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L’altra sponda del Mediterraneo in crisi. – Di Antonio De Felice

Breve analisi del presente, ma difficile previsione per il futuro

Nella terra dei gelsomini cominciano a spuntare le erbacce.
A pochi giorni dall'inizio della rivolta che ha deposto l'ex presidente Zine El Abidine Ben Ali, è arrivata la notizia che tutti gli analisti temevano.

A darla è stato Jamil Ben Alavi, un importante leader degli studenti tunisini, che secondo l'agenzia di stampa Fars, ha affermato di «...essere ottimista riguardo alla promozione dei valori Islamici fra la popolazione del Paese» e che «l'esempio progressista degli Hezbollah in Libano può portare luce e speranza per il popolo Tunisino...».

L'annuncio, che è arrivato proprio mentre migliaia di Tunisini organizzavano preghiere di massa, è stato seguito dalla messa in onda da parte di alcuni canali televisivi, de l'Adhãn la chiamata alla preghiera.
Prossimo step: l'abolizione delle rigide norme varate 23 anni fa dal «dittatore» tunisino contro il codice d'abbigliamento islamico.

Il viaggio in Tunisia di Jeffrey Feltman, vice segretario di Stato degli Stati Uniti, nonché più alto responsabile della diplomazia americana per il Medio Oriente, è iniziato nel peggiore dei modi.
Raccogliendo l'invito di Hassan Nasrallah (leader sciita di Hezbollah) che da Beirut ha parlato davanti a una grande folla e ha messo in guardia i tunisini a proposito del viaggio in Tunisia del diplomatico, una folla di manifestanti lo ha accolto al grido di «Feltman Go Home» e «USA let us free».

Prosegue la crisi libanese e si inasprisce il già duro confronto tra la «Coalizione 14 marzo», che unisce i sunniti, l'élite cristiana e i drusi attorno a Saad Hariri, e la «Coalizione 8 marzo», che unisce il partito d'ispirazione religiosa Hezbollah, il movimento sciita secolare Amal, il movimento armeno Tashnaq, le sinistre socialiste e comuniste e i cristiani meno benestanti guidati dal generale Aoun.

Il cambio repentino di coalizione ad opera della vecchia volpe Walid Jumblatt, capo dei Drusi, che dal governo è passato all'opposizione ha portato alla caduta del governo Hariri figlio prima e all'elezione poi (ieri) di un nuovo primo ministro: Najib Miqati.
Si tratta di un miliardario sunnita nato a Tripoli, sostenitore fino alle elezioni del 2009 di Hariri e che pur vantando da sempre buoni rapporti con Ryad, ha scelto di schierarsi con la Coalizione 8 marzo.

All'investitura non sono seguite le rituali feste di piazza e, mentre a Beirut è calato il silenzio della paura, da Tripoli a Sidone migliaia di sunniti sentitisi traditi sono scesi in piazza per protestare al grido di «Saad Saad» (Hariri) riaccendendo la scintilla della faida interreligiosa.

Come abbiamo già scritto, Ieri era cominciata in maniera pacifica al Cairo e nelle altre regioni dell'Egitto la protesta. Ma quando, nella centrale piazza Tahrir è degenerata, sono pesantemente intervenute le forze dell'ordine.
Un poliziotto è morto e tre manifestanti sono rimasti uccisi.
Un quarto manifestante e morto oggi 26 gennaio.

Oggi, nonostante il divieto imposto dalla polizia, il gruppo denominato «movimento 6 aprile», tra i principali fautori delle manifestazioni di ieri, ha esortato la popolazione a tornare in piazza.
Diversa la posizione del movimento delle Fratellanza Musulmana che, pur avendo ufficialmente dichiarato di non aver preso parte alle manifestazioni di piazza Tahrir è stato segnalato molto attivo ad Alessandria d'Egitto, la stessa città dove ha avuto luogo la strage dei cristiani copti la notte di San Silvestro.

Ciò che sta accadendo in Egitto non è minimamente paragonabile sia per importanza che per dimensioni a quanto è accaduto in Tunisia.
L'Egitto è un Paese di circa 90 milioni di abitanti (il 50% dei quali vivono in appena al di sopra della soglia di povertà fissata dalle Nazioni Unite in 2 dollari americani al giorno), 10 volte di più che in Tunisia, ma soprattutto l'Egitto confina a ovest con lo stato d'Israele e a sud con il Sudan.
Se dovesse sgretolarsi il potere egiziano (e c'è da augurarsi davvero che ciò non accada) sarebbe una vera catastrofe non solo per l'intera regione ma anche per il bacino del Mediterraneo.

In questo scenario tutto da definire, spiccano le dichiarazioni di Mohammed El Baradei, ex Direttore generale dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (Aiea) e dirigente dell'opposizione egiziana, che ha definito «inevitabile» un cambiamento di regime in Egitto dopo la sollevazione popolare tunisina che ha portato alla caduta del deposto presidente Ben Ali.
«È inevitabile, il cambiamento deve arrivare», ha detto El Baradei sottolineando inoltre che la situazione della generazione sotto i trent'anni (che rappresenta il 60% della popolazione egiziana) «non ha alcuna speranza, alcun futuro, ma neanche nulla da perdere, contrariamente alle generazioni precedenti che convivono con i regimi o che li temono».

El Baradei, filo Iraniano, insignito del premio Nobel per la Pace (anche lui troppo frettolosamente verrebbe da dire), che da molti è accreditato come l'unico possibile successore di Mubarak, ha inoltre lanciato un appello al boicottaggio delle prossime elezioni presidenziali, fissate per il mese di settembre e ha iniziato la raccolta delle firme per una petizione nella quale chiede una maggiore democratizzazione del Paese.

Giordania, Algeria, Barhein e Yemen, al momento sono solo sorvegliati speciali.

Antonio De Felice
(Esperto di politica medio orientale e di aree di crisi internazionale)

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