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L’anima delle mani – Di Massimo Parolini

In libreria l’ultima raccolta poetica di Claudio Tugnoli

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Titolo: Le mani dell'anima. Variazioni in dialetto budriese
Autore: Tugnoli Claudio
 
Editore: Edizioni del Faro, 2016
Pagine: 141, brossura
 
Genere: raccolta poetica
Prezzo di copertina: € 14
 
Sono nate prima le mani o la mente? All’uomo è stata data la mente perché aveva le mani o ha le mani perché aveva la mente? Interrogativo sofista, all’apparenza, come il sesso degli angeli o la primogenitura tra la gallina e uova o, ancora una domanda inutile come quella posta ad Agostino dai suoi provocatori: «Cosa faceva Dio prima di creare il tempo?».
In realtà la questione è antica e se la son posta Anassagora nel V a.C. (che definisce l’uomo il più intelligente degli animali grazie al possesso delle mani) e Aristotele che, nominandolo, lo smentisce: «è invece ragionevole dire che ha ottenuto le mani perché è il più intelligente» (Parti degli animali, ne «Sull’anima»).
Per Claudio Tugnoli, filosofo, saggista e poeta (vincitore in questi giorni del primo premio «Domus artis mater» di Caserta per la sezione poesia edita, con la raccolta di haikai «In sul declinar fiamma m’accende») «l’anima senza le mani sarebbe vuota e le mani senza l’anima sarebbero cieche» e pretendere di sapere se l’intelligenza abbia provocato la formazioni delle mani o, viceversa, il loro uso abbia creato l’intelligenza sarebbe come stabilire quale delle «Due mani che disegnano» di Escher stia disegnando l’altra.
Per Gregorio di Nissa -sempre citato da Tugnoli- le mani sarebbero invece state progettate per rendere libera la bocca per il linguaggio, rendendoci animali, non solo divoranti, ma anche linguistici.
Per il filosofo Helvétius, in una visione olistica dell’umano, «la mano che lavora e trasforma… si relazione all’assenza del progetto che si va realizzando; e dunque assume capacità simbolica parallelamente alla bocca che parla».
La mano, per Tugnoli, è dunque intelligenza visibile, l’intelletto è una mano invisibile: non a caso, l’etimologia latina, cum-capere, rimanda all’afferrare.
Queste poche note da noi citate, fanno parte di una conclusiva «Nota dell’autore» che Tugnoli ha inserito nell’ultima raccolta poetica della sua trilogia in dialetto budriese (l’agro bolognese, fuori le mura: «Le mani dell’anima. Variazioni in dialetto budriese»).
La raccolta segue «Gli anni riapparsi in umiltà di gloria» (Manni 2012) e «Terra terra inesausta matrice» (Manni 2014).
Custode della lingua budriese materna, Tugnoli si muove agilmente tra figure foniche e di significato, consegnandoci un tappeto di rimandi fono-simbolici che, ovviamente, ma purtroppo, si disperde nella traduzione-tradimento del traghetto linguistico verso la sponda italiana, perdendo molta parte del suo carico musicale nella corrente che divide le due sponde linguistiche: ci resta il significato, la densità e attualità dei contenuti (anche se uno sforzo va fatto, di lettura dell’originale, per la sua estrema ricchezza espressivo-musicale).
Come ricorda il prefatore Andrea Fassò, la terra rimane, anche in questa ultima silloge, l’immagine che si impone, anche se i versi, come ci ricorda il titolo, indagano tematicamente il rapporto tra le mani e la mente-anima.
I personaggi ricorrenti, nel filo della memoria vigile, sono ancora la famiglia d’origine, la madre, il padre, il nonno, gli animali, il paesaggio, con un forte confronto con l’attualità alla deriva.
Diciassette lunghe poesie che ruotano attorno alle mani, che possono isolare, escludere, separare, contrapporre, picchiare, uccidere, ma soprattutto unire, abbracciare, includere, rappacificare, aiutare a partorire, accarezzare, massaggiare, aggrapparsi, sostenere: le mani sono il primo volto della madre che accarezzando il figlio lo semina di segni, parole e ricordi.
Già nel titolo della raccolta c’è un raddoppiamento: «Le mani dell’anima» nomina un anagramma: anima contiene –graficamente- mani. L’anima è già un omen-presagio delle mani.
«È venuto a darmi la mano/per farmi le condoglianze… ciascuna di queste ha i suoi propri calli»: i primi due versi iniziano la raccolta (Le mani), il terzo la conclude (I calli nelle mani).
I personaggi descritti da Tugnoli sembrano uscire dallo sguardo del regista Ermanno Olmi: «i galantuomini un tempo stilavano i contratti/senza bisogno di scrivere nulla:/una stretta di mano e questo bastava» (Le mani).
La mano usa gli strumenti di lavoro, la mano percuote gli animali per il lavoro, la mano uccide gli animali per mangiare, come nella scena dell’uccisione del maiale de «L’ albero degli zoccoli», anche in Tugnoli il carico di violenza - per sopravvivenza - sugli animali non lascia indenne i contadini: se ne «I maialini» la madre accorre per salvare i cuccioli dall’annegamento «senza che ne morisse neppure uno» (ma in realtà in vista di un loro ingrassamento e procrastinazione della loro mattanza); in «Voltarsi indietro», il senso di colpa, prima naturalisticamente velato, straccia il velo della coscienza e ferma le mani.
«Man mano che passavano gli anni/che i figli eran già diventati grandi,/mia madre provava sempre più dispiacere/a far fuori i galletti, le galline o i capponi,/quando veniva il momento di ammazzarli./Mio padre aveva smesso da molto tempo/di far fuori i conigli con un colpo ben assestato…/Un bel giorno hanno smesso di tenere qualsiasi animale…/non ne potevano più di ammazzare per mangiare,/non ne volevano più sapere di far fuori delle povere bestie,/che loro stessi avevano allevato da cuccioli…/della pena che procurava loro/afferrare i ferri del caso, un coltellaccio e un paio di forbici,/e poi sentirsi come degli assassini».
Già prima di questa scelta definitiva il padre chiamava la moglie ad aiutarlo ad ammazzare un coniglio «perché da solo non ne aveva il coraggio».
Gli ricordava l’assassinio in guerra. Anche in altre poesie emerge la riflessione sulla violenza perpetrata, che ritorna indietro: come nel caso del nonno Giuseppe che «se allungava qualche botta ai buoi,/lo faceva malvolentieri,/come se avesse voluto scusarsi con le sue bestie» (Lo scapaccione).
Il nipote legge negli occhi scuri del nonno «tutta la pena di colui che soffre /per il dolore che gli ritorna indietro/dal dolore che è costretto a infliggere».
Accennavamo prima al montaggio che dai flashback predominanti fa rapide incursione nel terreno dell’attualità: alla violenza «naturalisticamente» e culturalmente normale (nella società contadina tradizionale) ma comunque rispettosa di limiti e misura e non scevra da ripensamenti e sofferenza fa eco la tracotanza di uomini che come Erode Antipa fanno tagliare la testa del Battista, per «vendicarsi più che si può per le offese/che si pretende di aver subito, ricattare con la violenza/e tagliare la testa per vendetta ai prigionieri», uomini che «si sono sporcati le mani/di sangue e di sterco/in quell’area tra due fiumi,/che fu la culla della civiltà/e che adesso è degradata/al letamaio della storia» (La lampada).
Sempre per i rimandi all’attualità, ne «I maialini», alle bestiole che rischiano di annegare e che l’intervento provvidenziale della madre salva, fa crudo pendant l’attuale mattanza dei profughi: «Quanta povera gente oggi viene per mare/per fuggire dalla guerra e dai massacri…/con i loro bambini e le loro spose/stipati come se fossero bestie» (I maialini).
A tali disperati che fuggono dalle violenze belliche e in massa annegano si contrappone nei versi successivi il naufragio della Costa Crociera: «Anche loro fuggivano/ma non dalla guerra e dai bombardamenti/o dalla miseria nera:/fuggivano dall’insoddisfazione e dallo stress,/di una vita di gente che va sempre di corsa».
Questo e molto altro in questa densa raccolta che è un invito alla riflessione, nel filo che lega le generazioni ai propri avi, ai propri discendenti, alla terra - oggi sempre più violentata e percossa, - agli altri viventi compagni di viaggio nel nostro breve cammino: un invito alla responsabilità della scelta etica, che sola, ci rende veramente u-mani.
 
Claudio Tugnoli ha insegnato filosofia e storia nei licei trentini (soprattutto al classico Prati di Trento) e nelle Università di Trento e Bologna.
Inoltre ha svolto per anni attività di ricerca presso l’Iprase trentino pubblicando vari volumi di filosofia e antropologia filosofica con un’attenzione particolare al tema del tempo: tra le sue varie pubblicazioni ricordiamo «Diacronia e sincronia. Saggi sulla misura del tempo», «Zooantropologia» (entrambi della Franco Angeli) e «Girard. Dal mito ai vangeli» (ed. Messaggero Padova).
Di recente ha curato il volume «Ritratto dell’anima. Anima del ritratto» (edizioni Osiride) che analizza (negli interventi dei vari autori) uno dei temi privilegiati dell’arte di tutti i tempi con un occhio di riguardo anche alla produzione artistica del Trentino.
Come poeta Tugnoli ha pubblicato «La tua ombra» (2011), «Gli anni riapparsi in umiltà di gloria. Poesie in dialetto brudriese» (2012), «Sarà forse la rana, o alcun che solo canti. Centosei haikai» (2013), «Terra terra inesausta matrice. Poesie dell’infanzia budriese» (2014), tutti nelle edizioni Manni di Lecce.

 Al män
L é gnó a dèrum la män
par fèrum al condogliänz.
Al n à brîṡa vló dèrum la män,
as vàdd ch'al n é brîṡa bòn
ad pasèr såura a cal chèṡ là.
I galantòman una vôlta i fêvan i cuntrât
sänza biṡògn ad scrîvar gnìnt:
is dêvan la män e l îra bèla asè acsé.
La män dè l’îra la fîrma sòta âla parôla
che i dû is îran apànna détt.
Al camarîr e ai servitûr
as i dà la bôna män.
L um à fât gnîr un narvåuṡ,
che ai arê méss al män adòs,
mo am sòn tratgnó parché ai ò di fiû.
Al fa di fât dscûrs ch'is ciâpan in män.
Ai ò vésst ón ch'l à méss la män
stra i ptón davänti d na dòna per vàddar s'l'i stêva,
mo lì la i à mulè un stiâf
ch'l à fât un ciòc acsé fôrt,
che tótt is én vultè a guardèr.
I cuntadén in fän pió incôsa a män,
adès ai é dal mâchin par tótt i lavurîr:
in cójjan gnänc pió la frûta
cum i fêvan una vôlta,
a män, ónna âla vôlta.
L à ciapè la testa
e al l’à tgnó stra al män,
ai tirêva un vänt cuntrèri
e ai gnêva da zighêr.
Con in män una candàila
al i fêva lómm parché l i vdéss,
l îra acsé bûr, una nòt sänza lûna,
che an s i vdêva gnänc a biastmèr.
Cus èt fât in cal män lé?
T it fré a pudèr al rôṡ dal żardén?
Al mî män âli én róvvdi e pîn ad câl
parché an ò fât ètar che lavurèr la tèra.
Ai ò ciapè al cunén ch 'l îra scapè,
al ò guantè e tgnó strécc par drì dâla tèsta.
Ai é andè un lèdar in cà âla nòt,
mo i l än ciapè e i än dè un frâc ad bòt.
Al mutåur l îra in mòt,
l à méss al män int l ingranâg' dal ṡgadurén
acsé l à pêrs dåu dîda d na män.
L à pêrs la vargàtta in cal mäntar ch'al lavurêva
e al n é pió sté bòn ad truvèrla.
Am arcôrd l’ultma vôlta ch' al ò vésst
l um salutêva con al män dal fnistrén
in cal mäntar che al treno l îra drì a partîr.
Sgnåur dutåur, mé a bòvv såul dåu dîda ad vén
såul quänd a sòn drì a magnèr,
e pò l é al vén ch'a fâg mé, con la mî û.
L à scrétt una léttra firmê da sô pèdar
e l um l'à purtè a män.
L îra drì a inciudèr dâli âs
quänd ai é scapè al martèl
ch' al i à scuizê al didòn.
Ai ò vésst al cazadåur
con al fuṡéll apugè a la spâla
prónti a sparèr e la män int al grilàtt:
la lîvra fàirma pôc luntän,
che quêṡi quêṡi
l'as psêva ciapèr con al män.
Mî mèdar e tótta la famàjja
con al män in éllt
con al teråur int i ûc',
in cal mäntar che i suldè tedéssc
i purtêvan vì tótt quàll ch'i avêvan,
fòra che la vétta e l unåur.
Mi mèdar la fêva la bughê a män:
dòp ch'al l'avêva lasè a mói int la zàndar,
la strichêva i pâgn mói,
prémma ad stànndri al såul.
I linzû stîṡ al’âria da mói
i guintêvan sótt sótt,
cumpâgna se al såul con i sû ràż,
con dal dîda invisébbil
al tiréss vì tótta l’âcua gòza a gòza.
Ai é stè ón ch'l à méss una män int al cûl
a una sgnåura, lî l'as é prilê
e la i à mulè un stiafòn
sänza pensèri dåu vôlt:
savîv che ló l é guintè tótt ròs
cum é un pavròn madûr!
La mâma l'à vésst ch'ai îra ṡmôrt,
alåura l’um à méss una män såura âla frònt
par vàddar s'la scutêva par la fîvra.
Una zìngna l'um à lèt la män
e l'um à détt tótt al cuntrèri
ad quàll ch'am é capitê fén adès.
Un òman ch'al dmandêva la limôṡna
al ṡlunghêva la män
avêrta a qui ch'i pasêvan,
mo al tgnêva la fâza srè dâla vargògna.
Cusa fèt con al män in bisâca?
Vén bän qué a iutêrum,
t an vàdd ch'a sòn da par mé?
L îra drì ch'al cuiêva al zrîṡ
quänd l é ṡbliṡghê al inpruvîṡ,
par furtûna ch'l é stè svêlt
a tgnîrs atâc a un râm dal zrîṡ,
al psêva caschèr e avanzèr paraliżè.
Un pôvar ṡgraziê d drì da un àlbar
an s vargugnêva brîṡa ad quàll ch'al fêva
prilê in là.
Mi mèdar l’um cuntêva
che mé da cinén ad dû ân
in cal mäntar che lì l'îra ad cô dâla schèla
a cójjar al zrîṡ con al panîr,
me ad sòta con al mî män cinîn
ai tulêva dal panîrò@
e ai magnêva ónna drì cl’ètra.
A män a män ch'al gnêva sîra
al galîn âli andêvan int al pulèr.
Sgnåur dutåur, cum fàggna,
al salâm al arvói int la chèrta,
sinò a tgnîral in män al s ónnz tótt.
S as vôl ch'ai véggna un bel lavurîr,
biṡògna prémma tôr vì la różżan
e pò dèri dåu män ad varnîṡ.
Prémma d andèr fòra d’in cîṡa
as fà al sàggn dla cråuṡ
par rispèt dal Sgnåur.
I monumìnt dl'antighité i én stè fât
con al sudåur ad mélla e mélla schièv
chi än purtè al prêd ónna pr ónna a män
con dal fadîg da bòia
che nuètar an arên mai fât.
Una vôlta i cuntandén puvrétt
i fêvan a män insàmm
quänd al gnêva al mumänt dl'arcôlta.
Al prît int al confesionèl l um à spieghè
in quänti manîr a psän pchèr con al män.
Pchèr al vôl dîr spurchèras,
al män al vän sänpar lavè,
mo zêrt qui in vän brîṡa fât.
Gî mò, fèl bän ón ch'al s métt in bisâca
di sôld ch'in én brîṡa i sû?
Prèl mai un artéssta lavurèr såul a mâchina
e creèr un quèl artésstic sänza druvèr al män?
Mî mèdar i prémm ân dla mî vétta
l’um lavêva con al såu män grändi e róvvdi,
con al savòn żàl da bughê.
Quänd la màsstra la spieghêva i verbi,
par esänpi “pulire”, “addobbare”,
mé a zarchêva d istìnt d imażinêr
âli aziòn che al mî män âli arên avó da fèr
se âli avéssan psó méttar in pratica la teorì.

Tot quàll ch'a fän, al fän con al män;
a pensèri pulîd, änc quänd a pinsän
a druvän al män: prémma ad méttar in pratica
tótt i nûstar piän, a vlän pruvèr s'i vän bän
L é cumpâgna s'a druvéssan al män dla mänt
int la secuänza dâli operaziòn dla fantaṡì,
prémma ad realiżèr i nûstar piän int la realtè.
Dimónndi vôlt as arcurdän ad quàll ch'avän fât,
s'avän ṡbagliè, a vrên psàir fèr un ètra vôlta
quàll che, una vôlta fât, inción al li pòl pió dsfèr.
 Le mani
È venuto a darmi la mano
per farmi le condoglianze.
Non ha voluto darmi la mano,
si vede che non riesce
a soprassedere a quello screzio.
I galantuomini un tempo stilavano i contratti
senza bisogno di scrivere nulla:
una stretta di mano e questo bastava.
La mano data era la firma sotto la parola
che i due si erano appena detti.
Al cameriere e ai servitori
si dà la mancia.
Mi ha fatto innervosire fino al punto che
gli avrei messo le mani addosso,
ma mi sono trattenuto perché ho dei figli.
I suoi discorsi sono così miseri che stanno nel palmo di una mano.
Ho visto un tale che ha messo la mano
tra i bottoni anteriori di una donna per vedere se ci stava,
ma lei gli ha mollato uno schiaffo
che ha fatto uno schiocco così forte,
che tutti si sono girati a guardare.
I contadini non fanno più tutto a mano,
adesso ci sono macchine per tutti i lavori agricoli:
non raccolgono neppure più la frutta
come facevano una volta
a mano un frutto per volta.
Ha preso la sua testa
e l’ha afferrata tra le mani,
tirava un vento contrario
e gli veniva da piangere.
Con una candela in mano
gli facevo luce perché ci vedesse,
era così buio, una notte senza luna,
che non ci si vedeva neppure a bestemmiare.
Che cosa ti è successo alle mani?
Ti sei ferito potando le rose del giardino?
Le mie mani sono ruvide e tutte callose
perché non ho fatto altro che lavorare la terra.
Ho riacciuffato il coniglio che era fuggito,
l’ho tenuto ben stretto afferrandolo per la nuca.
È andato un ladro in casa durante la notte,
ma l’hanno preso e lo hanno riempito di botte.
Il motore era acceso,
ha messo le mani nell’ingranaggio della falciatrice
così ha perso due dita di una mano.
Ha perso la fede mentre lavorava
e non è più stato capace di trovarla.
Ricordo l’ultima volta che l’ho visto
mi salutava con le mani dal finestrino
mentre il treno era in partenza.
Signor dottore, io bevo solo due dita di vino
solo ai pasti
e poi è il vino che faccio io stesso, con la mia uva.
Ha scritto una lettera firmata da suo padre
e me l’ha portata a mano.
Stava inchiodando delle assi
allorché ha perso il controllo del martello
che gli ha schiacciato il pollice.
Ho visto il cacciatore
con il fucile appoggiato alla spalla
pronto a sparare e la mano sul grilletto:
la lepre immobile poco lontano,
che quasi quasi
si poteva agguantare con le mani.
Mia madre e tutta la sua famiglia
con le mani in alto,
con il terrore negli occhi,
mentre i militari tedeschi
razziavano tutto quel che avevano,
tranne la vita e l’onore.
Mia madre faceva il bucato a mano:
dopo averlo lasciato a mollo nella cenere,
strizzava gli abiti bagnati,
prima di stenderli al sole.
Le lenzuola stese all’aria da bagnate
che erano si asciugavano
come se il sole con i suoi raggi,
quasi fossero dita invisibili,
estraesse tutta l’acqua goccia a goccia.
Un tale ha messo una mano sul culo
di una signora, lei si è girata
e gli ha mollato uno schiaffone
senza pensarci due volte:
sapete che lui è diventato tutto rosso
come un peperone maturo?
La mia mamma s’è accorta di quanto ero pallido,
allora mi ha messo una mano sulla fronte
per sentire se scottasse a causa della febbre.
Una zingara mi ha letto la mano
e mi ha detto l’esatto contrario
di quel che mi è capitato finora.
Un uomo che chiedeva l’elemosina
allungava la mano
aperta ai passanti,
ma teneva la faccia chiusa per la vergogna.
Che cosa fai con le mani in tasca?
Vieni ad aiutarmi,
non vedi che sono da solo?
Stava raccogliendo le ciliegie
quando è scivolato all’improvviso,
per fortuna cha ha avuto la prontezza
di tenersi a un ramo del ciliegio,
poteva cader giù e rimanere paralizzato.
Un disgraziato dietro un albero
non si vergognava di fare quel che faceva
girandosi dall’altra parte.
Mi madre mi raccontava
che io all’età di due anni
mentre lei era in cima alla scala
a raccogliere le ciliegie con il paniere,
io di sotto con le mie manine
le prendevo dal cesto grande
e le mangiavo una dopo l’altra.
Man mano che veniva sera
le galline entravano nel pollaio.
Signor dottore, come facciamo,
il salame lo avvolgo nella carta,
altrimenti a tenerlo in mano lei si sporca di grasso.
Se si vuole ottenere un buon risultato,
bisogna innanzitutto togliere la ruggine
e poi stendervi due mani di vernice.
Prima di uscire dalla chiesa
ci si fa il segno della croce
per rispetto del Signore.
I monumenti dell’antichità sono stati eretti
con il sudore di migliaia di schiavi
che hanno portato le pietre a mano una per una,
affrontando fatiche gigantesche,
che noi non avremmo mai fatto.
Un tempo i poveri contadini
si prestavano aiuto reciproco
quando era il momento della raccolta.
Il prete nel confessionale mi ha spiegato
in quanti modi possiamo peccare con le mani.
Peccare vuole dire sporcarsi,
le mani vanno sempre lavate,
ma certe cose non si fanno.
Ditemi, agisce bene chi si mette in tasca
soldi che non sono suoi?
Potrebbe mai un artista lavorare solo con le macchine
e creare un’opera senza adoperare le mani?
Mia madre i primi anni della mia vita
mi lavava con le sue mani grandi e ruvide,
con il sapone giallo del bucato.
Allorché la maestra spiegava i verbi,
ad esempio “pulire”, “addobbare”,
cercavo istintivamente d’immaginare
l’azione che le mie mani avrebbero dovuto fare
se avessero potuto mettere in pratica la teoria.

Tutto ciò che facciamo, lo facciamo con le mani;
a pensarci bene, anche quando pensiamo
adoperiamo le mani: prima di dare esecuzione
a tutti i nostri piani, vogliamo verificare se funzionano.
È come se adoperassimo le mani della mente
nella sequenza delle operazioni della nostra immaginazione,
prima di realizzare i nostri piani nella realtà concreta.
Molte volte ci ricordiamo di quel che abbiamo fatto:
se abbiamo commesso errori, vorremmo poter rifare
ciò che, una volta fatto, nessuno può disfare.
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