Home | Rubriche | Centenario della Grande Guerra | «1906-1918, un Leone fra Brenta e Cismon» - Di Luca Girotto

«1906-1918, un Leone fra Brenta e Cismon» - Di Luca Girotto

Un libro importante sulle fortificazioni erette dal Regio Esercito Italiano a difesa del confine tra la Valsugana e la valle del Cismon

image

>
Agli inizi dello scorso mese di giugno era uscito il libro «La regione fortezza», decisamente monumentale, scritto da Nicola Fontana ed editato dal Museo della Guerra di Rovereto, che riportava tutte le fortificazioni erette in Trentino Alto Adige dall’Impero Austro Ungarico a difesa dei propri confini sud occidentali, non tanto dall’Italia quanto dalla Francia.
Un totale di 700 pagine che riportavano tutto quello che c’era da sapere sulle fortificazioni costruite «di qua» del vecchio confine.
Il nostro articolo di presentazione è sempre disponibile tramite questo link.
Un mese prima veniva presentato un altro volume, intitolato «1906-1918 Un leone fra Brenta e Cismon», scritto da Luca Girotto ed editato da Edizioni DBS.
Ne avevamo pubblicato la presentazione, sempre leggibile tramite questo link.
Abbiamo citato le due pubblicazioni perché presentano le evidenti analogie di un medesimo argomento visto da chi stava al di là e al di qua del vecchio confine.
La differenza sostanziale delle due opere sta nel fatto che la prima raccoglie in maniera dettagliata «tutte» le fortificazioni del Trentino Alto Adige, senza però riportare alcun fatto d’arme in cui siano state coinvolte. La seconda invece parla di una sola fortificazione ma ne riporta tutto ciò che c'è da sapere.
Vale la pena ricordare in proposito che un altro libro, intitolato «Tappe della disfatta» e scritto dall’ex ufficiale austriaco Fritz Weber che aveva passato metà della Grande Guerra in uno dei forti degli altopiani di Folgaria -Lavarone, rappresenta una pietra miliare per conoscere la guerra tra i forti.
Ma poco o nulla si sapeva dei forti eretti dall’altra parte del confine.
Il libro «Un leone fra Brenta e Cismon» è una grande opportunità per colmare parte di questo vuoto.
 

 
A monte di tutto sta il fatto che sia l’Italia che l’Impero Asburgico, ipocritamente impegnati nella alla Triplice Alleanza, avevano costruito dei forti a difesa dei propri confini in comune. Ha cominciato prima l’Impero Austro Ungarico, sia ben chiaro, per i motivi che abbiamo detto. Ma a fine 800 appariva chiaro ormai a tutti che prima o poi qualcosa di grosso sarebbe accaduto.
Di qui l’iniziativa del Regno d’Italia che, cercando di non farsi notare (come se fosse stato possibile), aveva costruito dei forti opposti a quelli austriaci sugli altopiani.
La logica era quella di impedire un’invasione, non quella di attaccare. Tuttavia, allo scoppio della guerra, i comandanti non esitarono un solo momento per scatenare i reciproci bombardamenti.
A quale scopo? Nessuno, se non quello di ricoprirsi di gloria come, al contrario, riuscivano a fare i colleghi impegnati sul fronte dell’Isonzo.
Gli Italiani provarono anche a sfondare la linea dei forti e quasi ce le fecero, anche se le fasi successive – quelle di avanzare nel territorio trentino – non erano neanche prese in considerazione dagli uffici predisposti a pianificare le operazioni.
Anche gli austriaci provarono a sfondare la linea dei forti italiani con l’Offensiva di Primavera, la Strafexpedition. E loro riuscirono a mettere in crisi il Regio Esercito Italiano per poco più di un mese, sfondando le linee per alcune decine di chilometri. Non di più neanche loro, perché la Grande Guerra non era una guerra di movimento. Solo a Caporetto vennero cambiate le regole di attacco per iniziativa degli strateghi tedeschi.
Quello che non sapevamo è ciò che accadde nei due periodi più critici per l’Italia (Strafexpedition e Caporetto, appunto) sui fronti meno importanti, come quello  dove era sorta la serie «minore» di fortificazioni italiane di cui al libro di Luca Girotto.
 

 
Tra la fine dell’800 e il primo decennio del 900, il Regio Esercito aveva costruito una serie di «tagliate» nei fondovalle dei fiumi Brenta e Cismon. Poi aveva avviato i lavori per la costruzione di fortificazioni sulle cime principali dei monti che si trovano tra i due fiumi. Queste ultime erano costituite da una serie di fortezze finalizzate a resistere agli attacchi austriaci e sparare con i cannoni da postazioni sicure.
Le costruzioni avvennero in funzione alle disponibilità di bilancio del Regno d’Italia e secondo le indicazioni del Genio militare dell’esercito. Nacquero delle opere belle sotto tutti i punti di vista, dotate ci camminamenti, casematte, depositi di tutti i generi, generatori di energia elettrica, elevatori per i proiettili, torri girevoli e torrette a scomparsa. Ma alla fine il tutto era ormai superato.
I nostri militari non avevano potuto tener conto della capacità devastante dei nuovi giganteschi obici austriaci, i cui proietti erano in grado di penetrare anche per cinque metri prima di esplodere.
A fronte dei nostri cannoni da 149/35 il nemico disponeva di mortai da 210, 240, 305, 380 e 420. Gli effetti di queste armi mostruose vennero alla luce solo al bombardamento di Liegi e Namur, quando le fortezze belghe (peraltro più resistenti delle nostre) vennero devastate nel vero senso della parola.
Ma altri due errori, uno tattico e uno strategico, avevano accompagnato le costruzioni fortificate.
Il primo era un errore di concetto. Portare in montagna dei cannoni a tiro teso e non parabolico rendeva praticamente inutile l’utilizzo dell’artiglieria, perché non era in grado di sparare oltre le montagne come invece possono fare i mortai e gli obici.
 


 
Il secondo era un errore propriamente bellico. Atteso che le fortificazioni erano per propria natura difensive, in quanto non in grado di spostarsi, erano nate sul presupposto che in quel tratto il fronte non sarebbe stato mai impegnato i grandi battaglie. Quello che non era stato valutato è che con lo scoppiare del conflitto i due eserciti adeguarono i propri confini per portarsi in posizioni più difendibili.
L’Austria arretrò le proprie linee e l’Italia avanzò per occupare i territori abbandonati dal nemico. La conca del Tesino fu occupata dal Regio Esercito senza colpo ferire, proprio per questo assestamento del fronte. Ma proprio questo aveva messo fuori gioco i forti eretti tra il Brenta e il Cismon. La gittata dei cannoni e le tavole di tiro portavano a postazioni dove ormai c’erano i nostri militari.
Resi praticamente inutili fin dall’inizio, il comando d’armata iniziò pian piano a disarmare i forti, perché i cannoni da 149 erano indispensabili altrove. La Stafexpedition della primavera 1916 accelerò i tempi, per cui mitragliatrici e cannoni vennero trasferiti per far fronte al nemico sugli altipiani. Un lavoro ciclopico peraltro, perché si trattava di installazioni fisse, con materiali che pesavano anche tonnellate e incastonati nelle postazioni.
Da notare che al posto dei cannoni, per trarre in inganno gli austriaci, vennero messi dei tronchi. E, a quanto pare, il bluff era riuscito.
Quando poi l’emergenza degli altopiani rientrò, le fortificazioni non vennero riarmate per i motivi che abbiamo visto. Servirono da caserme, magazzini, stalle e quant’altro.
 

 
E si arriva al 1917, l’anno di Caporetto.
Cadorna, superato lo shock iniziale e reagito all’impreparazione allo sfondamento dell’ala sinistra del fronte isontino, riuscì a impedire che la ritirata divenisse una rotta, portando l’esercito al riparo sulle linee naturali del Piave e delle montagne del Grappa e degli altipiani.
Come si può capire, la divisione che occupava la Valsugana, il Tesino e il Bellunese, dovette ritirarsi in pianura dietro le nuove linee stabilite dal Comando supremo. E qui si rivelò strategico il sacrificio di un battaglione comandato dal maggiore Olmi che affrontò l’incalzare delle truppe austro ungariche per consentire alla massa di manovra di defilarsi senza perdite eccessive.
Con questa ritirata fu necessario abbandonare i forti tra il Brenta e il Cismon. Alcuni vennero fatti brillare, altri, come Forte Leone, venne lasciato intatto perché i nostri soldati avevano opposto resistenza fino all’ultimo.
A quel punto gli austriaci si accorsero che i cannoni erano finti e che il forte era utilizzato a caserma.
Ciò non toglie che la conquista del forte fu pubblicizzata al massimo della stampa austro ungarica. E, in una fotografia destinata a passare alla storia (foto qui sopra), è stato immortalato l’Imperatore Carlo che osserva una torre del Forte, con tanto di tronco d’albero a imitazione del cannone da 149.
Quando poi gli austriaci, a fine ottobre 1918, dovettero «risalire le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza», prima di abbandonare Forte Leone lo fecero brillare.
Ma non fecero troppi danni. Il forte è ancora lì ed è visitabile.
 
Tutto ciò che abbiamo raccontato in questo servizio può essere letto nei dettagli riportati nelle 300 magnifiche pagine scritte da Luca Girotto nel libro Un Leone tra Brenta e Cismon, arricchite da altrettante fotografie inedite e da disegni originali della costruzione del forte.
Non solo, alla fine l’autore dà opportuni consigli a chi desidera andare a visitare ciò che resta del forte, che un po’ alla volta viene restaurato dal comune cui appartiene.
Insomma, si tratta di un libro decisamente importante per chi ama studiare la Grande Guerra.
 
G. de Mozzi


Condividi con: Post on Facebook Facebook Twitter Twitter

Subscribe to comments feed Commenti (0 inviato)

totale: | visualizzati:

Invia il tuo commento comment

Inserisci il codice che vedi sull' immagine:

  • Invia ad un amico Invia ad un amico
  • print Versione stampabile
  • Plain text Versione solo testo

Pensieri, parole, arte

di Daniela Larentis

Parliamone

di Nadia Clementi

Musica e spettacoli

di Sandra Matuella

Psiche e dintorni

di Giuseppe Maiolo

Da una foto una storia

di Maurizio Panizza

Letteratura di genere

di Luciana Grillo

Scenari

di Daniele Bornancin

Dialetto e Tradizione

di Cornelio Galas

Orto e giardino

di Davide Brugna

Gourmet

di Giuseppe Casagrande

Cartoline

di Bruno Lucchi

L'Autonomia ieri e oggi

di Mauro Marcantoni

I miei cammini

di Elena Casagrande