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Missione giornalistica in Libano, il Paese dove vivono i Cedri/ 4

Ogni giorno una squadra di ragazzi lavora a contatto con le mine. Il nobile ossimoro di soldati che rischiano la vita per la pace

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La terza giornata passata con i soldati italiani in Libano è stata la più significativa dal punto di vista militare.
Dopo colazione i giornalisti sono stati portati ad assistere a una dimostrazione di genieri specializzati al disinnesco di ordigni in genere e di JED in particolare.
Gli JED (ordigni artigianali) non sono così diffusi come in Afghanistan, ma ci sono e purtroppo producono danni anche qui. Non ultimo quello che provocò il grave ferimento di militari italiani qualche mese fa.
Due i due ricercatori di JED che ci sono stati presentati, il cane e il robot.
Il cane sembrava la fotocopia di quello che abbiamo conosciuto a Herat e non è escluso che siano parenti. Certamente hanno avuto lo stesso addestramento al centro cinofilo di Grosseto.
Il robottino invece è di origine inglese utilizzato per studiare gli ordigni esplosivi da opportuna distanza.
L’addestratore del cane ha buttato un legno imbevuto degli odori che gli esplosivi portano con sé, mentre l’operatore al joy-stick ha mandato il suo robot cingolato a prendere un bastone gettato come se fosse un cane.
Inutile dire che ha vinto il cane, ma anche il robot ha fatto una bellissima figura: è corso verso il legno, lo ha preso con le pinze meccaniche, si è girato e lo ha riportato dal suo padrone.
 


Questa dimostrazione non era fine a sé stessa, ma solo preparatoria alla visita programmata per la mattinata.
«Signori, si parte per i campi minati.»  
Nel corso degli anni, l’esercito israeliano aveva disseminato di campi minati un po’ tutta la fascia di confine, per assicurarsi una maggiore sicurezza contro eventuali attacchi terroristici. Tali campi si trovano dunque a ridosso della Blue Line, dove adesso si sta lavorando per costruire un confine sicuro.
Come si può immaginare, per arrivare al punto dove sarà messo a dimora un nuovo Blue Pillar è necessario bonificare una stradina che consenta agli operatori di fare i rilievi, le misurazioni, gli scavi, la gettata di cemento e la posa del palo blu.
Bonificare un campo minato non è una passeggiata, per cui sarebbe stato preferibile che a fare la bonifica non fossero i nostri soldati, ma le parti in causa.
Ma i Libanesi non vogliono che gli israeliani mettano piede sul loro territorio, così come gli Israeliani non gradiscono la presenza di militari libanesi a ridosso del confine. Ecco perché a fare questo lavoro infame si sono trovati i nostri genieri.
Va precisato che gli Israeliani hanno fornito le mappe di posa, ma nel tempo i campi minati subiscono anche delle mutazioni a seconda delle condizioni morfologiche e atmosferiche. Le mine possono infatti spostarsi dalla sede originale per cause naturali, per cui ogni bonifica dovrà essere portata avanti con le stesse precauzioni di chi non ha le cartine.
Il lavoro materiale di sminamento ci è stato presentato dal tenente colonnello Filippo Gagliardi e dal capitano Fabio D’Andria (nella foto che segue, con i giornalisti), responsabili delle operazioni sul campo, che ci hanno descritto la procedura adottata.
 


Prima di iniziare la bonifica viene tracciato sulla cartina il percorso ideale, tenendo conto della morfologia e facendo attente osservazioni sul terreno.
Se c’è roccia, va da sé che non ci sono mine interrate. Piante e alberi invece possono essere cresciuti tra le mine e complicare la vita degli sminatori.
Poiché non è escluso che qualche bomba sia esplosa per cause non dipendenti dall’uomo, si cercano anche tracce di precedenti deflagrazioni, anche lontane nel tempo.
Poiché le mine sono state collocate a una certa vicinanza, trovata una si intuisce dove possono essere le altre.
Il percorso bonificato sarà largo due metri, all’esterno del quale sarà però bonificato un ulteriore metro in modo da mettere in maggiore sicurezza chi vi passerà. A delimitare la pista vengono messe delle reti, sia per impedire agli incoscienti di uscire dal tracciato, sia per impedire che un evento qualsiasi possa far sì che una mina emerga da sola e si porti sul tracciato sicuro.
Gli operatori segnalano con dei paletti colorati l’area in riparazione. Li vediamo nella foto che segue e ognuno di essi ha un colore con un significato preciso. Per quello che ricordiamo, sono in giallo le mine anticarro e il rosso le mine antiuomo.
La disposizione dei paletti, che ovviamente vengono impiantati a mina neutralizzata, indicano il posizionamento geometrico della posa e aiutano a effettuare i lavori successivi.
 
  

 
Della squadra al lavoro, è sempre una sola persona quella che si trova a contatto con le mine, per ridurre al minimo gli effetti di una eventuale esplosione. Le altre persone sono di servizio a supporto dell’operatore o in fase di (obbligato) relax.
La tranquillità psichica e la funzionalità fisica sono alla base dell’attività, tanto vero che nessuno può lavorare a contatto con le mine per più di 40 minuti e, se per una qualsiasi ragione volesse sospendere l’attività, viene sostituito senza che gli venga chiesto il motivo.

L’operatore lavora in ginocchio e indossa una tuta antideflagrazione, che pesa una quindicina di chilogrammi. Le braccia rimangono scoperte perché devono essere perfettamente libere: sono le mani lo strumento indispensabile per lo sminatore.
Indossano la stessa tuta anche i due operatori che attendono fuori zona pericolosa, pronti a intervenire nel caso l’operatore sul campo lo richiedesse.
 
A fianco della squadra in attesa c’è un altro gruppo di persone sempre pronte a intervenire ogni volta che qualcuno sta lavorando allo sminamento. È la squadra di primo soccorso, formata da un medico, un infermiere e un paramedico, tutti militari. Abbiamo chiesto al medico a cosa siano preparati nello specifico.
«Siamo attrezzati ad affrontare anche ferite di una certa gravità, come la perdita di un arto. Siamo in grado di prestare il primo soccorso in attesa che intervenga l’elicottero, che è sempre disponibile per noi.
«Ma ci sono altri pericoli, – aggiunge. – In questa zona ci sono vipere libanesi, che sono particolarmente aggressive e velenose. E gli scorpioni.»
«E cosa fate in caso di morso o puntura?»
«Nessun antidoto, ormai si è orientati a ridurre il diffondersi del veleno (tagli e lacci), a predisporre le difese dell’organismo con flebo di cortisone e antibiotici e ad affrontare gli effetti sintomatici del veleno. Se ad esempio l’infortunato ha difficoltà respiratorie o aritmie cardiache, lavoriamo su quelle. Anche in questi casi, arriverebbe subito l’elicottero.»
 
 

Le mine presenti nell’area che abbiamo visitato noi erano antiuomo. Il che significa che sono sepolte a una profondità di 20 centimetri e sono tarate per esplodere alla sollecitazione di otto chili di peso.
Gli operatori devono prima individuarle e poi neutralizzarle.
Per individuarle usano i metal detector che tutti conosciamo. Le difficoltà sono date dal fatto che le mine, tutte di fabbricazione israeliana, di metallico hanno solo l’innesco. Per questo motivo gli strumenti vanno anzitutto tarati, testandoli su due “aiole” con e senza metalli.
Poi l’operatore passa il suo detector sull’area finché non avverte la presenza di un metallo. A quel punto si indica la zona con un segnalino e si predispongono i materiali per individuarla perfettamente.
Si taglia la vegetazione e si pone un segnalino per segnalarla. A quel punto si allinea un bastone centimetrato, in modo che l’operatore possa procedere sistematicamente al sondaggio del terreno. Cosa che farà con quelli che noi chiamiamo “aghi da calza», che infilerà nel terreno centimetro per centimetro finché non incontra un ostacolo.
 
 

 
Individuato l’ordigno con una certa precisione, inizia a scavare il terreno attorno alla mina finché non si arriva a scoprirne una parte.
A quel punto si preparano delle cariche di esplosivo che vengono collocate a contatto della mina. Le si collegano al filo, si porta il filo a distanza di sicurezza (un centinaio di metri) e poi le si fa brillare.
Dopodiché si fa un sopralluogo per verificare che la mi sia esplosa. Al posto della mina si mette il paletto con la testa rossa, e avanti così.
Nel filmato che abbiamo messo d disposizione nell’articolo successivo, l’attività fin qui descritta. 
Qui di seguito il preparativi per far brillare la mina.
 
 
 
Questo è il lavoro che una decina di ragazzi fa tutto il giorno.
Tutti, prima di accedere a questa attività militare, hanno dovuto superare un difficile e selettivo corso della durata di sei mesi, dove gli istruttori hanno cercato di individuare eventuali punti deboli degli allievi. Un maldestro, ad esempio, non supererà mai neppure il primo mese.
Ci siamo chiesti (e l’abbiamo chiesto a loro) che cosa li spinga a fare un lavoro tanto rischioso.
Più o meno tutti ci hanno risposto che la soddisfazione è molto più appagante di ogni rischio. Lavorare per la pace è una grandissima soddisfazione per un militare. 
Sì, sulla carta tutto questo è vero. Forse anche chi scrive questo articolo da giovane si sarebbe confrontato con sé stesso in operazioni del genere, però la ragione ci spinge lo stesso a chiedere maggiori approfondimenti.
Tra i giovani che abbiamo conosciuto, c’erano anche due ragazze, molto belle. Le vediamo nelle foto.
 


Al di là della nostra personale ammirazione, ci siamo domandati quale sia la sottile linea rossa che divide le ragazze che partecipano a una selezione di Miss Italia e quelle che infilano gli aghi sotto terra per individuare lo strumento di morte antiuomo.
Anche noi, del resto, alterniamo servizi fotografici di belle ragazze con operazioni in teatri di guerra. Perché mescolare il piacevole con la sofferenza? Non è una forma di riscatto professionale, ma l bisogno (effimero forse) di sentirsi più utili a questo mondo.
Quindi siamo arrivati alla convinzione che non vi sia alcuna linea rossa tra le une e le altre ragazze. Sono tutte donne e tanto basta, entrambe capaci di svolgere il proprio dovere. Ad ogni costo.
 
Guido de Mozzi
g.demozzi@ladigetto.it  
(Continua) 
  

                      Via Pozzo, 4 - 38122 Trento - Tel. 0461 980444 

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