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Verso il 70° anniversario del bombardamento della Portela/ 3

Dal libro di Nadia Mariz «Trento 1940-1945. I testimoni raccontano» – Prima puntata, gli anni della Portela

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Il rione della Portèla è il più popoloso della città, quello che tra tutti conserva colori, rumori e profumi antichi.
È un rione povero, dove la vita è dura, ma non mancano cordialità e solidarietà reciproca.
È terra natìa di alcuni tra i più importanti cantori e poeti dialettali della città e dell’intera provincia che, per affetto, hanno esaltato la spontaneità e la genuinità della Portèla e dei «portelòti».
Compreso nella zona tra Torre Vanga e la chiesa di Santa Maria Maggiore, deve il suo nome alla piccola porta che era posta a lato di Torre Vanga, punto di accesso alla città quando ancora l’Adige scorreva ai suoi piedi e le mura di cinta ne segnavano il perimetro.
 
Nel 1858 il corso dell’Adige era stato deviato per far posto alla ferrovia del Brennero e nel 1886 il piano stradale fu rialzato. Questo spiega perché l’ingresso di Torre Vanga si trova più in basso rispetto a livello strada.
Lo stesso vale anche per gli edifici situati in via Prepositura. Per consentirne l’accesso furono costruite delle scalette. Oggi ne rimangono solo un paio, ai civici 36 e 38 di piazza Santa Maria Maggiore.
La Torre, benché di più antica costruzione, è intitolata al più famoso principe vescovo della città, Federico Vanga, morto nel 1217, ma era anche conosciuta con l’appellativo di «la torre rossa», per il colore rossastro che i raggi di sole donavano ai mattoni prima di spegnersi dietro le cime del Bondone.
Baluardo e sentinella della città per secoli, la Torre ospitò prigionieri nel medioevo e un deposito militare durante il periodo austro-ungarico.
 
In quegli anni era sede della milizia fascista.
Dopo il 1945, ospiterà gli sfollati rimasti senza casa. Tra le vie, i vicoli e nei cortili si circola a piedi, con carri trascinati da buoi oppure in bicicletta.
Le auto sono poche. Le abitazioni sono semplici, i bagni esterni, «a caduta».
Però, poiché nulla viene sprecato, il caduto è raccolto dai contadini e impiegato nella concimazione degli orti e della campagna.
L’acqua si preleva con i secchi alle fontane. Per lavarsi si utilizza una mastella e non è inusuale che nella stessa acqua, a turno, si lavino più persone. I bambini anche 2 alla volta, o fuori uno e dentro l’altro. L’importante è essere il primo... Il sapone si fa in casa con cenere, soda e, quando c’è, grasso animale.
 
Il cibo, quel poco che si riesce a racimolare, si cuoce sul focolare, spesso anche unica fonte di calore domestico.
Miseria, tanta. Ma sulle finestre, i ballatoi e i poggioli in legno non mancano i fiori.
Ogni donna, circa una volta al mese, procede al lavaggio dei panni e al loro risciacquo recandosi all’Adigetto o sulle ròste [argini] del fiume Adige, in prossimità del ponte di San Lorenzo, di fronte alle lavandaie di Piedicastello.
Tra grandi tinozze, lunghe file di panni stesi e ciàcere [chiacchiere], trascorrono le ore.
Alcune lo fanno per mestiere occupandosi del lavaggio delle lenzuola degli alberghi e delle famiglie più abbienti della città. Riposano di sera, nella penombra di un piccolo lume alimentato a combustibile.
Con i ferri lavorano a maglia, cuciono o, meglio, rammendano. Alla Portèla i ritmi di vita, le abitudini e le consuetudini nei rapporti umani sono antiche.
Qui si nasce e si muore in casa, tutti conoscono tutto di tutti ed è difficile che qualcuno sfugga dal vedersi appioppato un qualche appellativo scherzoso o ironico in base alle caratteristiche fisiche o attitudini.
Povera gente i portelòti, ma con una grande dignità, quella delle persone oneste.
 
Nadia Mariz 
(Continua)
 
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