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Una vela trentina nel mar dei Caraibi – Diario di uno skipper/ 4

Attraversata dell'Atlantico, 1ª parte. Sulla placida rotta di Colombo

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Il passaggio delle colonne d'Ercole suscita sempre un po' di emozione.
Considerate per secoli il confine del mondo, oltre il quale in un qualche modo si doveva cadere nel vuoto, rappresentano oggi uno dei passaggi cruciali dei navigatori, assieme al Capo di Buona Speranza, il canale di Panama, lo Stretto di Torres e così via.
Si vedono sfilare due continenti per andare a incontrarne un terzo, solo dopo una navigazione di oltre 2.500 miglia (quasi 4.900 km).

La sosta alle isole Canarie è quasi un must per chi vuole attraversare l'Atlantico. Permette di preparare la barca e di attendere il periodo buono per partire.
Così ho fatto anch'io.
Arrivato a Santa Cruz di Tenerife verso i primi di settembre, ho lasciato la barca nel porto della città fino a fine novembre, perché è quello il periodo tradizionale di partenza per la traversata.
La stagione degli uragani, nel mar dei Caraibi, finisce ufficialmente il 30 novembre, ma probabilmente già da fine ottobre la situazione è abbastanza tranquilla, perché noi siamo ancora molto lontani dai Caraibi.
In dicembre, poi, l'aliseo si stabilizza. Prende forza e spinge di poppa le barche.



Così sistemata Ovilava, riempita la cambusa oltre la ragionevole necessità, verificato ripetutamente il funzionamento di tutto, data un'occhiata alla situazione meteo (alle Canarie in quel periodo possono esserci brevi burrasche da SW), il pomeriggio del 25 novembre decido di partire.
L'equipaggio è formato da quattro persone, tutte con buona preparazione velica, che contempera l'esigenza si coprire i turni di guardia, senza renderli stressanti, e di avere un proprio spazio nella barca (Ovilava ha quattro cabine).
Lo skipper sa perfettamente che una volta preso il largo il ritorno non è possibile: l'onda oceanica che prende forza al largo delle isole (la vediamo maestosa in una bella foto) e il vento contrario impedirebbero il rientro.

La prima terraferma che si può incontrare è dopo circa dieci giorni di navigazione, deviando la rotta, è l'arcipelago di Capo Verde al largo della costa Senegalese.
È questo l'aspetto nel quale si deve porre la massima attenzione. Qualunque cosa succeda alla barca o alle persone devi saperti arrangiare perché nessuno ti può aiutare, fatto salvo naturalmente il soccorso delle vite in mare, per il quale esistono oggi sistemi satellitari molto avanzati (ma da usare solo in casi estremi, cioè quando si presuppone l'abbandono della barca).

La domanda che più frequentemente viene fatta è cosa si faccia per 24 ore per più di quindici giorni su una barca che naviga.
La risposta che può sorprendere è che non ci si annoia.
La prima cosa da fare è stabilire dei turni (i nostri sono stati di tre ore l'uno) giorno e notte in modo che una persona responsabile della condotta della barca ci sia sempre.
L'uomo di turno non deve necessariamente timonare. Il pilota automatico ha fatto egregiamente il lavoro in tutte le condizioni. Però deve sorvegliare che tutto sia in ordine per la navigazione (rotta, incroci con navi, regolazione vele ecc).
Al di fuori dei turni si dorme, si legge, si pesca, si prepara da mangiare, si chiacchiera.

Una doverosa precisione per chi creda di fare una crociera tipo grandi navi.
La barca a vela rolla pesantemente. Si vive con una barca che alternativamente si inclina a destra e sinistra buttando in aria tutto ciò che non è fissato.
In vero ci si abitua a vivere rollando anche se i primi giorni possono essere un po' faticosi: si dorme con braccia e gambe a «X» oppure stretti fra cuscini, si vive sottocoperta sempre appoggiati a qualcosa, quando si mangia si tiene sempre fisso il piatto e così via.
Ma nulla di straordinario.



La pesca, gli appassionati devono saperlo, è straordinaria.
Non avrei mai pensato che in mezzo all'oceano ci fossero tanti pesci.
Si butta la lenza e entro mezz'ora pranzo e cena sono assicurati, un paradiso per chi ama la dieta prolungata a base di pesce senza sognare bistecche.

Oggi la tecnologia delle comunicazioni ha fatto passi da gigante.
Un semplice telefono Iridium, comperato o noleggiato, garantisce comunicazioni facili e immediate con la madre patria.
Così la sera era l'ora degli appuntamenti telefonici nella quali si veniva chiamati e si parlava con casa.
L'avventura perde fascino restando a contatto con casa? A voi la scelta.

E le burrasche oceaniche? Ci sono due cose da temere, meteorologicamente parlando nella traversata: la bonacce e le depressioni.
Nelle prime la barca ciondola inesorabilmente sull'oceano alla velocità di una tartaruga allontanando l'agognata data di arrivo.
Le bonacce erano le più temute dai galeoni (sia per la limitatezza di viveri e acqua, che per la mancanza di una deriva) e durante le stesse avvenivano le ribellioni di equipaggi demoralizzati.
Io in vero non ho incontrato bonacce.
Le depressioni sono invece dei grossi vortici del diametro di qualche centinaio di miglia all'interno delle quali i venti rinforzano decisamente e le nubi scaricano piogge torrenziali (più comunemente si possono chiamare burrasche).
Ne ho incontrata una a circa ottocento miglia dall'arrivo, che ci ha accompagnato per circa 48 ore.
Ne parleremo la prossima puntata.



Erio Volpi
e.volpi@ladigetto.it
Proprietà riservata, sia testo che immagini. Citare la fonte

(4 - Continua)

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