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Il romanzo dell'estate: «Operazione Folichon» – Capitolo 6°

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®
Guido de Mozzi

«Operazione Folichon»

Primavera - Estate 2010

PERSONAGGI


Dott. Marco Barbini

Imprenditore italiano

On. Vittorio Giuliani

Senatore della Repubblica Italiana

Arch. Giovanni Massari

Imprenditore italo americano

Eva de Vaillancourt Massari

Moglie di Massari

Geneviève Feneuillette

Baby-sitter di casa Massari

Antonio Longoni
Cesare Agnolin
Giancarlo Negroni

Soci d'affari di Massari

Julienne (Giulia) Lalancette

Assistente di Massari

Rag. Luciano Pedrini (610)

Promotore finanziario di Massari

Giuseppe Kezich

Maestro di caccia

Amélie Varenne

Estetista di Eva Massari

Ing. Giorgio Scolari

Titolare del calzificio Technolycra Spa

Col. Antonio Marpe

Dirigente del Gico

Gen. Massimo Frizzi

Alto funzionario della DIA

Massimiliano Corradini

Finanziere sotto copertura del Sisde

Ammiraglio Nicola Marini

Direttore del Sismi


Nomi, fatti e personaggi di questo romanzo sono frutto della fantasia dell'autore.
Eventuali riferimenti alla realtà sono fatti solo per inquadrare il momento storico di riferimento.
Il locale «
Le Folichon» esiste, ma non è mai stato teatro di fatti come quello descritto nel presente romanzo.


Capitolo 6.



La mattina dopo, alle 5, Giulia dormiva ancora ma io stavo già componendo il numero di telefono dell'ufficio dall'apparecchio nel bagno.
«Pronto? Sono Marco.»
«Buongiorno!»
«Ciao Roby. C'è mia moglie?»
Me la passarono.
«Ciao, amore. Ben alzato.»
«Ciao, bella.» - Chiusi la porta del bagno per escludere Giulia dal nostro dialogo.
«Novità?»
«Sì. Risposta positiva.»
«Davvero? Per intero?»
«Sì, ma c'è un problema.»
«Ti pareva!»
«Non vuole che gli legga la mano.» - Nel nostro linguaggio cifrato, le avevo detto che Giovanni aveva pagato, mentre leggere la mano significava fare la fattura. Il nero si dice Zio Tom.
«Non dirmi che legge solo la Capanna dello Zio Tom!»
«Proprio così. E' assurdo, non ti pare?»
«Assurdo un corno, lo sai cosa abbiamo dato l'anno scorso a Charlie?» - Charlie era il nemico, il socio, il governo, tutto quello che ti costa malvolentieri.
«Sì, lo so. Ma sai come la penso.»
«Tu non devi pensare. Devi solo fare l'aristocratico. E a tempo perso esprimere la tua soggettività.»
«Cioè, fare quel cazzo che voglio?»
«Esatto. - Non lo sapeva, ma avevo già fatto quel cazzo che volevo. - Ti abbraccio. Ti ripasso Roberta.»
«Bisou, ciao.»
«Buongiorno!»
«Roby?»
«Mr. Bàrbini?» - Accento sulla A, all'inglese.
«Qua mi chiamano monsieur Barbinì, con l'accento sull'ultima vocale, alla francese…»
«Monsieur…»
«Ho preso una decisione, Roby.»
«Scelta democratica? Ha ha!»
«Esatto. Scegliamo Manuela nelle vesti della giovane rampante.»
«L'emancipata? Come dicevo io insomma...»
«Esatto. La numero 17. La signora di trentacinque anni, invece...»
«Sì?»
«L'ho trovata qui. Si chiama Eva de Vaillancourt. Ne ha solo trentaquattro, tu non sai chi è ma...»
«Ma cosa sta dicendo? - mi interruppe. - Si vergogni! Eva de Vaillancourt, 34 anni, canadese ma vissuta a Montecarlo, una delle indossatrici più ingaggiate dello scorso decennio. Era chiamata la Vergine Nuda, perché era la modella di allora più fotografata senza veli, ma che non andava a letto con nessuno.»
«Cazzo, ma dove le leggi queste stronzate?»
«Stronzate?»
«OK, notizie, informazioni…»
«Le so, e basta.»
«Beh, che ne dici?»
«Bingo, se accetta! E' esattamente l'immagine che fa per noi, no? Era la signora senza veli... - Ripeté. - Ma quanto ci costerà?»
«Ci sta nel budget.»
«Questo lo dirà sua moglie.»
«Stavolta questo lo dico io.»
«Ma non è sua moglie che tiene i cordoni della borsa?»
«Lo farà al mio prezzo.»
«Chi, sua moglie?»
«No, stronza. Eva. Accetterà il budget.»
«Chi, la Vaillancourt? Ma se era la più pagata...»
«Conosce le nostre dimensioni.»
«Come l'ha conosciuta?»
«E' la moglie di Massari...»
«Ah, sua moglie è quella Eva allora!»
«Sì, è lei.»
«Avete una relazione?»
«Ma non dire stronzate Roberta.»
Se c'è una cosa che mi rompe i coglioni è essere prevedibile. In verità non avevo pensato neanche per un attimo ad Eva in intimità con me, ma il fastidio che la domanda di Roberta mi aveva provocato mi fece temere di averlo desiderato fin dal primo momento. Era così evidente il fascino che la donna esercitava su di me? Decisi di far finta di nulla.
«Senti, piuttosto; dobbiamo dividerci i compiti. Tu devi andare a Milano ad incontrare di persona Manuela, la Numero 17. Devi controllare se corrisponde alle promesse della foto. Quindi prendi un appuntamento, portala in sala di posa, falla spogliare e verificala punto per punto, anche e soprattutto quelli intimi. Fai foto di lavoro e di particolari. Poi falle fare un provino TV, uno a tre, non di più.»
«Sì, capo.»
«Prendi nota del lavoro che dovrà fare il truccatore secondo il tuo parere e, in base a come svolgerà il provino, calcola il culo che dovrà farsi il regista per avere risultati. Ricordati che rappresenti il produttore e che quindi non devi chiedere, ma ordinare, altrimenti quelli...»
«... Mi fanno solo perdere tempo. Conosco la lezione.»
«Brava. Io farò lo stesso qui con Eva. Al ritorno metteremo insieme i risultati e dovremo essere in grado a lavorare entro una settimana.»
«Sì, capo.»
«Ah, Roby?»
«Sì, capo.»
«Me lo fai vedere il culo?
«Ma certo.»
«E allora girati.»
«Ecco fatto.» - Ero sicuro che si era girata.
«A domani, grazie.»
Prima di uscire dal bagno bussai alla porta.
«E' occupato.» - Rispose Giulia.

Jacques era venuto a prenderci alle sette e ci aveva portato a casa di Massari. Giulia si era recata in ufficio con l'auto della ditta, dove l'impiegata l'aveva avvisata che il capo voleva che andasse a casa sua. Quindi la ritrovai là. Massari perse una buona mezzora ad oberare di lavoro la povera Giulia; perse altri 10 minuti per istruire il buon Jacques che doveva portare inquilini a vedere le nuove case disponibili, ed infine raccomandò la famiglia a Geneviève.
Mentre lui lavorava, io avevo salutato chi rimaneva. Salutai prima Eva.
«Non sono tranquillo se state soli in questa casa.» - Le dissi.
«Non preoccuparti. - Mi rispose stringendomi le braccia. - Vado a casa di papà per tutto il tempo che state via.»
«Sì, è meglio così. Senti, hai parlato con Giovanni per la parte che dovresti fare nella mia pubblicità?»
«Ha detto di… sììììììììììììììììì! - urlò con la gioia di un bambino, scacciando i problemi che le avevo fatto affiorare. - Se tu sei felice solo la metà di quanto lo sono io...»
«Dio ti ringrazio. - dissi alzando gli occhi al cielo. - Ti ho preparato questo materiale di lavoro. Qui ci sono le foto della tua partner, Manuela. Studiatela. Qui c'è lo story-board degli spot da girare e questo è il bozzetto delle foto che serviranno per la pubblicità stampa. Entra nella parte. Quando torno dalla caccia, vorrei portarti in una sala di posa e farti qualche rullino di foto di lavoro, ed un provino in Betacam. Puoi prenotarmi sia la sala che lo studio?»
«Certamente. Ma non voglio che qui si sappia. Per tutti io ho chiuso e desidero che per tutti resti una sorpresa. Sarà l'avvenimento dell'anno.»
«Fa' prenotare le sale da Giulia, poi vedremo come fare per passare inosservati.»
«Ci penso io.»
La salutai abbracciandola. Poi ero andato a parlare con Geneviève con la scusa di salutare anche i bambini.
«Sta' attenta, Gène. - le raccomandai sottovoce ma in modo convincente. - Sento che potrebbe succedere qualcosa alla famiglia Massari. Raddoppia le precauzioni. Aumenta la tua capacità di fuoco. Prima spara e poi chiedi chi è. Mi sono spiegato?»
«Clair et net. » - Rispose senza fare domande. Fu l'unica volta che la sentii parlare.
Poi salutai Giulia che ancora scriveva incombenze da portare avanti. - «Giura che ti mancherò.»
«Peu ou point, Marcó.» - rispose la stronza.
Poi tornai da Eva.
«Scusa, non mi hai detto quanto vuoi.»
«Niente, se tu accetti di darmi una mano in quello che sai. Me lo ha suggerito anche Giovanni. Dice che se la cosa avrà successo, rivedremo la mia politica professionale e familiare.»
«Meglio ancora.» - Dissi con lubrica soddisfazione.
«Mi pagherai le spese.
«Mi pare giusto.»
«Io viaggio in prima classe e vivo solo al Grand'Hotel.»
«Lo so.»
«E chi te lo ha detto?»
«La mia più stretta collaboratrice.»
«Mi conosce?»
«Esatto.»
«Prima che gliene parlassi tu?»
«Proprio così.»
«Penso che mi sarà simpatica.»
«Sarai molto simpatica anche a mia moglie.» - conclusi deferente. Naturalmente mi riferivo ai costi zero dell'ingaggio.

Eravamo in viaggio da due ore e, preoccupato per aver lasciato Eva e i suoi bambini da soli, non mi ero accorto che il tempo aveva iniziato a volgere al peggio. Nevicava. Giuseppe ci aveva spiegato che la neve aiutava molto i cacciatori, perché gli animali devono lo stesso cercare cibo, lasciando tracce dappertutto. Eravamo in cinque nella stessa Jeep Cherokee dalle ruote gigantesche con cui erano venuti a prenderci all'aeroporto. Io, il Senatore, Massari, Luciano e Giuseppe. Gli altri italiani erano stati portati all'aeroporto all'alba di quella stessa mattina.
Giungemmo al cottage di Massari nel tardo pomeriggio. La neve era alta e riuscì a mettere la macchina nel garage con difficoltà. Appena entrato accese il riscaldamento e in mezzora l'ambiente era già caldo. Giuseppe aveva acceso anche il caminetto con l'aiuto di Luciano. Una volta sistemati, andammo a cena nell'unico ristorante di un vicino paesino di tagliaboschi. Mangiammo bene, spendendo sette dollari canadesi a testa. Da non credere.
Era un posto frequentato da gente all'apparenza poco raccomandabile. Pareva, a vederli, che tutti avessero avuto un passato di problemi con la legge. Lunghe barbe, baffi spropositati, capelli rasati a zero, uno aveva addirittura la benda sull'occhio... Ad un certo punto entrò l'uomo della legge, un sergente di nome Jean, per fare il giro di chiusura. Riconobbe Giovanni e venne a salutarlo con un largo sorriso. Ci presentammo tutti e passammo un'oretta insieme a bere birra e a parlare di caccia. I taglialegna non si erano preoccupati della sua presenza.
«Quante alci avete ucciso quest'anno?» - Chiese Massari. La caccia all'alce, in americano Moose e in francese Orignal, è aperta per il solo mese di ottobre. Quindi ormai era chiusa.
«Milleottocento.» - Rispose il sergente soddisfatto.
«Dio mio, - esclamai inorridito. - Ma avete fatto una strage! Milleottocento..."
Il sergente si accese una sigaretta ridendo sotto i baffi.
«In questa area, - disse soffiando sul fiammifero, - sono stati censiti all'incirca duecentocinquantamila esemplari. Ne sono stati abbattuti lo 0,5%. Di cause naturali ne muoiono almeno il 10% all'anno.»
«Ma quanto è grande la riserva?» - Chiesi allora.
«Non è una riserva. E' una foresta priva di insediamenti umani. E' grande come, come... Giovanni dammi un termine di paragone.»
«E' grande come il Nord Est dell'Italia. Le Tre Venezie.» - Rispose rivolgendosi a me.
«Parte dalla sponda meridionale del Fiume San Lorenzo, si estente a Sud occupando il Maine settentrionale. Ah, dimenticavo, da qui è possibile entrare nel Maine, mentre non ci sono strade che dal Maine portano qui.» - Era soddisfatto e dava forti tirate alla sigaretta.
«Non avete più le Giubbe Rosse?» - Fece notare Luciano Pedrini indicando la giacca a vento blu del poliziotto.
«Quali Giacche Rosse?» - Chiese questo facendosi serio.
«Le Giubbe Rosse... - Luciano si girò intorno. - Beh, cosa c'è da guardare? Ho detto qualcosa di troppo?»
«Siamo nel Québec. - rispose accomodante Massari. - L'unica Provincia Canadese francofona. Le Giubbe Rosse sono inglesi, non lo sapevi?»
«E che ne so io? - Farfugliò. - Per me...»
«Il Québec, - intervenne in lingua francese il senatore Giuliani, - ha una storia strettamente legata alle vicende belliche della vecchia Europa. Le sorti della Guerra dei Trent'anni prima, quella dei Sette Anni poi, per arrivare infine a quelle napoleoniche, portarono questo grande territorio a passare di mano più volte, per collocarsi fuori dal controllo francese e passare definitivamente a quello britannico. Gli inglesi, tuttavia, non imposero alla popolazione inutili cambiamenti etnici e culturali. Mantennero la legge civile francese, il riconoscimento della religione cattolica, nonché i diritti dell'aristocrazia francese insediata...»
«Ma allora, i cittadini del Québec non dovrebbero disprezzare gli inglesi, mi pare.» - Intervenni io.
«Vero. Infatti, gli Inglesi ebbero la gratitudine dei cittadini del Québec al momento opportuno. Quando le colonie americane ribelli ottennero l'indipendenza nel 1776, il Québec non aderì alla nascente Federazione degli Stati Uniti d'America, nonostante l'aiuto militare e logistico che avevano dato agli indipendentisti.»
«Ragione di più per chiedere cosa ci sia di male a parlare di Giubbe Rosse...» - riprese Luciano, anche se con una certa titubanza.
Il sergente seguiva il dialogo gustandosi argomenti, birra e fumo.
«Una cosa è essere grati agli inglesi, - tenne a precisare, - e un'altra è essere cittadini del Québec. Questo è l'unico stato Nordamericano dove ogni emigrato dichiara volentieri la sua origine senza cercare di passare per anglosassone.»
«La grandeur francese, eh?» - Azzardò Luciano.
«Balle!» - sbuffò a questo punto il poliziotto. - «Qui troverete colonie italiane, inglesi, francesi, spagnole o altro, fiere di essere tali proprio perché il Québec è cosmopolita.» - Bevve un lungo sorso di birra e svuotò il boccale. Poi si rivolse a Giovanni.
«Non so chi sia il tuo amico qui, - disse indicando il Senatore, - ma la sa tanto lunga che da grande potrebbe fare proprio il politicante.»
«Ci penserò.» - disse il Senatore sornione. Era uno dei più esperti parlamentari italiani in tema di minoranze etniche mondiali.
«Bene. - proseguì il sergente. - E adesso che sapete perché non porto la Giubba Rossa, volete dirmi dove andrete a caccia domani?»
Rispose Giuseppe, che era venuto con noi per farci da guida.
«Passeremo il confine tra il Canada e gli USA quassù a Saint John. - Indicò con la mano la direzione Sud. -Seguiremo le strade fatte ultimamente dai tagliaboschi e ci fermeremo il più possibile all'interno. Poi ci separeremo per gruppi e cercheremo il Cervo dalla Coda Bianca.»
«State attenti. - Disse il poliziotto alzandosi. - So che vi muoverete in motoslitta, ma può sempre succedere qualcosa. Portatevi il necessario per passare una notte all'aperto.»
«Per forza.» - ghignò Giuseppe con la sua solita brutta cera.
«Ehi. - disse Giovanni. - Nessuno di noi ha intenzione di passare una notte all'addiaccio!»
«Il sergente diceva solo che dobbiamo essere preparati all'evenienza. - Puntualizzò il Senatore, l'unico del gruppo in sintonia sull'arte venatoria. - Quando si va a caccia, si deve sempre prevedere il peggio. Siamo noi gli intrusi, fuori città. La foresta, come la montagna, fa presto a cancellarci. In meno di una notte.»

Quando arrivammo al cottage, Luciano prese un grosso pezzo di legna per assicurarsi che il fuoco del caminetto durasse tutta la notte. Non appena lo gettò sul fuoco, lo spense del tutto. Nessuno riuscì più a riattizzarlo.
Quella notte dormimmo in tre stanze diverse. Io con il Senatore, Luciano con Giuseppe e, ovviamente, Giovanni stava da solo. Era presto e feci fatica a prendere sonno. Forse perché mi mancava la privacy o forse perché non c'era mia moglie o magari per il vento che sbatteva la neve attorno alla casa di Massari, sta di fatto che provavo un senso di angoscia. Mi accorsi che se l'indomani avessimo trovato i lupi fuori ad ettenderci, non sarebbe stato un problema ma un'avventura. Eva invece occupava il mio subconscio insieme alla crudeltà della scena cui avevo assistito al Folichon. Toccai un paio di volte il mio fucile ai piedi del letto.
Ma per prendere sonno dovetti pensare a Giulia ed alla sua spontanea voglia di vivere da donna che era riuscita a trasmettermi la notte prima.

La mattina dopo non nevicava più. Alle cinque eravamo già a far colazione con i tagliaboschi nello stesso locale della sera prima. Uova strapazzate e prosciutto, spremuta di arance e caffè, pane burro e marmellata, per il totale di ben quattro dollari canadesi. Tutti nel locale mangiammo avidamente, senza distinzione sociale, morale, economica, giuridica, di razza e, tantomeno, di fedina penale. E tutti, alle cinque e mezza, uscimmo diretti alle proprie rispettive occupazioni.
Giovanni e Giuseppe si assentarono un attimo con le due motoslitte di Massari. Tornarono dopo pochi minuti con una terza motoslitta e con un altro cacciatore che avrebbe fatto da guida. Si chiamava Josè Blasco, di origine spagnola. Ci caricammo gli zainetti, le attrezzature radio e le armi sulle spalle, quindi partimmo. Gli automezzi della società che aveva l'appalto dello sboschimento, avevano tenuto la strada sgombra dal grosso della neve, così i giganteschi autosnodati potevano portare gli alberi abbattuti fino alla segheria di base in paese. Noi prendemmo la via che aveva scelto Giuseppe. Sulla sua motoslitta, dietro di lui, stava Luciano. Con me sedeva il Senatore. Giovanni stava in coda, con la nuova guida.
Passammo col buio un paio di avamposti dove la gente muoveva tronchi con Bulldozer, poi ci fermammo. Giuseppe e Josè ci fecero indossare sopra ai nostri vestiti tecnologicamente perfetti dei grandi maglioni colorati di arancio fluorescente e ci misero sulla testa dei berrettini dello stesso colore.
«E' obbligatorio per legge. - si scusò Josè Blasco per ammorbidire le proteste del Senatore, il quale sulle Dolomiti è abituato a mimetizzarsi come un militare. - Così non ci può colpire nessuno per sbaglio, oltretutto che qui gli animali non hanno paura dell'uomo. Anzi, è l'ultimo problema che hanno.»
Il Senatore risalì perplesso sulla mia motoslitta e tutti, vestiti così come dipendenti dell'ANAS, riprendemmo il percorso, imboccando un sentiero stretto che, secondo Giuseppe, portava ad un torrente. Seguendolo, saremmo arrivati ad un lago dal quale, diceva, i cervi non potevano allontanarsi troppo. Ma trovammo subito un problema e ci fermammo.
«Quei bastardi di castori hanno ostruito il torrente.» - Ci fecero notare Giuseppe e Josè indicando l'acqua che si era alzata di oltre un metro e mezzo sul livello medio, o comunque quanto bastava per allagare la strada battuta.
«Cosa facciamo?» - Chiese Giovanni.
«Ci dividiamo qua. Qualcuno deve risalire questo versante, altri devono tornare indietro, attraversare il torrente a valle e seguire l'altra sponda.»
«Era meglio venire con l'elicottero.» - Protestò Giovanni, ma non gli dammo retta.
Scendemmo dai mezzi per decidere e alla fine tornarono indietro solo Giovanni e Blasco. Dopo un altro quarto d'ora, Giuseppe ci fece fermare e ci indicò una via da prendere a piedi per non fare rumore, per aggirare una collina e giungere alle due sponde opposte di un lago che avrebbe potuto offrire adeguate sorprese venatorie. Io e il senatore indossammo le racchette da neve e partimmo a piedi nella direzione a monte. Giuliani si infilò al collo una bussola, mi affidò un binocolo ed iniziò ad avanzare cercando di non fare rumore. Ci volle ancora un'ora, prima che il senatore sentisse odore di selvaggina.
«Ci siamo. - Mi bisbigliò nell'orecchio. - Stammi dietro e cammina sulle mie impronte.»
Poi mi fece cenno di allargarmi sulla destra ed io obbedii. Risalii un'ultima pendenza. Giunto in cima, mi accorsi di avere il fiatone, che chiunque avrebbe potuto sentire nell'arco di centinaia di metri. Mi fermai a riposare un attimo. Poi vidi con piacevole sorpresa che giù, sul fondo della discesa che stava davanti a me, un lago dal blu intenso prendeva vita fra i giganteschi pini pieni di neve che lo proteggevano. Emozionato, ripresi la marcia per scendere a valle, quando mi imbattei in una tana di qualche animale. Mi avvicinai, guardai dentro, e dopo aver messo a fuoco e ragionato un attimo, capii che stavo vedendo un paio di occhi.
Il batticuore mi sconvolse il petto e mi domandai di che cosa si trattasse e che cosa avrei dovuto fare. Dov'era Giuliani? La bestia si avvicinò di una spanna, mi vide, sgranò gli occhi e scappò a gambe levate da un'uscita secondaria. Io ero scappato prima di lui. Ed ero stato bravo a conservare il fucile.
Quando li ritrovai tutti quattro al lago, mi dissero che dalle tracce doveva essere stato un orso nero. Pericoloso? No. Lo si poteva cacciare? Sì. Era buono da mangiare? No. E allora perché ucciderlo? Per la pelle. Al diavolo. Dissi che la caccia non era per me, ma tutti ammisero che all'orso non avrebbero sparato neanche loro. Giuseppe mi assicurò che il lago era uno dei luoghi più incantevoli della foresta selvaggia del Canada meridionale e del Maine settentrionale. D'estate ci si va con l'idrovolante per andare a pesca di salmoni, accampandosi sulle rive con la tenda. Mi piacque l'idea di usare l'aereo e la tenda. Poi tornammo con i piedi in terra.
Ci dividemmo di nuovo per risalire il braccio del lago su due sponde diverse. Lo scenario era bellissimo, tanto che per un po' mi venne voglia di mettere via il fucile. Ma il mio compagno Giuliani mi ricordò di stare all'erta perché non eravamo nel nostro ambiente.
Guardai il mio Remington 30-30 pensando che mi sarebbe servito di più a Québec City che lì, quando sentii uno sparo, seguito da un altro e poi da un altro ancora.
«Più che caccia, - dissi piano a Giuliani, - sembra una sparatoria metropolitana.»
Seguirono altri spari ed iniziai a spaventarmi.
Il Senatore imprecò.
«Che diavolo stanno facendo, imbecilli! Siamo a caccia, o credono di essere al Lunapark?»
Ma d'un tratto sentimmo galoppare faticosamente verso di noi e ci mettemmo in guardia. Era un bellissimo cervo della Virginia. Aveva la coda bianca e le corna con una decina di punte. Il Senatore lo seguì con il fucile, poi sparò un colpo solo. L'aveva fatto secco. Giuliani sapeva sparare.
Riconosco che fu un'emozione pazzesca, che può provare solo chi va a caccia. Purtroppo, però, dovetti assistere all'aspetto più cruento dello sport venatorio: la bestia va sventrata subito e ripulita degli intestini. Non è un'operazione piacevole, ma tantè, qualcuno deve pur farla. Chi si mangia cervo, camoscio o capriolo al ristorante, non penserebbe mai a ciò che abbiamo dovuto fare noi ad un animale ancora caldo.
Ci raggiunsero Giovanni e Blasco, che avevano sparato all'impazzata senza concludere niente. Ammirarono la bestia. Una volta riuniti, decidemmo di andare a prendere le motoslitte e trainare la preda alla strada. Poi qualcuno doveva andare a prendere la Jeep di Massari.
Ci andammo io, il Senatore, Massari e Blasco. Erano rimasti sul posto, con il cervo e una motoslitta, Giuseppe e Luciano.
Verso mezzogiorno, io e Blasco eravamo tornati con la Jeep dai due amici che erano rimasti a fare la guardia all'animale cacciato. Giovanni e il Senatore erano rimasti al caldo nel cottage. Caricammo la preda sul tetto della macchina, operazione che fu davvero molto più faticosa di quello che si può immaginare. Le zampe erano legate ai quattro angoli dell'auto, la testa penzolava in avanti, lasciando vedere a chi guidava il muso e le corna sporgenti. Partimmo piano seguiti dalla motoslitta di Giuseppe e Luciano. Imboccata la strada principale, prendemmo un po' di velocità, nonostante la neve. La motoslitta ci stava dietro allegramente, tanto che Luciano ogni tanto salutava gioioso.
Ma d'improvviso uscì da uno spiazzo del bosco dove giaceva una montagna di alberi abbattuti, un gigantesco autosnodato carico di alberi appena ripuliti dei loro rami più grossi, che si mise dietro di noi dando gas a tutta la potenza che aveva. Guidavo io, e nello specchietto vedevo il muso del camion sempre più grande e sempre più vicino, come se volesse speronarci.
Tra noi e lui c'era la motoslitta di Giuseppe e Luciano. Mi domandavo che cosa volesse fare quel camionista imbecille, perché i due amici potevano lasciarci la pelle. All'affiorare di questa possibilità, misi a fuoco velocemente che non poteva essere il semplice caso di un autista prepotente che "ce l'ha con chi si diverte mentre lui si fa un culo così". Accelerai, ma con quella neve eravamo già ai limiti della stabilità. Mi voltai verso il compagno per chiedergli che cosa fare, ma si era già voltato indietro per fare segnali ai nostri amici affinché abbandonassero la carreggiata. Questi capirono allora che era il caso di uscire di scena, ed alla prima apertura tra gli alberi Giuseppe colse l'occasione e la imboccarono. Dallo specchietto li vidi scomparire a tutta velocità nel bosco. Per fortuna, arrivai a pensare, a guidare non era quello sfigato di Luciano.
Ma ora l'automezzo era tutto su di noi. La Jeep correva sulla neve appena battuta sbandando ad ogni curva, con un cervo sul tettuccio che sembrava voler incornare qualcuno ciondolando la testa a destra e a sinistra, seguita da un autosnodato col rimorchio che sbandava più dell'auto e che voleva speronarla a tutti i costi. Per un attimo non riuscii a frenare una risatina isterica, poi mi mancò la voce mentre cercavo di chiedere a Josè che cosa fare. Ancora una volta però lui mi aveva preceduto.
«La legge Canadese vieta che si portino in macchina le munizioni dei fucili da caccia!» - Mi urlò girato all'indietro.
«Che cazzo dici? - Urlai anch'io. - Mi parli di etica venatoria in un momento come questo? Farò una protesta scritta tramite i canali diplomatici! Contento, stronzo?»
«Con questo voglio dire, zorro…o renard come dite voi francesi...,»
«Sono italiano, ma non fa differenza.»
«Voglio dire, volpe, che se i proiettili devono stare fuori dall'abitacolo, i nostri fucili sono scarichi! Con che cosa lo fermo il camion, con la cerbottana?»
«Io non conoscevo la legge!» - Urlai felice.
«L'ignoranza non fa legge!» - Gridò, mentre per la prima volta il radiatore di quell'enorme figlio di puttana ci toccò il culo facendoci perdere per un attimo l'aderenza.
«Se capottiamo, roviniamo il cervo! - Protestai, accorgendomi tardi di avere sparato una cazzata. - Volevo dire che, non conoscendo la legge, io non ho scaricato il mio Remington 30-30…»
«Che sosa?»
«Ha il colpo in canna, ma gli ho messo la sicura!»
«Sei un incosciente! - Mi rispose saltando dietro a prendere il fucile. - Potrebbero arrestarti per una cosa del genere.»
In un attimo aprì il tettuccio ma si accorse che c'era la pancia del cervo sventrato. Non riuscì a rinchiuderlo e restammo frastornati dal rombo del camion e dal suo secondo speronamento. Sembrava impossibile fare qualsiasi cosa. Poi, però, abbassò il finestrino posteriore sinistro. Mise la cinghia del fucile a tracolla perché non gli potesse sfuggire di mano e si sporse con tutto il busto. Puntò con calma e sparò alla gomma dell'automezzo più vicina.
Il resto avvenne da solo. Il camion sbandò e privo di controllo andò a creare una nuova strada nel bosco giù per la scarpata che portava ad un ruscello le cui acque erano particolarmente alte per colpa di quei bastardi di castori. La cabina rimase sott'acqua, completamente schiacciata dall'incredibile massa di alberi trasportati che gli era piombata sopra.

Un miglio prima, un analogo incidente veniva registrato nella selvaggia foresta del Maine. Meno tragico forse, ma pur sempre drammatico. Il povero Giuseppe Kezich, canadese di origini russe, cameriere premiato, abile cacciatore e guida forestale nel tempo libero, veniva investito dai 130 Kg. di Luciano Pedrini che stava dietro di lui sulla motoslitta che era uscita di strada. Niente in tutto. La motoslitta era sana e lui non si era rotto niente in particolare. Ma in futuro non sarebbe stato più lo stesso di prima.

(Continua)
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