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Sonia Caporossi: «Taccuino dell'urlo. Raccolta poetica»

«Come cani atemporali, o della disseminazione onesta» – Di Massimo Parolini

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Titolo: Taccuino dell'urlo. Raccolta poetica
Autrice: Sonia Caporossi
 
Editore: Marco Saya 2020
Genere: libro di poesie
 
Pagine: 66, Brossura
Prezzo di copertina: € 10
 
Nell’immagine numero cinque del test di Rorschach, definita «tavola della realtà», comunemente si intravede una farfalla o un pipistrello: chi dovesse intravedere teste di coccodrillo sulle estremità delle ali, potrebbe essere ostile nei confronti degli altri.
Questa immagine funge da sfinge all’entrata del libro Il taccuino dell’urlo di Sonia Caporossi, da guardiano o traghettatore al quale il lettore deve dare una risposta, se vuole discendere, passare: risolvere l’enigma dell’identità, dell’io altro da sé, dell’io altro dall’altro, altro dall’Altro: l’ambiguità e la soggettività del riconoscimento, dell’autoriconoscimento che ci fonda, come un chiodo, duro, nel muro del nostro vissuto.
Come scrive Maria Grazia Calandrone in prefazione il protagonista, emittente dell’urlo, «è un operaio della dimenticanza, che si muove tra veglia e stato onirico, perseguitato dai sogni, combattente sul campo di battaglia o campo da calcio a duello e partita conclusi, divenuto arbitro di sé stesso».
 
L’autrice inizia con gli Indizi: Lui e lei.
Lui rimugina e riflette sul loro amore ormai finito, sulle delusioni e sulle angherie subite e inferte, sull’assurdo ammanco di felicità che ne deriva.
Gli tornano in mente ricordi e immagini, trafitture di dolore e arrabbiature; l’urlo interiore è intenso e, a tratti, gli sembra di impazzire. Vuole solo dimenticare.
 
Ma la dimenticanza esige la ricordanza per pulire il pavimento dell’anima da ogni resto, rimasuglio, avanzo da spazzatura. «Per poter risorgere nell’attesa».
Lei è un’interferenza che emerge virgolettata, eco nullificato di un’illusione autoindotta, parto di un errore comune condiviso nel sogno e nell’autoinganno.
«Maledetto il giorno che sono noto/perché il noto, dice Aristotele,/ non per questo è conosciuto.»
 
Nel secondo libro della Metafisica lo Stagirita mette sul banco la famosa similitudine delle nottole: «Come, infatti, gli occhi delle nottole stanno alla luce del giorno, così anche l’intelletto della nostra anima sta alle cose che per natura sono le più note di tutte».
Ripreso, secoli dopo, da S. Tommaso «Come gli occhi della nottola sono abbagliati dalla luce del sole che non riescono a vedere, ma vedono bene le cose poco illuminate, così si comporta l'intelletto umano di fronte ai primi principi, che sono tra tutte le cose, per natura, le più manifeste».
 
Spinoza ci ricorda che «omnis determinatio est negatio» una determinazione è sempre una delimitazione di ciò che in origine non aveva un limite, di ciò che, come dirà Aristotele, era aplos più semplice, anteriore, più universale, per sé, ed è conosciuto dopo, essendo oggetto intelligibile (visto che gli uomini conoscono prima le cose sensibili) solo dopo aver conquistato molta esperienza (passando per la memoria grazie alla permanenza del sensibile).
Con l’esperienza si sviluppa una nozione universale dei casi particolari permettendo di indossare l’abito-abitudine della conoscenza scientifica che consente la comprensione intellettuale dei principi. E questo abito, in costruzione progressiva, è il nostro centro, il nostro ego, al quale di riferiscono e nel quale si sedimentano, tutte le esperienze.

L'autrice Sonia Caporossi.

E tale sembra essere, nel taccuino, Lui. Nella Metaphysica Aristotele scrive che ciò che non è per sé si può indicare secondo la determinazione-definizione aggiungendolo ad altro come predicato, come per esempio se volendo definire l'essenza del bianco, si fornisse la definizione di uomo bianco.
Tale procedimento è poi per Aristotele quello tipico della definizione delle categorie differenti della sostanza: la loro definizione è solo per determinazione (cioè attraverso una relazione: il dispari in relazione al numero, etc.).
Ebbene: il Lei, del Taccuino dell’urlo, sembra tale predicato, non perseità, esistente come virgolettato e cancellato, vivente solo in relazione con la sostanza-Lui-per sé.
 
L’altro è predicato di abisso-riflesso-influsso-ossesso, è zona in cui Lui non vuol stare, è limite scabro nel quale per coercizione Lui si ostina a restare. Negli «echi ormai spenti» e vuoti d’amore «il ritorno alla gioia» si mostra «nell’eventuale», «nel dimenticare»: Lui ricorda «di lei solo il male/ nell’imprecisione coatta/ dell’analizzare».
L’altro è mise en abyme, rinvia ad altro ancora, all’Altro e la parola poetica non può raggiungerlo perché egli è reduplicazione di altri linguaggi, di altre alterità.
 
Lui «si affida a una voce/ ode sé stesso nel grembo infecondo» delle proprie orecchie, perché l’altro, Lei, tace, è ascolto «intonso»; le labbra, di Lui, «si chiudono/ nel richiamo/ a chi tace», ma la volontà di dire non le rende, dannunzianamente, più belle, oltre ogni uman desire: perché «nessuno risponde/ a ciò che ha domandato
Anche il verso di ricordanza, ha scarso valore, è scarto, fra tensione di «un vivere all’aperto del sistema» e il ricorso al sillogismo con premesse incerte («un chiudere al coperto l’entimema»): dunque è sforzo che «annaspa».
 
Riemerge dal «male azzurro» il mare verderame e «lo sguardo annega nel sole», forse è nottola aristotelica che si abbaglia e non vede ciò che più è manifesto, e in questi fosfeni di riavvolgimento del cuore, resta il sale «che imperla scabro le sue ciglia», gettato sulle fondazioni di periferia («a suburbia condita»).
Resta la consapevolezza che «il corpo era schiavo/ il corpo di quest’urgenza» di abbracci «nella latenza/ di un ritardo» asincronico: «non era mia/ ma solo e soltanto sua/ l’appartenenza».
E per superare le nietzschiane ragioni del corpo (che la ragione non conosce), «l’incostanza stabile del tatto» il soggetto sofferente ritorna al «fardello del pensiero» al «fondazionale dolo/ a cui si immola/ per sentirsi meno solo».
 
L’altro, il predicato, l’oggetto gettato avanti al sé, si fa scabra calcificazione: Lui attende che «un pigro istinto/ insonnolito» spinga «ancora le sue mani/ a andare a capo».
Nel contatto che si nega, avviene la sospensione del ricordo.
Lui cammina, anima stanca di dolore, nella città, flâneur della propria storia d’amore finita, fra i «vicoli instradati verso il niente» rievocando «le giornate radiose di marzo» nelle quali ci si arruolava nell’agone d’amore, memori di una «storia nostra infinita» ormai finita e tradita.
Malgrado i ricordi, «non si torna più a sperare/ nella terraformazione dell’amore/ se l’aratro ribalta le parole/ poi la semina non prende».
 
Lei, «nell’assenza, si fa fumo del rituale, peso pericardico/ che grava», fantasima chiamante il nome di Lui, «nel vuoto»: Lei, che è «un poltergeist spappolato/ che torna nel suo luogo/ di mistica elezione in sparizione» mentre Lui rimane in attesa che scompaia «il suo odore dal cuscino» e nemmeno le doghe si ricordino più «del suo corpo»: nel sonno di una ragione che non genera più mostri ma che non trova più il senso, il desiderio, assurdo ma pregnante, «verbo valenziale» è oggetto gettato avanti al soggetto, e aderisce alla mancata logica del senso e della ragione stessa: Lui desidera, contro il desiderio del riabbraccio «come scatole d’assenza», «solo addormentare questa voglia di volere», «sempre e solo» rigirarsi «dall’altra parte/ e poi, stanco di stancarmi/ dimenticare».
 
Ma nel «tempo baro» Lui «la vuole ancora/ così ritorna intero» dentro al «setaccio del suo amore ammalato e senza fiato», «getta una rete che non raccoglie nulla».
Lei aspetta nei sogni e insegna al di là del tempo e ride, ora che Lui «non può più vederla, e tutto ascolta/ ora che non cammina più», «è come cieco/ gli occhiali rotti/ gli istinti piegati/ o perduti, o pignorati».
L’amore strappato «che tutto stringe/ e nulla/ vuole si barcamena fra liquido di spurgo/ immotivato del perdono» e calce che non tiene «nella radice dell’anima cariata».
 
nella corazza indivisa
        della luce
la primavera allunga le sue fauci malate
«e tu non batti cassa al mio giardino»
 
sulla neve di febbraio, spoglia
come un indistinto atomo malnato
nella reduplicazione mitocondrica
rimangono le impronte
di questo odore che nel vapore perde fiato
 
la nostalgia è un arrocco
un meccanismo di difesa che si inceppa
la mistica ovvietà, rappresa nello sputo
         di un’ignorante assenza
«nel ciò che noi eravamo»
 
e forse, dopo la nebbia
nell’alba tumida di guttalax
oltre lo scioglimento preventivo dei contratti
«ancora»
    e sempre
        «siamo»
 
Una poesia altamente filosofica quella usata dalla poetessa, ricca di un lessico attinto a vari campi disciplinari e semantici, con ampio uso di locuzione specialistiche e settoriali ricavate anche dall’ambito ludico (calcio, box, scacchi…) adottando un plurilinguismo e una varietà di registri stilistici di ascendenza dantesca che tutto fagocita, modifica e assembla per ricucire lo strappo del proprio lutto e che necessita, in tale senso-direzione anche di un particolare uso di paragrafemi anomali, quali la parentesi graffa o i due punti raddoppiati, di pascoliana «X agosto» memoria, dei grassetti e dei corsivi, dei capilettera e dei nomi propri minuscoli, come nel dannunziano Libro segreto, nella rivincita del grafema significante, perché la parole è colpo di dadi che non abolisce il caso. In linea con la ricerca di Derrida nella scrittura del Taccuino dell’urlo il gioco «si riconsegna a se stesso, cancellando il limite a partire dal quale si è creduto di poter regolare la circolazione dei segni, e trascinando con sé tutti i significati rassicuranti, costringendo alla resa tutte le piazzeforti, tutti i rifugi del fuori-gioco che vegliavano sul campo del linguaggio» (Della grammatologia).
 
L’envoi (semi)conclusivo, congedo tradizionale di ascendenza provenzale non cerca omaggi e favori dal proprio lettore destinatario: si fa commentario dei versi dispersi. Si fa flusso di coscienza dell’infranto affettivo, nel quale Lei appare come cancellazione e traccia.
La fine dei versi non è la fine dei frammenti del discorso amoroso e la parole è atto e lutto personale irriducibile alla langue sociale e collettiva.
Gli autori dei cocci amorosi sono assenti, ciò che viene e chiama è l’Altro, il testo del discorso, la storia d’amore divenuta scrittura: qui vive la derridaiana differance che è differenza e differimento, rinvio, e le frasi di Lei, cancellate, sono testo nel quale la traccia si inscrive per cancellarsi, perché l’assenza non si lascia inscrivere dalla lettera, le è irriducibile.
 
Lui e Lei: poli dialettici di unico testo, scrittura che si fa «disseminazione», dispersione del senso, principio di piacere elasticamente teso fra desiderio di godimento e pulsione di morte.
La nostalgia del Senso, dell’Origine, dell’Ordine, di un Iperuranio, è «un meccanismo di difesa che si inceppa»: «informa la deformazione e decostruisci il reale».
A tale Senso-ArchiUnità-Amore e Origine, Lui infine rinuncia: vince la Scrittura (che deborda l’estensione del linguaggio), il Testo, nella «rabbiosa solitudine» del distacco, che è differenza e rinvio, nell’accoglienza della consapevolezza «di non ripensarsi interi/ dopo la distruzione», dopo la disseminazione onesta nel etc.
 
L’autore ringrazia il blog letterario https://www.readactionmagazine.it per il consenso alla pubblicazione.

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