività dei due principali gruppi militanti, in lotta sia contro il governo centrale sia contro la presenza di Forze Armate straniere presenti sul territorio: i talebani e la branca regionale del così detto Stato Islamico, conosciuta con il nome di ISIS nel Khorasan.
Rivendicato dai talebani, infatti, l’attentato di sabato scorso è giunto ad una settimana dall’assalto compiuto dal gruppo contro l’Hotel Intercontinental di Kabul, durante il quale sono rimaste uccise 22 persone tra cui 14 stranieri, e a poco più di tre giorni dal raid condotto contro l’organizzazione non governativa Save the Children a Jalalabad (capoluogo della provincia orientale di Nangharar), rivendicato dal gruppo jihadista affiliato a Daesh.
 
La sequenzialità degli attacchi sembra aver messo in evidenza l’esistenza di una sorta di competizione tra l’insorgenza talebana e la realtà legata al Califfato iracheno per mettere a repentaglio la già precaria tenuta del governo centrale ed espandere il proprio controllo all’interno del Paese.
Per quanto entrambi non riconoscano come legittimo l’attuale sistema istituzionale afghano, non esiste una convergenza politica e strategica tra i due gruppi, i quali, al contrario, si trovano spesso in conflittualità sul terreno per portare avanti la propria agenda.
 
I talebani sono il principale gruppo di insorgenza interno all’Afghanistan, in lotta contro le autorità di Kabul dal 2001, in seguito all’inizio dell’Operazione internazionale Enduring Freedom che aveva portato alla caduta del loro governo (l’Emirato Islamico d’Afghanistan, 1996-2001).
Se, in passato, la composizione etnico-tribale del gruppo ne aveva facilitato il radicamento prevalentemente nelle regioni meridionali (Kandahar ed Helmand), orientali (Paktika, Khost, Logar, Nangharar) e in qualche distretto a macchia di leopardo nel resto del Paese, in cui la composizione del tessuto sociale aveva favorito l’osmosi con le comunità pashtun locali, nel corso degli ultimi diciassette anni la capacità operativa dei militanti sul terreno, da un lato, e le difficoltà del governo centrale a farsi riconoscere come unica autorità legittima dalla popolazione, dall’altra, hanno consentito al movimento di espandere notevolmente la propria presenza all’interno dei confini nazionali.
Ad oggi, infatti, circa il 45% dei distretti che compongono l’Afghanistan (su un totale di 398) sono sotto il controllo totale dei talebani o contesi alle Forze Armate Afghane (Afghan National Security Forces – ANSF).
In particolare, il gruppo è nel tempo riuscito ad estendere la propria area di diretta influenza ben al di là delle tradizionali roccaforti e a conquistare il favore della popolazioni in aree strategiche, quali le province settentrionali al confine con l’Asia Centrale, di fondamentale importanza per il controllo delle rotte dei traffici illeciti verso il Tajikistan, l’Uzbekistan e il Turkmenistan.
 
La presenza capillare dei militanti sul campo è lo strumento più efficace a disposizione della leadership politica del gruppo (la Shura di Quetta), per dimostrare il peso del movimento all’interno degli equilibri nazionali e, conseguentemente, per incrementare il proprio margine di manovra in qualsiasi tavolo negoziale si dovesse aprire per trovare una soluzione a quasi due decenni di instabilità interna.
I vertici dei talebani, infatti, attualmente capeggiati dal leader Hibatullah Akhundzada, stanno puntando a ritagliarsi un ruolo politico all’interno del futuro governo nazionale, giudicato ad oggi non rappresentativo di tutte le istanze che animano la popolazione afghana.
L’inclusione di rappresentanti talebani tra le fila del governo di Kabul è considerata dai talebani la conditio sine qua non per riaprire il dialogo di pace con le autorità centrali, attraverso il quale dare avvio al processo di riconciliazione nazionale.
Sebbene negli anni scorsi l’attuale Presidente Ashraf Ghani avesse paventato la possibilità di scendere ad un iniziale compromesso e aprire alla partecipazione di rappresentanti talebani all’interno della squadra di governo, la marginalità delle posizioni offerte aveva spinto la Shura a rifiutare l’offerta e a portare avanti le operazioni di insorgenza per ribadire i rapporti di forza tra le parti.
 
L’aspirazione di tornare a ricoprire un ruolo politico all’interno del Paese, tuttavia, aveva fino ad ora spinto il gruppo a condurre la propria attività prevalentemente contro obiettivi istituzionali, forze di polizia e ANSF, per non coinvolgere quella popolazione civile da cui sarebbe potuto dipendere il proprio successo all’interno della classe dirigente nazionale.
In questo contesto, i recenti attacchi della scorsa settimana sembrano aver segnato una sensibile modifica all’interno della consueta strategia operativa del gruppo. 
 
Tale cambiamento potrebbe essere stato dettato dalla volontà della leadership del gruppo di rispondere al rinnovato interesse degli Stati Uniti nel Paese.
Nel corso del primo anno della sua Amministrazione, infatti, l’attuale presidente Donald Trump ha profondamente rivisto la politica di progressivo disimpegno, impostata dal suo predecessore, sia autorizzando l’invio di ulteriori 3.000 uomini, in supporto al contingente attualmente dispiegato in teatro (11.000 soldati), sia espandendo la missione per includere ruoli combat, oltre a quelli di addestramento e training delle ANSF.
Il pugno di ferro adottato da Washinton nei confronti del gruppo si è manifestato anche nella decisione del Dipartimento del Tesoro statunitense di includere nella lista di soggetti attenzionati per terrorismo internazionale sei membri del network talebano, accusati di essere facilitatori chiave per il finanziamento e la pianificazione delle operazioni del gruppo.
In un momento in cui gli Stati Uniti stanno cercando di stringere il cerchio per indebolire la capacità organizzativa e operativa del movimento, i talebani sembrano aver voluto lanciare un netto segnale di forza non tanto a Kabul quanto all’alleato statunitense, per dimostrare la capacità di cui dispongono di influenzare profondamente la sicurezza interna.
 
La volontà dei talebani di dimostrare la propria forza sul campo si scontra inevitabilmente con l’attività e la presenza in Afghanistan della branca locale affiliata a Daesh, che negli ultimi due anni ha progressivamente intensificato la propria azione all’interno del Paese.
Nato nel gennaio 2015 dalla secessione di cellule del movimento talebano pakistano che avevano trovato rifugio in Afghanistan, il gruppo sembra ad oggi calamitare intorno al proprio nucleo quella galassia di gruppi jihadisti provenienti da diverse parti dell’Asia e avvezzi a considerare l’Afghanistan un privilegiato campo di addestramento.
Stabilita la propria enclave nella provincia orientale di Nangarhar, il gruppo ha saputo sfruttare l’immagine carismatica del Califfato iracheno per espandere la propria capacità di reclutamento anche all’interno della capitale, nella quale sarebbe riuscito a istituire tre cellule operative.
Disinteressata a qualsiasi progetto politico di lungo respiro, la leadership di ISIS nel Khorasan ha fino ad ora concentrato i propri sforzi per colpire prevalentemente la popolazione civile e la minoranza sciita. 
 
La mancanza di supporto tra le comunità locali e, soprattutto, la strenua opposizione da parte dei talebani a cedere il controllo di aree di territorio ha impedito la gemmazione di sacche di insorgenza che stringessero l’occhio al progetto jihadista a macchia di leopardo all’interno del Paese.
Ogni tentativo fatto dai miliziani del Califfato di espandere il proprio raggio d’azione, infatti, ha sempre innescato duri scontri con l’insorgenza talebana in seguito ai quali il gruppo si è sempre trovato a dover cedere il passo.
 
Nonostante, dunque, l’azione di Daesh in Afghanistan sia circoscritta a singole enclave, la capacità di organizzare attentati di grandi dimensioni all’interno della capitale e il potenziale propagandistico da essi rappresentato al fine di reclutare nuove leve sembrerebbe spingere i talebani ad alzare il tiro per scongiurare un futuro rafforzamento del gruppo jihadista all’interno di quello che considerano il proprio Paese.
In un momento in cui le cellule di ISIS nel Khorassan sembrano essere in grado di esprimere il proprio potenziale soprattutto a Kabul, la necessità della leadership talebana di continuare a ribadire sia all’opinione pubblica afghana sia alla Comunità Internazionale la propria forza e il proprio ruolo in un ipotetico processo di stabilizzazione futura del Paese potrebbe portare il gruppo ad intensificare la propria azione su obiettivi nella capitale.
Ciò comporterebbe che, se in passato la competizione tra i due gruppi militanti si è giocata prevalentemente nelle aree rurali e periferiche del Paese, nel prossimo futuro la partita tra Daesh e talebani potrebbe avere come campo di scontro privilegiato l’area urbana della capitale, con considerevoli ripercussioni sulla sicurezza della popolazione civile e delle rappresentanze straniere lì ospitate.
 
Francesca Manenti
(Ce.s.i.) 

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