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Il mio Madagascar/ 3 – Di Luciana Grillo

Gli abitanti sono circa 200.000, vivono di pesca e turismo, hanno a disposizione una linea ferroviaria (alcuni giorni alla settimana) per raggiungere la capitale

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Terza e ultima tappa in Madagascar, siano a Tamatave e la guida Kopela, un ragazzo intraprendente e simpatico, parte da lontano, dalle diciotto tribù che abitavano l’isola, dalle loro diverse culture, dalla loro provenienza.
Sono arrivati dalla Malesia, dall’Indonesia, dall’Africa, dai Paesi arabi portando costumi e tradizioni propri che col passar del tempo si sono intrecciati e sovrapposti.
Tamatave in malgascio vuol dire «salata».
Il nome moderno della città è Toamasina. E’ stata la capitale dell’isola, centro di traffici perché il mare, fonte di nutrimento per le popolazioni, è stato collegato con le zone interne mediante lunghi canali.
 
Oggi gli abitanti sono circa 200.000, vivono di pesca e turismo, hanno a disposizione una linea ferroviaria (alcuni giorni alla settimana) per raggiungere la capitale.
Ci sono scuole e Università… ma, come l’acqua potabile, tutto va pagato, e chi non può, beve acqua del canale e non studia.
Prima di entrare nel modestissimo centro della città, su una barca decorata con fiori e rami, percorriamo il canale Pangalanes, lungo 650 km: vegetazione lussureggiante, capanne, reti da pesca e vita nell’acqua per lavarsi, fare il bucato, risciacquare le stoviglie, eccetera.
Dalla riva ci salutano donne, ragazzi, bambini. Non capita spesso di vedere sulla piroga bianchi più o meno benvestiti, dotati di smartphones di ultima generazione, macchine fotografiche dai grandi obiettivi, telecamere in grado di riprendere gesti, espressioni del viso, sorrisi (e lacrime).
 

 
Il traffico è piuttosto intenso, incontriamo altre barche meno decorate, ma cariche di indigeni che vanno in città a vendere le loro merci e a comprare altro.
La prima sosta è in un locale all’aperto, sotto un bel pergolato, dove alcune donne ballano per noi, si mettono in cerchio e a turno si muovono con una bottiglia sulla testa.
Frutta e succhi a volontà. I servizi igienici sono confortevoli e puliti. Quello per le donne che si mettono in fila ha la porta chiusa, quello per gli uomini, no.
Seconda tappa, il villaggio di Tapakala: ci aspettano con ansia per venderci poveri souvenirs.
Entriamo in una capanna dove il più anziano del villaggio, dando il benvenuto, ci augura salute e serenità. Poi percorriamo sentieri sterrati, accompagnati da donne e bambini.
C’è chi vende, chi chiede l’elemosina, chi accenna a passi di danza, persino due uomini che fingono di boxare. Molte bambine, agghindate a festa, con fiori nei capelli, sono sedute sotto archi di fiori, ci sorridono in attesa dell’obolo.
 
Mi fanno un’infinita pietà, esposte come sono alla nostra «generosità».
Non riesco a fotografarle. Alcune giovani donne allattano i loro bimbi, altre ci guardano… e basta.
In piroga torniamo in città, entriamo nel mercato, il Bazary Be, dove si vendono oggetti di artigianato e tovaglie ricamate.
Lo spazio ampio è suddiviso in corridoi; quelli più all’esterno vendono cibo, ci si può anche sedere su panche e mangiare.
La guida ci racconta i progressi del suo Paese, dove un Centro tecnico orticolo studia e attua le possibilità di preservare e ottimizzare le tecniche di coltivazione di frutta, legumi, spezie e piante ornamentali.
Parto dal Madagascar diretta verso i paradisi turistici di Mauritius e Seychelles e spero di tornare in questa grande isola per dare una speranza di futuro a chi non sa cosa sia la speranza.

Luciana Grillo
(Puntata precedente)


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