Home | Interno | Forze Armate | Una giornata passata col V Reggimento Alpini, a Vipiteno

Una giornata passata col V Reggimento Alpini, a Vipiteno

A un anno dalla missione di pace in Afghanistan, siamo andati a trovarli in casa loro

image

In occasione della cerimonia privata dell’intestazione della Caserma del V Reggimento Alpini di stanza a Vipiteno, al capitano Massimo Ranzani caduto in Afghanistan il 28 febbraio scorso, abbiamo potuto visitare la struttura militare.
L’Esercito Italiano conta oggi poco più di 100.000 effettivi, contro le centinaia di migliaia dei tempi della leva obbligatoria e, a quanto ci è stato detto, dovrà assottigliarsi ancora, in seguito ai tagli di bilancio che il nostro Paese sta facendo per le ragioni che tutti conosciamo.
Abbiamo dunque meno soldati che forze dell’ordine, ma si tratta di persone a specializzazione altamente verticalizzata, cosa che ai tempi della leva era impensabile. E che adesso servono al Paese mille volte di più di quando andavamo alla visita militare.
 
La visita ci è stata concessa dal Ministero della Difesa, che ormai conosce il nostro quotidiano online.
Abbiamo così scoperto anche a Vipiteno alcune cose che vale la pena raccontare ai nostri lettori appassionati, precisando che noi non siamo affatto guerrafondai, anzi. Noi ci limitiamo a riscoprire una delle principali strutture pubbliche del nostro Paese del tutto rinnovata da quando è formata da soli volontari.
Nell'immagine che segue, la riproduzione di una bellissima foto satellitare disponibile grazie a Google Earth. Come si può vedere, occupa una pertinenza pari all’incirca un terzo dell’intero abitato di Vipiteno, che conta un po’ più di 3.000 abitanti.
 

 
Il V Alpini è in forza alla Brigata Julia, che ha sede a Udine, al seguito della quale è stato in Afghanistan nell’inverno scorso ed è lì che ha pagato l’alto tributo di sangue con la perdita del Capitano Ranzani, che ancora tutti ricordano con emozione.
Il V Reggimento conta 500 alpini, il cui 10% sono donne, tutti dotati di una loro precisa specializzazione.
Li avevamo conosciuti sul campo, a Shindand, e per noi a Vipiteno è stato quasi un ritorno a casa, con la differenza che l’atmosfera che vi si respira è totalmente diversa. 
 
Anche il loro addestramento adesso è completamente cambiato, sulla scorta delle missioni compiute. Chi esce con il blindato sa come deve portarlo in giro, sa cosa deve abituarsi ad aspettare.
Quando vanno a sparare al poligono di tiro, sanno che non è più una questione di fare centro. Un militare magari non estrarrà mai la beretta e non metterà mai il colpo in canna al 70-90, ma quando lo fa sa perfettamente che sta anzitutto proteggendo la sua vita. E poi quella degli altri, come noi quando eravamo con loro.

 
 

 
Il poligono di pertinenza al V Alpini è disponibile solo nella mezza stagione. D’inverno la neve ne impedisce l’accesso, d’estate gli allevatori lo vogliono per monticare gli animali.
Quando siamo arrivati noi, c’erano dei militari che si stavano addestrando per il biathlon delle truppe alpine, una delle competizioni sportive tipicamente militari. Ognuno deve sparare nel minor tempo possibile e centrare cinque bersagli da 10 cm collocati a un’ottantina di metri di distanza.
Quando sparano hanno il fiatone perché vi sono arrivati con gli sci da fondo, per cui devono equilibrare lo stress fisico alla precisione, tenendo conto che ogni bersaglio mancato corrisponde a una penalità di 200 metri.
«Vuoi dire alla signorina di contare fino a 20 prima di sparare ogni colpo?» – Dice l’ufficiale al maresciallo che dirige l’addestramento, riferendosi a una donna alpino.
«Cinque tiri, cinque bersagli… – Risponde il sottufficiale. – Io la lascerei continuare così…»
 
Più in là c’è qualcuno che si addestra a sparare con la Beretta. Il bersaglio è a una quindicina di metri. I soldati si alternano al tiro seguendo la prassi con disciplina, che è l’unico modo per non farsi male.
«C’è qualcuno di voi che in Afghanistan ha dovuto sparare?» – Chiedo a un gruppo di soldati che a Shindand mi avevano fatto da scorta.
«Grazie a Dio no. – Mi risponde il maresciallo che un anno fa ho fotografato mentre li comandava in un villaggio afghano. – Però ognuno di noi ha qualcosa da ricordare.»
Mi indica un caporalmaggiore.
«Un ordigno è esploso tra il mio Lince e quello che seguiva, – racconta il graduato. – Siamo stati salvati dal jammer [il dispositivo che distorce i segnali elettronici e così anche gli inneschi radiocomandati. – NdR]. Noi non abbiamo sentito neanche il boato dell’esplosione – prosegue – dato che avevamo gli auricolari interfono e che il Lince pesa più di sei tonnellate. Ma chi era dietro di noi ha visto l’inferno. Erano certi che fossimo stati colpiti.»
 
  
  

Ogni tanto sentiamo qualche raffica di Minimi, il nuovo fucile mitragliatore in dotazione alle forze NATO. Pian piano sostituirà la vecchia MG, per via del calibro 7.62 ormai sostituito dal 5.56.
D’un tratto il comandante chiama il capitano addetto al tiro e un maresciallo infermiere.
«Tra qualche girono il maresciallo parte per l’Afghanistan. – Dice il colonnello. – Gli fai sparare 100 copi con la Beretta e duecento con il 70-90. Lo fai andare vanti finché non centra tutti i bersagli.»
«Signorsì, signore.»
«Mi scusi – interviene il maresciallo. – Ma andrò a fare l’infermiere e…»
«Lo so che sei un infermiere, – risponde il comandante. – E bravo anche. Per questo voglio che ritorni a casa.»
 

 
Quando torniamo in caserma, mi mostrano alcune migliorie che sono state fatte all’interno della caserma. Non ci sono più le salmerie, non tanto perché i muli non servono più, ma perché nessuno sa più governarli di suo. Una trentina d’anni fa, la maggior parte dei contadini allevava animali da tiro, adesso sono scomparsi.
Al loro posto sono stati costruiti degli alloggi per i soldati, degli appartamentini veri e propri, tutti dotati di bagno, cucina e sala da pranzo.
«Abitare in paese piacerebbe a tutti, – dice il tenente addetto ai rapporti con la stampa. – Ma i prezzi sono proibitivi. Queste soluzioni hanno migliorato di molto la vita dei soldati.»

Un soldato lavora per 36 ore alla settimana, dalle 8 alle 16.30, compresa la pausa pranzo. Il venerdì smette alle 12. Chi lavora di più per motivi di servizio si troverà in busta paga gli straordinari. Anche questo è un grande passo avanti per la vita del soldato.
A ognuno spetta un pasto, o il pranzo o la cena, a seconda del servizio che deve fare. Per questo è comodo avere un frigo e un fornello nell’alloggio.
 
 

Poi ci mostrano alcune fasi dell’addestramento.
Quando ci sarà la neve, l’addestramento principale avverrà con gli sci. Da discesa, da sci alpinismo e da fondo. Vi sono istruttori militari e civili.
Al momento non c’è neve a sufficienza, per cui gli alpini vengono addestrati in palestra di roccia e nella difesa personale.
Per la scuola di roccia sono ben attrezzati, sia in termini di istruttori che di strutture e anzi il comune mette loro a disposizione la palestra pubblica. Li abbiamo visti al lavoro e dobbiamo dire che, se a noi sembravano tutti ben preparati, agli istruttori non bastava.
«Non sono qui per divertirsi. – Ci spiega il maresciallo. – Sapersi arrampicare è solo un mezzo per poter svolgere il proprio lavoro. Prima o poi dovranno andare a soccorrere qualcuno o compiere un’operazione militare. Salire in tutta sicurezza dovrà essere assodato.»
 
 

 
In un prato, anch’esso in attesa di neve, c’era una dozzina di soldati attorno a un istruttore per la difesa personale.
«Sono tutti ben addestrati al combattimento corpo a corpo – mi spiega il tenente. – Quello che devono imparare in questo gruppo, è difendersi senza fare danno alle persone. Si stanno preparando per l’operazione Strade sicure. Se qualche concittadino dovesse aggredirli, devono solo immobilizzare l’aggressore. Non fargli male…»
I ragazzi formavano coppie dove uno provava atterrare l’altro e l’aggredito cercava poi di immobilizzare l’avversario. Quindi l’istruttore li chiamava nuovamente attorno a sé per aggiustare quello che aveva visto.
 
 
 
 

 
Le attività addestrative continuano e sono molteplici, ma la nostra visita finisce e noi dobbiamo lasciare la caserma.
Anche stavolta abbiamo visitato una solida struttura dell’amministrazione statale che sa come lavorare e per chi lavorare. Il fatto che siano armati è del tutto marginale. L’importante è che ognuno sappia cosa fare e come farlo.
Per chi ha svolto il servizio militare tanti anni fa come il sottoscritto, sembra proprio che sia passata un’era. E in effetti, 40 anni sono quasi due generazioni.
Se ai miei tempi veniva riservato all’esercito il peggio della produzione nazionale (o più semplicemente il meno costoso), adesso dotiamo i nostri ragazzi di cultura, li attrezziamo col meglio di ciò che offre l’industria del Paese, li addestriamo al massimo.
Ma, soprattutto, quando verranno chiamati a servire il Paese sul campo, sapranno di avere alle spalle il pieno sostegno dei propri concittadini.
Per questo non cesseremo mai di spiegare il mondo difficile ma appagante dei nostri soldati.
 
Guido de Mozzi
g.demozzi@ladigetto.it
 

Condividi con: Post on Facebook Facebook Twitter Twitter

Subscribe to comments feed Commenti (0 inviato)

totale: | visualizzati:

Invia il tuo commento comment

Inserisci il codice che vedi sull' immagine:

  • Invia ad un amico Invia ad un amico
  • print Versione stampabile
  • Plain text Versione solo testo

Pensieri, parole, arte

di Daniela Larentis

Parliamone

di Nadia Clementi

Musica e spettacoli

di Sandra Matuella

Psiche e dintorni

di Giuseppe Maiolo

Da una foto una storia

di Maurizio Panizza

Letteratura di genere

di Luciana Grillo

Scenari

di Daniele Bornancin

Dialetto e Tradizione

di Cornelio Galas

Orto e giardino

di Davide Brugna

Gourmet

di Giuseppe Casagrande

Cartoline

di Bruno Lucchi

L'Autonomia ieri e oggi

di Mauro Marcantoni

I miei cammini

di Elena Casagrande