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Afghanistan, quando fare il giornalista è un atto di coraggio

Oggi 3 maggio, Giornata mondiale della libertà di stampa, il nostro pensiero va ai 10 giornalisti uccisi alcuni giorni fa a Kabul

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In occasione della Giornata mondiale della libertà di stampa, 3 maggio, non possiamo non rivolgere un pensiero ai 10 giornalisti uccisi a Kabul lo scorso 30 aprile.
È stata indubbiamente la giornata più sanguinosa per la stampa di tutto il mondo.
Nove dei giornalisti uccisi a Kabul erano accorsi sul luogo di un attentato avvenuto minuti prima. Una trappola, perché un secondo attentatore, esibendo un falso tesserino da collega giornalista, si è fatto strada verso la folla azionando il detonatore e facendosi esplodere.
Un decimo giornalista, Ahmad Shah della BBC, è stato ucciso nella provincia di Khost.
Uno dei giornalisti assassinati era il leggendario fotografo dell’Afp Shah Marai. Padre di sei figli, la più piccola dei quali era nata appena due settimane prima, aveva scattato immagini tragiche e toccanti sui luoghi di altri attentati.
Un altro era Yar Mohammad Tokhi, dell’emittente televisiva Tolo TV, fieramente indipendente. Doveva sposarsi 30 giorni dopo.
Mahram Durani, produttrice e conduttrice di radio Salam Watandar, faceva parte della nuova generazione di giornaliste afgane.
Ebadullah Hananzai era un altro giornalista radiofonico, presso Radio Azadi, così come Sabawoon Kakar.
Ghazi Rasooli lavorava per 1TV e Nowroz Ali Rajabi era un cameraman della stessa emittente.
Saleem Talash e il cameraman Ali Saleemi lavoravano a Mashal Tv.
 
Noi, che siamo stati in Afghanistan nei momenti più difficili per il nostro esercito impegnato nella Missione Internazionale a Herat, non possiamo che piangere questi colleghi che hanno dato la vita per fare il proprio lavoro.
Oltre al sottoscritto, in Afghanistan si era recato anche il collega Ubaldo Cordellini del quotidiano Trentino. D'altronde in quel teatro operativo c'erano i ragazzi della Julia, che ha reggimenti in Trentino, in Alto Adige e nel Bellunese. Dovevamo verificare tre cose: se i nostri ragazzi facevano bene il loro lavoro, se erano ben equipaggiati e se lo Stato li sosteneva davvero. E così era.
Eravamo embedded, cioè inseriti nei reparti dei nostri alpini, per cui eravamo ben protetti da soldati esperti che si sono prodigati per consentirci di fare il nostro lavoro.
E tuttora li ringraziamo per lo spirito col quale hanno sostenuto la stampa italiana, senza mai chiederci di pubblicare o di non pubblicare qualcosa.
Come abbiamo visto, però, a Kabul la trappola subdola ha fatto una strage nonostante le precauzioni che avevano assunto anche i colleghi di Kabul.
 
Non è stata la nostra unica missione periocolosa, ma preferiamo citare un aneddoto. Al ritorno dall’Afghanistan abbiamo ospitato un collega di Kabul che era venuto a Trento per uno stage (ci fa piacere vedere che il suo nome non è tra le vittime). Quello che lo aveva colpito di più era stato l’incontro in città con il presidente della Provincia autonoma di Trento, allora era Alberto Pacher.
«Ma… – aveva mormorato poi. – Se ne va in giro così da solo senza auto e senza scorta? E i giornalisti possono avvicinarlo così? Vivete in un altro mondo…»
Anche il nostro giornale di tanto in tanto riceve minacce, intimidazioni, avvertimenti. Ma lamentarsi sarebbe irriverente nei confronti dei colleghi che stanno soffrendo nel mondo per la semplice ragione di aver pubblicato qualcosa che non piaceva al potere costituito. 
Per non andare lontani, basta quardare cosa succede nella vicina Turchia che, pur ritenendosi civile al punto di pretendere di entrare in Europa, ha incarcerato una cinquantina di colleghi.

Guido de Mozzi
 
Ringraziamo Amnesty International, cui abbiamo attinto i nomi delle vittime dell’attentato di Kabul.

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