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Franco Buffoni: fra sagace umorismo e sguardo di elegia civile. Di Massimo Parolini

Al Seminario di poesia diretto da Pietro Taravacci e Francesco Zambon, il poeta ha presentato la sua ultima raccolta, in dialogo con l’opera di Vittorio Sereni

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«A vent’anni avevo tre possibilità: diventare un poeta che scavava nel dialetto-lingua milanese, accostarmi al plurilinguismo della neoavanguardia oppure seguire la linea lombarda scabra ed essenziale di Vittorio Sereni. Iniziai col dialetto, traducendo, tra l’altro, dei poeti scozzesi vernacolari del Settecento. Il milanese era la lingua materna: mia madre, maestra, parlando l’italiano traduceva dal dialetto.»
Sono parole di Franco Buffoni, tra le voci poetiche italiane più originali degli ultimi decenni, ma anche critico e traduttologo (è stato docente ordinario di letteratura inglese e di letterature comparate), intervenuto recentemente al Seminario permanente di poesia (Semper) diretto da Pietro Taravacci e Francesco Zambon.
L’occasione è stata una conferenza dal titolo «Da Frontiera a Linea del cielo. Poesia e ritmo nel passaggio di secolo», in cui Buffoni ha intrecciato una lettura critica della macro opera poetica di Sereni con la lettura di alcune poesie tratte dalla sua ultima raccolta, fresca del Premio Carducci (La linea del cielo, Garzanti, 204 pagine).
 
Il poeta milanese (che vive da molti anni a Roma) ha ricordato anche l’amore per Delio Tessa, citando con trasporto la poesia «La pobbia de cà Colonetta» («Il pioppo di casa Colonnetti»): L’è creppada la pobbia de cà/Colonetta: tè chì: la tormenta/in sto Luj se Dio voeur l’à incriccada/e crich crach, pataslonfeta-là/me l’à trada chì longa e tirenta,/dopo ben dusent ann che la gh’era!/L’è finida! eppur... bell’e inciodada/lì, la cascia ancamò, la voeur nò/ morì, adess che gh’è chì Primavera.../andemm... nà... la fa sens... guardegh nò!

È morto il pioppo di casa/ Colonnetti: ecco: l’uragano/ di questo
luglio se Dio vuole ce l’ha fatta/ e cric crac, pataslonfeta-là/ me lo ha scaraventato qui lungo e disteso,/ dopo ben duecento anni che c’era!/ È finito! eppure... anche inchiodato/ lí, germoglia ancora, non vuol/ morire adesso che viene primavera.../ andiamo... via... fa pena... non guardarlo!

«In seguito, però, ho capito, andando avanti nella mia maturazione, che la linea di Sereni, quella frontiera, era la più consona alla mia visione del mondo e della poesia.»
Oltre una ventina di libri tra raccolte poetiche, narrative e romanzi (ricordiamo almeno «Il profilo del Rosa» 2000, «Guerra» 2005, «Jucci» 2014, per la poesia, «Il servo di Byron» 2012 e «Il racconto dello sguardo acceso» 2016, per i romanzi), Buffoni è anche autore di diversi saggi critici e traduttore di punta dei poeti romantici inglesi, dall’amato Keats a Coleridge e Byron.
Presentando gli atti del Convegno su «La traduzione del testo poetico» (1988) coniò il termine «traduttologia», scienza della traduzione. Poco dopo (1989) ha fondato la rivista semestrale di traduttologia «Testo a fronte» (con Emilio Mattioli e Allen Mandelbaum), punto di riferimento obbligato per il dibattito e gli esperimenti di traduzione degli ultimi decenni.
 
In dialogo con Pietro Taravacci, Buffoni ha quindi alternato la lettura e l’analisi di alcune poesie di Sereni tratte dalle quattro raccolte «Frontiera» (1941), «Diario d’Algeria» (1947), «Gli strumenti umani» (1965), «Stella variabile» (1981), con la presentazione della propria ultima raccolta ricordando, anche attraverso vari aneddoti, la figura del grande poeta di Luino, nel suo dramma «piccolo borghese» di una generazione che vide nella carriera da ufficiale (sottotenente) una possibilità di scalata sociale.
Pagando il prezzo di una guerra offensiva combattuta a braccetto con la Germania nazista e terminata con due anni di prigionia in Algeria.
Un dramma, questi sette anni, che Sereni si porterà dietro tutto la vita e che emerge da alcune delle intense poesie lette da Buffoni (quattro tratte da Diario d’Algeria, fra le quali la famosa Non sa più nulla, Amsterdam, su Anna Frank, da Gli strumenti umani, Sarà la noia, da Stella variabile, sull’angelo nero dello sterminio olocaustico.
 
Una figura autorevole ma anche autoritaria, quella di Sereni, che per Buffoni è diventato un punto di riferimento negli anni sempre più necessario, anche per la vicinanza biografica con la figura dell’altro convitato di pietra, il padre, con cui Sereni era accomunato dall’anagrafe ma anche dal modello di padri nati negli anni dieci, entrambi ufficiali, cultori di uno «stile giacca a cravatta», di un ordine formale che Buffoni non ha cessato di scoprire negli anni (fino alla disposizione per collane editoriali della libreria di Sereni a Luino, esattamente quella disposizione che il padre teneva in casa).
Padri a cui sfuggire e allo stesso tempo padri da ritrovare, in una dialettica esistenzialmente tesa. Ma, come spesso succede, alla fine Buffoni ha approfondito maggiormente la figura del poeta, studiandone le raccolte, i saggi critici, l’epistolario, sviscerando la storia di un’anima più di quanto potesse fare con quella di suo padre.
Padri, quindi, cui si vuol bene ma anche con funzione -freudianamente- castrante, ovviamente: «se avessi parlato della mia omosessualità a mio padre» - ha chiosato il poeta traduttore - mi avrebbe mandato a farmi curare».
E il poeta di «Suora Carmelitana» ha ricordato, a questo punto, la data del 17 maggio 1990, quando l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) eliminò l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali.
Portando, pur lentamente, le legislazioni occidentali nella direzione opposta, ossia a predisporre leggi contro «l’omofobia».
 
Ha annunciato la futura uscita di un romanzo nel quale, introducendo tre poeti omosessuali inglesi, Byron, Wilde, Auden, incentrerà la trama su due pub storici, poli storici della rivendicazione al diritto omosessuale: quello londinese dove nel 1810 la polizia interruppe un matrimonio omosessuale e impiccò cinque persone (gli sposi, il prete e altri due) e lo «Stonewall Inn» newyorkese in Christopher Street nel Greenwich Village dove durante le prime ore del 27 giugno 1969 la polizia irruppe provocando la reazione dei gay (a partire da una bottiglia lanciata dalla transessuale Sylvia Rivera): episodio che divenne il simbolo della nascita del movimento di liberazione gay nel mondo e originò il «Gay Pride» (che quest’anno compie cinquant’anni).
Fino al Novanta, c’è stata molta ipocrisia, ovviamente, ricorda Buffoni, un mascheramento accomodante per assecondare il «pubblico pudore».
«Bene qui latuit bene vixit» fu il motto di Cartesio (che riprendeva l’epicureo «láthe biôsas», «vivi nascostamente»), ed è quello che un’intera generazione di poeti omosessuali del passato seguì (ma anche alcuni ancora viventi che scrivono di preferire «gli antichi castighi» al diritto di esercitare nella nostra società la propria scelta sessuale in piena libertà).
 
Buffoni ha quindi declinato alcune osservazioni critiche sul tema del «ritmo» (sul quale nel 2002 ha pubblicato il volume «Ritmologia»), definito dal grande poeta gallese Dylan Thomas «il respiro profondo dell’Universo»: una realtà cosmica, ha ribadito Buffoni, che esisteva prima dell’apparizione dell’homo sapiens.
Citando Beda il Venerabile per il quale «Il ritmo può sussistere di per sé, senza metro; mentre il metro non può sussistere senza ritmo. Il metro è un canto costretto da una certa ragione; il ritmo un canto senza misure razionali».
Una distinzione che sarà ripresa nel «Traité du rythme» (1998) di Henri Meschonnic e Gérard Dessons: «Il ritmo non è formalista, nel senso che non è una forma vuota, un insieme schematico che si tratterebbe di mostrare o no, secondo l’umore. Il ritmo di un testo ne è l’elemento fondamentale, perché ritmo è operare la sintesi della sintassi, della prosodia e dei diversi movimenti enunciativi del testo».
 
A questo punto Franco Buffoni ha recitato alcuni bellissimi versi conclusivi da «Liguria», di Vincenzo Cardarelli, poeta oggi troppo in ombra, anche nel canone seguito dai manuali scolastici: «È la Liguria terra leggiadra./ [...]/ Una rosea tristezza vi colora/quando di sera, simile ad un fiore/che marcisce, la grande luce/si va sfacendo e muore».
Sereni, il padre, gli aneddoti, la rivendicazione omosessuale, il ritmo: negli interstizi, come accennavamo all’inizio, Buffoni ha regalato qualche assaggio dell’ultima raccolta poetica, «La linea del cielo», (forse) l’opera definitiva, che indica la forma del paesaggio che modifica il suo profilo da aguzzo a sinusoidale, in una genealogia di riferimento più appenninica che lombarda (con ingredienti giuliani-friulani con Umberto Saba e il primo Pasolini, perugini con Sandro Penna, romani con Attilio Bertolucci e Dario Bellezza).
Continuando nella raffinata malgama di coltézza, ironia, e sguardo civile, fra l’umorismo stoico e fantasista di Jules Laforgue e il lieve tocco ludico di Aldo Palazzeschi (com’è stato spesso sottolineato dai suoi critici), guarnito talora da guizzi di elegia civile (come in «In morte di Alessandro», sulla fine di Regeni o L’autobus dei bambini morti, su un triste episodio della Berlino occupata dai sovietici) in una cifra di arguzia e acutezza che l’hanno resa una delle voci più originali della poesia italiana negli ultimi quarant’anni.
Abbiamo posto alcune domande a Franco Buffoni.
 

 
Per recensire la sua ultima raccolta poetica, «La linea del cielo», si è parlato di opera definitiva, maturissima, testamentaria: è una «resa dei conti» con la propria vita? La sensazione di non essere più in grado, di non sapere più ricordare, contemporaneamente, tutta la sua esistenza [...] di star per cominciare a non ricordar più tutto come prima (come recita «Come un polittico» de «Il profilo del Rosa»)?
«È quanto han detto i critici, parlando del libro: a meno che non si intenda ultimativa in quanto ho settant’anni e sia considerata l’ultima in assoluto, mi fa piacere venga considerata la centralità del libro, lungamente meditato.
«È il quinto libro poetico in ventun anni: libri diversi fra loro, per forma, stile e contenuto, e anche quest’ultimo, pur rimanendo in dialogo coi precedenti, forma una realtà a sé, forse più matura, con uno scarto stilistico, risentendo anche della più avanzata fase esistenziale attuale.»
 
Il titolo della raccolta doveva essere «Codice Verlaine» (dal titolo di una poesia inclusa): a cosa alludeva?
Alludevo all’annuncio in codice dello sbarco in Normandia che radio Londra trasmise alla resistenza francese, ossia l’incipit della Chanson d’automne di Paul Verlaine: Les sanglots longs des violons de l’automne (I lunghi singhiozzi dei violini d’autunno).
«Tale scelta mi è sempre sembrata profondamente decadente e snobistica: dare il via all’inizio di una lotta per la liberazione, con azioni di sabotaggio da parte dei partigiani francesi, con i sanglots longs des violons...
«Il messaggio fu trasmesso il 1° giugno per annunciare l’invasione imminente da confermare entro due giorni. In realtà il 3 giugno radio Londra ritrasmise l’incipit anziché il secondo verso (blessent mon coeur d’une langueur monotone, mi feriscono il cuore d’un monotono languore), procrastinando l’azione.
«Le condizioni atmosferiche negative avevano costretto a rinviare l’attacco. Bisognerà attendere le 22.15 del 5 giugno perché il messaggio in versi verlaniani fosse completato. Mi affascina la circostanza che migliaia di uomini pronti alla morte per la liberazione siano rimasti per tre giorni in attesa angosciosa di un verso così languido.
«Per questo motivo volevo intitolare così la mia raccolta (e per me quello rimane il suo vero titolo). La casa editrice non ha però accettato la proposta in quanto, causa Il codice da Vinci, i titoli con la parola codice sono ormai inflazionati.
 
«La linea del cielo», lo skyline, le interferenze: chi popola lo spazio sopra la linea del suo cielo? C'è posto per l'alterità metafisica, del mondo dietro al mondo o, nella sua esperienza, va cercata nella natura foresta di simboli e nei suoi confusi messaggi?
«Sono una persona molto spirituale soprattutto nelle tensioni artistiche: la filosofia, l’arte, la letteratura, la musica, il paesaggio: ovviamente le emozioni e l’afflato che mi restituiscono trasportano verso una realtà superiore, immateriale, straordinaria...
«Ma non credo in nessun dio: penso che il monoteismo sia stata una grande iattura. Il politeismo era più aperto al dialogo: in un mondo politeistico c’era sempre un dio di riferimento, che poteva difenderti e darti sicurezza in caso di bisogno (Mercurio era persino il dio che proteggeva i ladri!).
«In questo sono d’accordo col massimo poeta in lingua araba di oggi, Adonis, col quale ci siamo trovati a Roma, ribadendo lo stesso concetto: a partire dalla sua prima radice, quella ebraica, il monoteismo ha in sé il principio dell’esclusione, che non può che portare allo scontro.
«Più vado avanti con gli anni più matura in me la consapevolezza della necessaria autonomia del singolo dal mondo esterno tramite lo scavo interiore, la ricerca della bellezza dentro di sé, e mi convinco che solo in un forte scatto di maturazione ci sia la possibilità per l’uomo di una vera liberazione.»
 
Nella poesia «Doppio fregio» lei si definisce: «Una vecchia iena di passaggio anche lì come dovunque». Quale immagine di sé vuole trasmettere, con questa metafora autosarcastica? La sua poesia ricorre spesso allo stile e ai contenuti ironici, seguendo una lunga tradizione della letteratura occidentale: viene accettata, oggi, l'eironeia in letteratura, dai critici e dai lettori?
«Una sottile ironia (e un lieve sarcasmo) che io conduco spesso su di me, è una tecnica di autodifesa, che previene l’attacco esterno: è una delle mie matrici, sviluppata nel corso degli anni, via via che ho iniziato a vedere le cose, le persone, gli eventi con maggior distacco e leggerezza... Sì, ai lettori piace, anche perché abbiamo una tradizione europea copiosa in merito, soprattutto nel Settecento: basti pensare a Voltaire o al nostro Parini.»
 
Nella raccolta dedica una poesia a Keats (di cui ha curato l’edizione poetica per Guanda), il primo poeta romantico inglese delle sue traduzioni, sempre al suo fianco: cosa la affascina di più in lui: l'equivalenza tra bellezza e verità o il nome scritto sull'acqua della sua esistenza?
«Keats è, tra i poeti romantici che ho amato e tradotto, quello di famiglia più modesta, che all’inizio Ottocento in Inghilterra voleva dire difficoltà ad emergere. Giovane sfortunatissimo di grandi capolavori, animo ardente nella sua concezione del negative capability, della necessità neostoica di essere sempre nel dubbio (abbandonandosi alle cose, sempre aperti al mistero) e a non accettare l’appiglio dello scivolo metafisico (avendo in questo, come antesignano, lo stesso Shakespeare, al quale attribuiva in primis quella concezione).
«L’equivalenza fra bellezza e verità egli la prende da una lunga tradizione, soprattutto settecentesca, però vi aggiunge quella freschezza giovanile, quella carica vitale, in un lampo di versi conclusivi nell’ Ode su un’urna greca, che gettano una luce potentemente nuova a un concetto tradizionale. Un’Ode di grande forza, scritta da un giovane che non conosceva il greco e in Grecia non era mai stato.
«Affascina il suo destino di sofferenza, la convinzione che la propria opera (snobbata dalla critica del tempo) non avrebbe lasciato tracce (il nome scritto sull’acqua): pensava di diventare famoso con i poemi Endimione o Iperione (migliaia di versi), ma divenne immortale con le brevi odi ed alcuni sonetti, da lui considerati la produzione minore, ma frutto di estrema sintesi lirica e capacità tecnica affinata nella produzione maggiore


 
 Vittorio Sereni ballava benissimo 
Vittorio Sereni ballava benissimo
con sua moglie e non solo.
Era una questione di nodo alla cravatta
e di piega data al pantalone,
perché quella era l’educazione
dell’ufficiale di fanteria,
autorevole e all’occorrenza duro
in famiglia e sul lavoro,
coi sottoposti da proteggere
e l’obbedienza da ricevere
assoluta: “E’ un ordine!”,
riconoscendo i pari con cui stabilire
rapporti di alleanza o assidua
belligeranza.
Ordinando per collane la propria libreria.
 
 Il Porro Lambertenghi 
Oggi che non si studia più la storia del Risorgimento
e le vecchie insegnanti sono in pensione o morte,
ricordo lo stupore bisbigliato della Martegani Carla
restia ad aprire i libri
alla terza menzione degli eroi carbonari
il Maroncelli il Pellico il Porro Lambertenghi…
“Ma perché? Era un suo parente?”
Ferma all’uso semplice di premettere “povero”
in lombardo al nome del defunto caro.
 
 Confucio con Maometto a San Lorenzo 
O voi poeti e critici che all’Esc
discutete dell’io in partenza da abolire
per uscire dal lirismo,
sapete il caso di quell’insegnante
giovane motivato fresco di dottorato
che in terza media al corso per stranieri
spiega i pronomi e infine chiede
qual è secondo voi la differenza tra egli e lui?
Sguardi interrogativi tra gli allievi in classe
età media vent’anni,
consultazione al terzo banco
tra il magrebino (pizzaiolo) e la cinese (barista),
ogni giorno in trincea, lavoro e scuola, a produrre un’intesa
in romanesco stanco. E senza ironia
solo per necessità
di definizione:
folse se dice egli se lui è gay…
 
 Montale sul Titano 
Fu Scelba ministro degli Interni
a bloccare nell’autunno del cinquanta
ogni accesso stradale a San Marino.
Avevano aperto una casa da gioco coi croupier
i e l’Italia non poteva tollerarlo
a dieci minuti da Rimini.
Con parte dei denari introitati
le autorità del piccolo stato
indissero anche un premio di poesia,
un milione di lire al vincitore
che risultò il Montale cinquantenne
della prima draft della Bufera.
Delle tre copie del dattiloscritto
oggi ne resta una in Sala Falqui
alla Nazionale
una carta carbone che leggo in anastatica,
perché Montale con tutta la giuria
il pomeriggio della premiazione
venne bloccato dalla polizia ai piedi del Titano.
Ma Eusebio non si diede per vinto
e a piedi attraverso i boschi risalì
il fianco scosceso del monte
giungendo inzaccherato all’agognato finisterre
del milione con la giacca strappata,
per quella che rimase la prima
ed anche l’ultima edizione
del Premio di Poesia di San Marino.
 
 L’autobus dei bambini morti 
L’autobus dei bambini morti
è quello che Christine Koschel
vide a Berlino nel quarantacinque,
alcuni ancora vivi, molti infanti
tutti assolutamente soli
abbandonati in una fuga dal nulla al nulla
durante l’avanzata dei sovietici.
Da qui gli occhi per sempre
che l’orrore hanno visto
di Christine
intraducibile se non
nello strappo sintattico.
 
Franco Buffoni 
Nato a Gallarate nel 1948, vive a Roma. Esordisce come poeta nel 1978 su Paragone presentato da Giovanni Raboni. Ha pubblicato le raccolte di poesia Nell'acqua degli occhi (Guanda 1979), I tre desideri (San Marco dei Giustiniani 1984, Premio Biella, Premio Ceva), Quaranta a quindici (Crocetti 1987), Scuola di Atene (Arzanà 1991, Premio Sandro Penna), Adidas. Poesie scelte 1975-1990 (Pieraldo editore 1993), Nella casa riaperta (Premio per l'inedito S. Vito al Tagliamento 1994, Premio S. Pellegrino, Premio Matacotta), Suora carmelitana e altri racconti in versi (Guanda 1997, Premio S. Domenichino, Premio Pisa), Il profilo del Rosa (Mondadori 2000, Premio Betocchi, Premio Antica Badia), Theios (Interlinea 2001), Del Maestro in bottega (Empiria 2002, Premio Pascoli, Premio Pavese), Guerra (Mondadori 2005, Premio Dedalus della critica, Premio Pasolini), Noi e loro (Donzelli 2008, Premio Maria Marino, Premio Anna Osti, Premio Suio Terme), Roma (Guanda 2009, Premio Alpi Apuane, Premio Città di Penne-Fondazione Piazzolla, Premio Giuseppe Giusti). L'Oscar Poesie 1975-2012 (Mondadori 2012, Premio Alda Merini 2013) raccoglie la sua opera poetica fino a quella data. In seguito ha pubblicato Jucci (Mondadori 2014, Premio Viareggio, Premio Castello di Villalta, Premio Fiumicino, Premio Luciana Notari, Premio Ponte di Legno), Avrei fatto la fine di Turing (Donzelli 2015), O Germania (Interlinea 2015), Poeti (Lietocolle-Pordenonelegge 2017), La linea del cielo (Garzanti 2018).
 
Nel 1989 ha fondato e tuttora dirige il semestrale di teoria e pratica della traduzione letteraria Testo a fronte. Per Marcos y Marcos ha curato i volumi Ritmologia (2002), Mario Praz vent'anni dopo (2003) e La traduzione del testo poetico (2004). Per Mondadori ha tradotto Poeti romantici inglesi (2005, Premio Marazza) e curato opere di Byron, Coleridge, Wilde, Kipling. Con Marcos y Marcos ha pubblicato i quaderni di traduzione Songs of Spring (1999, Premio Mondello) e Una piccola tabaccheria (2012, Premio Torre dell'orologio).
Premio Nazionale per la Traduzione della Presidenza della Repubblica (1993) e Premio per la Cultura della Presidenza del Consiglio (1998), dal 1994 collabora con il Mibact. È stato rappresentante del governo italiano a Bruxelles sia nel progetto Arianne sia nel progetto Cultura 2000. È presidente della commissione nazionale per i Premi Nazionali per la Traduzione. Come professore ordinario di letteratura inglese e di letterature comparate ha insegnato nelle università di Bergamo, Cassino, Milano IULM, Parma, Trieste e Torino.
 
È autore dei romanzi Più luce, padre (Sossella 2006), Reperto 74 (Zona 2008), Zamel (Marcos y Marcos 2009), Il servo di Byron (Fazi 2012), La casa di via Palestro (Marcos y Marcos 2014), Il racconto dello sguardo acceso (Marcos y Marcos 2016, Premio Tassoni), nonché di Laico alfabeto (Transeuropa 2010) e del libro-intervista scritto con Marco Corsi Come un polittico che si apre (Marcos y Marcos 2018). Tra i suoi saggi Ramsay e Fergusson, precursori di Burns. Poesia pastorale e poesia vernacolare nel Settecento scozzese (Guerini e Associati 1991), I Racconti di Canterbury. Un'opera unitaria (Guerini e Associati 1992), Perché era nato Lord. Studi sul Romanticismo inglese (Pieraldo Editore 1993), Carmide a Reading. Establishment, generi letterari e ipocrisia al tramonto dell'età vittoriana (Empiria 2002, Premio Città di Adelfia), L'ipotesi di Malin. Studio su Auden critico-poeta (Marcos y Marcos 2007), Mid Atlantic. Teatro e poesia nel Novecento angloamericano (Effigie 2007) e Con il testo a fronte. Indagine sul tradurre e l'essere tradotti (Interlinea 2016 II ed). Del 2017 l'opera teatrale Personae (Manni). Il suo sito è www.francobuffoni.it
 
Massimo Parolini

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